ILARIO ROSSI incisore, Re Enzo Editrice, Bologna, 1999
Adriano Baccilieri
Rari e rarefatti sono i segni nella pittura di Ilario Rossi: ora traiettorie che delineano, quasi sdefinite, limiti o lontananze di confini fra campiture dipinte, siano figure forme o astrazioni; ora intrecci fitti e rappresi, spesso graffiti, disseminati come un contrappunto saliente, forte ma isolato, nello spartito ampio e sovrano della pittura.
La struttura dell'immagine è come innervata da pochi, indispensabili elementi che ne assestano l'equilibrio; ma, sulla trama dissolta o contratta dei segni, che esalta un'arcana qualità 'totale' dei colori, prevale la seducente armonia del registro cromatico-materico. L'incisione vive invece dell'intensità e della ricchezza dei segni; il segno sta all'incisione come un verso alla poesia. Non è superfluo, credo, dettare queste premesse alla lettura dell'incisione, in Rossi. Ilario Rossi era 'costituzionalmente' pittore, per doti anche coltivate ma congenite, e genetiche persino, se si risale al talento artistico di suo padre Ferdinando, che è una figura da riconsiderare.
La libertà di una pittura istintiva e immediata, larga e pastosa, come Rossi l'ha sempre intesa, e felicemente compiuta nella qualità delle sue essenze cromatiche, appare in contrasto con lo spirito di disciplina che l'incisione richiede, con la prassi, il metodo e la tecnica, a tempi lunghi e passaggi anche indiretti, necessari per trasformare l'intuizione di un disegno in un foglio stampato. Sono note anche le doti di Rossi disegnatore: un tratto scorrevole, quasi continuo ed unico; spesso il solo contorno di una figura o poche linee compendiarie in altri soggetti. Se si pensano i disegni di Rossi risolti in incisioni, appare evidente che la caratteristica del suo 'segno' ben si presta ad una traduzione testuale nella tecnica della puntasecca; ne reperiamo qui, infatti, alcune belle prove. L'acquaforte è però altra cosa; impone ritmi diversi rispetto alla conversione, relativamente rapida e diretta, di un disegno (e del segno relativo) in puntasecca. L'aspetto poietico dell'incisione, e dell'acquaforte in particolare, è poi contestuale a quello tecnico, e interdipendente. L'incisione è 'antica' perché 'ritualizzata' nei tempi lunghi del pensiero che la intuisce, la sviluppa, la realizza e, contestualmente, della mano che disegna, poi incide e passa al torchio la lastra, dopo aver polita la matrice, passata la cera e affumicata la lastra; e, in seguito, acidata (a più morsure, se necessario), inchiostrata e impressa sul foglio, anch'esso oggetto di scelta e di cure secondo i mille diversi artifici dei singoli autori.
Poetica e tecnica costituiscono, nell'incisione, recto e verso di una stessa medaglia creativa più che in ogni altra disciplina artistica, e condizionano il 'modus operandi' dell'autore. Fissata tale nozione, intere stagioni della storia dell'arte potrebbero essere percorse indagando, nell'opera di vari artisti, le diverse (e perciò eloquenti) gerarchie che si istituiscono fra le singole discipline di lavoro. Quanto al rapporto pittura-incisione, nel nesso qualità-importanza, è difficile romperne l'equilibrio in Durer e Rembrandt; è possibile pensare ad una parzialità in Hogarth e Goya (incisione l'uno, pittura l'altro; forse); è facile esibire la radicalità del sommo Piranesi, che si vota interamente all'incisione, abdicando al ruolo di architetto. Non sono che pochi esempi, estensibili.
Punto di riferimento e partenza, prossimo a Rossi in ogni senso, ed altamente emblematico, è il caso di Morandi; difficile dire quale sia, nella sua opera, la 'musa maggiore' fra pittura ed incisione: così simili, così diverse, così necessarie l'una all'altra, entrambe capitali. Ilario Rossi, votato alla pittura, ha 'trascritto in corsivo' lo statuto capitale dell'incisione in Morandi (e la relativa concezione, figlia della storia e dell' 'antico') prima che le sue immagini. L'universo di Morandi, vicino e remoto, quotidiano e fuori dal tempo, comunque assoluto e perenne, riacquista - nella riflessione 'corsiva' di Rossi - un assetto effimero, come se l'iconografia morandiana fosse collassata in reticoli e trame allentate, nella fibrillazione dei segni, nel soffio lacunoso dei bianchi che spazzano la penombra dei chiaroscuri. Ma il 'morandismo' (testuale nella 'Natura morta' del '33, ma già reso 'corsivo' nella nutrita produzione coeva), o un certo 'neomorandismo' (inizio e fine anni Ottanta; vedute di Monzuno in particolare), pur costituendo un riferimento inevitabile per l'autore e chi ne scriva, non basta a risolvere in giudizio l'opera di Rossi incisore, proprio perché nell'intrigante 'ripetizione differente' offerta in versione corsiva consiste un segno di originalità (forte nella 'vibrata' esecuzione di 'Strada, alberi e case', '33), che consente infine a Rossi di sottrarre l'immaginario di Morandi al suo 'profondo', o alla sua intangibilità ('Albero', 'Piccolo paesaggio con pagliaio', '33). Contemporaneamente, con intelligente curiosità, l'artista rincorre altre sollecitazioni, fra Seicento bolognese e Carracci, fra il gandolfismo francesizzante (Romagnoli docet?) del 'Nudo di schiena' e il piccolo 'Autoritratto' da espressionista francese.
Rossi trova poi, nella seconda metà degli anni Trenta, registri ed accordi affatto propri, amalgamando esperienze culturali acquisite (anche Cézanne attraverso Morandi, influssi della Scuola romana, la lezione 'francese' di Corsi) con intuizioni ed invenzioni proprie. Anche l'incisione registra questo progresso, prima di avviarsi ad un lungo silenzio nel quale la pittura domina, assoluta protagonista. E' dunque naturale che, in seguito, le acqueforti di Rossi abbiano a prevalente riferimento i temi (e la concezione!) della sua 'musa maggiore', piuttosto che quelli di un disegno specifico per la grafica. Ricorre così l'impressione espressa in apertura di scritto circa una compatibilità, fra pittura ed incisione, che appare 'critica' nell'opera di Rossi, vista la sua valenza espressamente pittorica. Ma un'eccezione esiste, non a caso sorretta dall'intervento del colore, di ben sei colori: sono le straordinarie acquaforti-acquatinte del '58, in perfetta linea e sintonia con i dipinti corrispondenti, i quali segnano forse la stagione più importante nel percorso di Rossi, quella di un 'ultimo naturalismo' tachiste, destaeliano, quasi 'autre'. Eccezioni a parte, nella più generale condizione dialettica di lavoro, fra pittura e grafica, occorrerà reperire il senso e i significati che ispirano Rossi incisore; là dove interviene una volontaria, e quasi metodica chiave di riflessione grafica sui temi della pittura. La 'musa maggiore' dell'artista si offre alla rilettura di una 'musa minore' sensibile ed accorta, vibrante ed analitica. Sostanze, colori, forme, toni, tocchi e campiture della pittura ne escono come radiografati, in negativo; e, per effetto più che per compiuta traduzione, l'aura della pittura resta affidata alla sola persistenza della sua nervatura segnica - ora svelata, e infittita nell'affioramento - che prima appena trapelava, a tratti, nella trama dei dipinti. La sinopia grafica, pensata certo, ma mai tracciata o solo accennata, mentre quadro per quadro Rossi svolgeva il racconto della pittura, infine si rivela.
L'incisione ridefinisce, per segni, intrecci e qualche chiaroscuro, l'impianto grafico dell'immagine che la pittura ha sdefinito - di fatto o solo virtualmente - nei suoi impasti e negli spessori, mentre il pennello prendeva a trascorrere la tela. La pittura, per Rossi, è emozione diretta, azione; l'incisione si impegna a riconoscere il 'rimosso' della pittura, facendo emergere dal suo stato emozionale il segno, l'insieme dei segni della coscienza. Si è detto emozione; ma subito - nella pittura - questa si fa taglio, e invenzione (nel senso etimologico) del soggetto, o, meglio, 'sigla'. Così i paesaggi di Rossi, prima di essere anche un angolo specifico del mondo, del 'suo' mondo, sono l'idea e la memoria indelebile, filtrata da occhio e cuore, che l'artista bolognese ha della sua terra. E, analogamente, le figure: spesso un 'paesaggio del corpo', nudi sensualmente adagiati con la dolcezza di una collina. O l'insieme nutrito di composizioni, figurali o astraenti, risolte da Rossi grazie a quella stessa 'architettura', essenziale e rarefatta, che regge gli altri temi. Una 'sigla' che ricorre nel grande affresco, virtualmente unitario, del suo lavoro, rendendolo affatto singolare; una sigla della quale il catalogo completo delle incisioni offre ora una sorta di segreto, e perciò attraente, codice di identificazione.
Ilario Rossi. La seduzione informel
Un’apertura diretta e recisa sul taglio e le ragioni di questa monografia, che enuclea un tema operativo di alta e saliente consistenza dal più ampio lavoro di Ilario Rossi, può ben essere reperita nelle pagine del catalogo èdito in occasione dell’antologica, che, nel 1994, la Galleria d’arte moderna di Bologna dedicò all’artista. «Nessun altro incontro ha contato nella storia interna del pittore quanto quello con Morandi - scrive Pier Giovanni Castagnoli, allora direttore dell’istituzione e curatore della mostra - nessun’altra esperienza ha altrettanto profondamente inciso nell’orientarne la visione e modellarne la sensibilità; nessuna, tranne forse una sola, da cui Rossi fu attratto sul finire degli anni ’50 e che volle subito far propria in un’adesione priva di condizioni e in un trasporto colmo di entusiasmo».
Quella sola, altra esperienza consiste naturalmente nell’avventura di Rossi in seno all’informale; ed è il periodo dell’artista qui considerato, dal 1958 al ’62, e fino all’evento della Biennale di Venezia del ’64, se si vuole fissare una cronologia definita, la quale tuttavia non può ignorare – nel lavoro di Rossi e nelle sue opere di tipologia informel – sia estensioni di forte impatto, sia significativi precorrimenti.
Si riflette, nell’argomentazione di Castagnoli, il merito di un punto di vista largamente condiviso, nella sostanza, dalla letteratura critica – alta, importante e puntuale – che ha affiancato la ricerca di Rossi sulle rotte seguite dal pittore in sessant’anni e più lavoro, fra metà anni ‘30 e metà anni ‘90 del secolo scorso: dal morandismo al postmorandismo, dall’espressionismo figurale al figurale astraente fino agli approdi informali; e oltre, fino a quelle estensioni rarefatte dove figurale e astrazione felicemente convivono in declinazione mirabile e liminare. Ineffabili, nell’apparizione fra visiva e visionaria, se non fosse la parola del pittore a svelarne l’anima: «paesaggi bruciati dal sole e quasi da questo calcinati e trasfigurati in roghi e braceri bianchi o gialli; sono questi i soggetti che mi entusiasmano». Si deve certo conto delle molteplici varianti nelle letture dei singoli autori, rispetto alla convergenza sulla dualità Morandi-informale quale asse portante nello sviluppo della poetica di Rossi. Sono varianti consistenti, nei riferimenti stilistico-qualitativi o nei nessi filologici attribuiti all’opera dell’artista dall’uno o dall’altro critico; ma ancor più consistenti divengono, in un’ampia scala di valori eterogenei che quasi le oppone, quando il giudizio verte sul “quoziente informale”, modi e tempi, nella sua pittura. Incide pure - nella logica delle varianti - l’evolversi delle situazioni, o l’appartenenza dei critici a formazioni e geografie culturali diverse; e si può anche notare quanto la “tradizione del moderno”, radicata nel Novecento italiano, consenta minori libertà e aperture nel riconoscere accezioni autre (si tratti di Rossi, d’altri artisti, o del concetto in se stesso) rispetto a quelle che permettevano invece al mentore della tendenza, Michel Tapié, di accogliere figure che appaiono “non canoniche” - e sorprendenti in quella logica, si direbbe - quali ad esempio Sironi e Marini, nella sua ricognizione-saggio del ’52 sull’Art autre, la quale si offriva come una tendenza articolata ed aperta.L’approccio al “caso” del Rossi informel ha comportato al contrario qualche restrizione o negazione, a causa di retaggi ritenuti inamovibili o di parametri (troppo) rigorosamente adottati, così da produrre pareri dialettici e un ventaglio ampio di definizioni diverse sull’identità informale dell’artista: sia nominali, che relative alla qualità espressiva della sua opera, e alla sua tensione poietica. Tale identità, nella sua ascendente evoluzione, ha infine visto riconosciuta la sua singolare e forte valenza da una convergenza di giudizi autorevoli, puntualmente intervenuti ad attribuire alto significato all’opera in corso.
L’antologia critica che orbita intorno alla centralità del giudizio acquisito, merita tuttavia d’essere brevemente ripercorsa. Si va dal naturalismo di partecipazione all’astrattismo contiguo all’informale, dall’affiancamento alle voci dell’ultimo naturalismo (Bertacchini) alle suggestioni di naturalismo astratto (Carluccio); dalle «inclinazioni all’astrazione, che non lo rendono disattento alla problematica informale» (Azzolini) alla «stagione d’assonanze con gli ultimi naturalisti» (Basile); se c’è prima un «incontro che la sua pittura sembra riflettere, e in accezione centro-italiana, con le problematiche dell’astratto-concreto e del neonaturalismo» (Calvesi) e se c’è un incontro con l’informale (Menna), informale è forse una forzatura dei termini per Spadoni; fra «figurale-astratto e astrattismo naturale, di derivazione informale» lo ritiene Gorini, mentre Cavalli, che lo giudicava «naturalista oggi come ieri» riconosce poi che Rossi «si accosta alle esperienze dell’informale italiano»; Venturoli individua il passaggio «dai naturalisti all’informale materico alla De Staël»; alza il tiro Mirella Bentivoglio riferendosi all’“action painting”, dopo che l’aveva fatto Bilcke, ma pure all’espressionismo astratto e all’informale materico europeo; Arcangeli, dopo aver asserito che «l’astratto non sarà mai la sua vocazione» e considerato Rossi nel contesto nell’ultimo naturalismo pur riconoscendogli di non aver ceduto a quella tentazione, esalta poi con convinzione ed entusiasmo la piena dimensione informel, tachiste e destaeliana, attinta da Rossi nel ’58. L’artista, schivo da tutti gli “ismi” possibili, come dichiarava di sentirsi in un’intervista degli ultimi anni, si era riconosciuto per l’occasione in una più aperta concezione di naturalismo astratto.
Conviene davvero una ricognizione, nella doppia valenza di diversa perlustrazione da compiersi – ancora – nell’area informale dell’artista e di rinnovata coscienza di quella sua pittura, anche per rimuovere alcune rèmore, nei confronti di Rossi “informale”, che – come s’è visto – talora continuano a persistere. Così, è forse meglio sospendere ogni definizione specifica e accoglierne invece il senso complessivo nel concetto d’una “seduzione informel” operante nell’artista, come ho suggerito in un’occasione preliminare a questa monografia; una seduzione forte, intensamente avvertita e altrettanto intensamente emanata; l’esperienza che ha “profondamente inciso”, non solo secondo Castagnoli, nella sua parabola artistica. Ilario Rossi è stato artista di grandissimo talento naturale, pittore per indole congenita, pittore «fino al midollo» come lo definì felicemente Dino Buzzati; e, occorre aggiungere, artista di forte e alta vocazione figurativa, per introdurre un’antitesi preliminare, scomoda ma dovuta, alla tesi del Rossi informale che qui si assume. Tali tesi e antitesi non appaiono tuttavia contraddittorie in artisti della generazione di Rossi, o prossime, se si pensa – ad esempio – ai precedenti figurativi o figurali di grandi e diversi interpreti dell’informale italiano quali Capogrossi e Vedova, Morlotti e Fontana, o Leoncillo; o Mandelli per restar vicini alla Bologna di Rossi; o Fautrier e De Staël per allargarsi all’Europa; o persino cedere alla tentazione di ricordare, prima della “palestra” picassiana, le interpretazioni michelangiolesche e manieristiche prodotte dall’astro Jackson Pollock.
Il “peccato” di Rossi, che alimenta le rèmore nei confronti della sua identità informale, coincide per paradosso con la sua indole e vocazione; risiede in quell’anima figurale dal profondo respiro che il pittore non ha mai potuto né voluto negare.
Il ruolo che Rossi si è ritagliato nell’informale rispetta la sua indole e la critica vi s’è conformata, così da valutarlo in modo eterogeneo. Si tratta d’un ruolo d’allineato “non militante”, dapprima, ma anche di solista capace poi – specie negli anni ’58-’62 e fino al ciclo per la Biennale veneziana del ’64 – di voli radenti alle stesse quote e traiettorie di pattuglie più compatte e schierate. Talora – le opere lo attestano – capace anche di spingersi verso limiti altri e diversi, e in modo del tutto proprio, rispetto alla linea di tendenza più definibile, fosse quella del naturalismo informale dettato da Arcangeli, nel nesso cruciale ’54-’57 (date dei due saggi-chiave scritti dal critico in merito, Gli ultimi naturalisti e Una situazione non improbabile), o dei lessici segnico-materici dell’informale, i soli congeniali a Rossi fra quanti annoverati dalla tendenza, e aperti a molteplici declinazioni, in Italia ed Europa, nel passaggio fra i decenni ’50 e ’60.
Altri artisti, confluiti nell’informale o aree limitrofe, vi hanno condotto una militanza ortodossa; Ilario Rossi, no. Inizialmente restio all’adesione, nonostante il suo lavoro a quel tempo vi fosse già naturalmente predisposto, una volta intervenuto nel contesto con forza e continuità, non ha tuttavia resistito alla tentazione di toccare – complice la sua indole, nella clandestinità dello studio – i temi congeniali e congeniti della figurazione; anzi, proprio della figura, dato che il paesaggio meglio si prestava a farsi interprete della poetica di quel periodo, quale parvenza informale di natura.
Anche a Picasso è stato imputato il peccato di compresenza degli stili nei suoi anni ruggenti di ricerca, ove si voglia invocare un’attenuante illustre per certe bivalenti vocazioni nell’opera di Rossi. Più che una compresenza di stili, si può ammettere invece qualche periodica riconversione su temi cari a mano e cuore del pittore; specchi segreti indelebili, quelle figure, della sua stessa caratura d’uomo.
È poi singolare (o logico) che Rossi, quasi per una curiosa legge di contrappasso, una volta che il tema figurativo-figurale riprende la priorità nella sua ricerca – dal confine ’60-’70 in poi – ritorni pure sui motivi del suo periodo informel, producendone un’emblematica estensione differenziata.
Come in un periodico ricorso ai propri personali tramandi, cari al pensiero d’Arcangeli, riattinti con commossa e dolce ostinazione.
La vocazione figurale, dicotomica e complementare rispetto alla seduzione informel, era insopprimibile nonostante (o forse proprio per questo) Rossi fosse stato capace di darle voce superba e compiuta, nella sua prima maturità, fra la fine degli anni ‘30 e il decennio ‘40, in una serie d’opere che possono – e dovrebbero – essere ascritte al proscenio del Novecento italiano, già prima dell’adesione del pittore alla formazione di “Cronache”, che Rossi concorre a costituire in Bologna nel primo dopoguerra.
Fanno testo opere d’alta levatura, da Figure in ambiente e Cucitrice, 1935, a Lezione di musica, 1936, fino a Il gioco, 1938 (Premio Baruzzi); in seguito Sandra, 1939, Ritratto della madre, 1942, Nello studio, 1945; tutte opere fortemente risentite per impianto cromatico, agitate o persino squassate nella forma, in declinazione di vibrato naturalismo espressionista, non esente persino da echi e accenti dei Balla e Boccioni prefuturisti.
Qui ed ora – è stato sostenuto a ragione – Rossi esce decisamente dal solco della lezione di Morandi, per interpretare altri spartiti, pur detenendo il “registro tonale” appreso dal maestro bolognese; del resto, alle “aperture” Rossi non era nuovo grazie a quel padre straordinario, Ferdinando, maestro stimato di molti artisti e suo primo maestro, il quale, curioso dei nuovi fatti figurativi francesi e tedeschi, spingeva il giovane a copiare Braque, Picasso, Toulouse-Lautrec, Cézanne; c’era poi Carlo Corsi, ambasciatore di smagliante cultura postimpressionista-fauve con la sua pittura e di novità artistiche europee grazie alla sua imperdibile biblioteca in costante aggiornamento, frequentata sia da Rossi che dai più attenti artisti bolognesi.
A Bologna, anni ‘40, in un ambito artistico-culturale vivace, che già vede raccolti i protagonisti del gruppo destinato a divenire “Cronache”, il lavoro di Rossi – proiettato anche oltre la dimensione della città – attinge una sua prima superba maturità, accanto a Corsi, in sintonia con Sepo e Mario Pozzati, vicino a Minguzzi, Mandelli, Borgonzoni e Cingottini; seguito pure dalla lucida e partecipe intelligenza di Enzo Biagi.
Siamo in linea, grazie anche a quel cortocircuito d’informazione culturale, con i modelli e i movimenti che stavano segnando un’intera stagione di rinnovamento dell’arte e della cultura italiana; (n.d.r.: si rinvia agli apparati, per una notizia più dettagliata relativa a quegli anni, o ai nutritissimi ricordi di Mandelli, in Via delle Belle Arti (Bologna 2002), o alle testimonianze di Bologna anni 1930-40 (Accademia Clementina, Atti XVI, Bologna 1983), o ancora al catalogo della mostra “Artisti di Cronache”, curata da Arcangeli (Bologna 1970), infine pure alla mia nota, qui a p. .....,su un evento importante per la vicenda dell’arte italiana tutta, accaduto a Bologna nel ’48, quale fu la divisione del ‘Fronte Nuovo delle Arti’ in due frazioni: il ‘Movimento realista’, che rispose al richiamo all’ordine di Togliatti, e il ‘Gruppo degli Otto’ che, praticando il compromesso stilistico dell’astratto-concreto, tentò di ricomporre, con una soluzione alternativa, i motivi di dissidio che avevano portato alla frattura.)
Il forte naturalismo espressionista (di derivazione francese, area fauve) dei dipinti di quel tempo, faceva capire come Rossi, pur trascorrendo ancora qualche lontana orbita dell’atmosfera morandiana – fermo il registro di cui s’è detto – fosse proiettato ormai su rotte autonome e proprie. Opere di pittura solide nella pur morbida plasticità di figure e forme e ben ancorate all’innervatura compositiva, sempre dettate da magistrali selezioni cromatiche, dove regimi tonali o timbrici si alternano senza contraddizione, o persino talora coesistono in suasiva armonia dissonante.
La qualità eccitata della pittura e del suo farsi immagine induce a segnalare in Rossi un’intensa affinità con i grandi interpreti della Scuola romana, autori – insieme ad altri attori di diversi schieramenti – del destino dell’arte italiana negli anni della guerra e del primo dopoguerra.
«Le ragioni intrinseche alla pittura d’Ilario Rossi – sostiene Calvesi – si diramano di più verso il centro Italia: lungo l’arco del più qualificato ‘tonalismo’ nostrano, che collega la Bologna di Morandi alla Roma di Mafai, di Scipione e di Melli»; apprezzando l’artista «l’affocato mondo di Scipione attraverso il più accorato modulare mafaiano», come chiarisce Cavalli.
Quel capolavoro di Rossi che è il ritratto a figura intera di Sandra, 1939, n’è mirabile testimonianza; ma pure un volto di Sandra, 1942, e così Nudo, Fiori con conchiglia, 1945. Roma “di più”, secondo Calvesi, e si può convenirne; ma naturalmente anche la Milano di “Corrente” (Guttuso tramite con i romani) con Morlotti in prima linea nell’attenzione di Rossi.
Diversi per temperamento, Morlotti e Rossi si trovano in analogia nel rinnovare le rispettive visioni sulle orme materiche di Morandi, negli anni tra il 1941 e il 1944, nel crogiuolo fervido d’idee e di passioni che consentiva legami forti fra ambiti del fronte artistico-culturale italiano in evoluzione.
Certi loro dipinti dell’epoca hanno la stessa qualità plastica per tessuto pittorico e figura in metamorfosi propria di un momento particolare dell’opera di Morandi; quello che indusse Arcangeli alla splendida “eresia” di riconoscerla quale precorrimento dell’informale materico, quando sostenne che una certa linea dell’arte italiana partiva «dalle misteriose nature morte di Morandi intorno al ’30, quelle più libere di forma, di tono più segregato e denso di materia, quasi degli Ossi di seppia montaliani (…) per passare alle nature morte, ai paesaggi più squallidi, selvatici, carichi di plasma cromatico di Morlotti intorno al ’44».
Per proprietà transitiva (anatema di Morandi a parte, in merito) il giudizio d’Arcangeli si proietta sul Rossi di quegli anni, e sulla sua sintonia con Morlotti (sintonia destinata del resto a riproporsi anche più avanti, in clima di naturalismo, ‘ultimo’ o ‘informale’), la quale, in questo frangente, insiste inoltre anche su altri temi: figure di Morlotti, nudi di Rossi; e s’intende – per il bolognese - quella formidabile e nutrita serie di disegni del ’45, che prosegue pur diradata nel biennio seguente. Disegni di nudi femminili che ispirarono la penna e il genio di Enzo Biagi, amico fraterno dell’artista, quando ne scrisse in chiave di bellissimo rapporto corpo-paesaggio colto dal segno: «(…) corpi che hanno la morbidezza sensuale delle colline che tu dipingi, come donne forti, in quelle luci verdi, rosa, blu, che si lasciano contemplare o si abbandonano alla meditazione (…) hanno, dietro di sé, un mistero e una favola da raccontare: si sente che sono nate per vivere, e che sono cresciute dalle nostre parti. (…) morbide, ma non hanno nulla dell’odalisca, non denunciano la pigrizia dell’harem; ti offrono consolazione e abbandono, ma sono pronte a combattere con te; hanno i colori accesi della gioia, o gli spenti bagliori che lasciano intuire la rassegnazione e il tramonto (…)».
Per non dire – ancora in tema di disegno – d’altri fogli recentemente ritrovati e di cartoni coevi, invece già noti, forti e recisi nello stile di una nostrana “nuova oggettività”, i quali, prima dei bozzetti e dell’affresco conseguente, Ilario Rossi realizza a commemorazione della stage nazista di Marzabotto, che lo tocca anche per motivi familiari; non sono molte le opere analoghe d’altri artisti che vi reggano il paragone.
E’ sintomatico che Mirella Bentivoglio, autrice di una bella monografia sul Rossi disegnatore, dove il tema è sapientemente trattato, sostenga pure, per i suoi torsi e figure di fine anni Sessanta, un’ardita lettura in chiave autre, ricollegandoli a quella loro radice figurativa portata al limite. Viene così confermata anche da altre testimonianze l’interpretazione che si è data della vocazione a doppia valenza nell’arte e nel talento di Rossi.
Chiuso l’inciso, e tornando alla sintonia Morlotti-Rossi di quegli anni, conviene soprattutto notare come ora sembri affiorare in entrambi, ante litteram, un oscuro primordio d’informale materico.
Si vedano, per Rossi, opere quali Campo di bocce, 1936, Fiori sul tavolo, 1938, Primavera, 1942, Natura morta, 1943; ma pure Piccola primavera, Primavera buia e Venezia, fra ’46 e ’47.
«In quegli anni prima del ’40 – conferma Arcangeli, proprio nel testo scritto per Rossi nel ’58 – Morandi stava giocando le sue carte forse più segrete, affascinanti: da inebriare tranquillamente di sé chi avesse forza per intenderlo. Fu il caso di Rossi, pittore di vere doti native; ma le sue pitture morandiane non furono pedisseque».
La premonizione e il precorrimento che trascorrono nei dipinti citati, si sospingono fino alla Nevicata, 1950, della collezione Bortolotti (che, non a caso, apre qui la serie delle tavole) se è vero che nel dipinto, come ben intende Luigi Carluccio «la corposità materica si presenta addirittura come grumi sabbiosi che rendono irritata la superficie dell’opera»; assegnandole per questo, si può ben aggiungere, una sorta di chiara identità preinformale.
Materia, eccitata sensibilità cromatica, risentimento espressionista delle forme; sono tutti segnali, reconditi, di qualcosa che sarà; ma persino lo stato d’animo di certe periferie bolognesi è medianico e “oltre”: vi s’avverte il senso d’una «bucolica accorata e severa» – intuizione sottile e profonda di Gian Carlo Cavalli – pervasa di toni notturni d’elegia e inquieto presagio; vi appare una Bologna liminare e rimossa, nordica e visionaria, altra da sé rispetto al pacato tonalismo di morandiana matrice. Sono paesaggi e colline, orti e periferie, cortili e cascinali, fra ’39 e ’43, scarni poveri rarefatti; e ancora primavere buie che non fioriscono, campagne aride, fra ’46 e ’49, o uno scorcio di quartiere, Santa Viola, 1948, aspro come un Sironi.
«Splendide masse cromatiche – le primavere, secondo Carluccio – dove la pasta e il colore formano una cosa sola, fluente e al tempo stesso fiammeggiante, fatta di crepitii, di scaglie, e di lamelle trascinate nello stesso modo fluente e continuo».
«Certi paesaggi della seconda metà degli anni ’40 – avverte anche Spadoni – come mossi da interni sussulti, attraversati da luci inquiete, sono la premessa a quanto maturerà compiutamente nel decennio successivo, quando la materia si addensa, si estende in tacche, zone cromatiche quasi eccitate».
Sono paesaggi – aveva già prima inteso Arcangeli, fra accenti lirici e lucidità critica – dove «sembra battere il cuore della più grave, potente campagna bolognese»; dove «accanto al colore fresco dei solfati, è quello antico e compatto dei muri rustici»; dove l’artista è toccato dai «riflessi d’una lamiera in periferia, o dal macularsi dell’ombra e della luce sui cartocci delle tinte (…) fino ad accendere di fuochi vasti, di riverberi densi, spaziose e quasi slogate architetture (…) intonando così la sua vasta, forte elegia formale e cromatica»; dove infine «Rossi elaborò via via un suo postcubismo, spesso con ampiezza di ‘fauve’, e mai staccato da un libero rapporto con la natura; senza cadere, insomma, in quel compromesso più o meno elevato che in Italia ebbe il nome di ‘astratto-concreto’».
Convergendo verso il centro del tema, tali precedenti servono ad intendere come la poderosa, inestirpabile radice figurale nell’arte di Rossi infine alimenti, per mutazione genetica di forma-materia-segno della pittura, quella “seduzione informel” che, a sua volta, sembrerà svelarne l’aspetto recondito, dialettico e complementare, “altro da sé” e ineffabile.
Il rapporto identità-alterità nell’opera di Rossi (se si può così definire la sua doppia valenza formale-informale, figurale-astraente) alimenta cioè un interno processo ciclico, come nel lento e denso attorcersi del magma in profonde cave vulcaniche, finché il codice genetico della sua pittura (lo stesso, in sostanza) non si manifesta nei suo aspetti dialettici – o apparentemente dialettici – e complementari, secondo l’evolversi dei diversi momenti; si tratti del periodo informale, con il richiamo a precorrimenti e riprese, oppure di “ripetizioni differenti” nel tempo, o persino incursioni di una soluzione stilistica nell’altra.
“Somiglianze a rovescio”, si potrebbe dire ricorrendo al sublime pensiero di Novalis sul “contrasto”; o “similitudini dissimili”, le quali «conducono più il nostro animo alla verità, in quanto non permettono che lo stesso si fissi nella sola somiglianza», com’è asserito nella Patrologia latina del Migne.
Nella pittura di Rossi, il collasso d’immagine e struttura della visione naturalistica, e la conseguente parvenza residuale che persiste poi, che si fa nuova e altra immagine, sembrano mirabilmente fissare questa ambivalente verità fatta di somiglianze a rovescio fra figurale e astraente, fra formale e informale, sul confine che inaugurerà l’avvio della sua stagione autre; naturalistica, ma autre, dopo la rotta parallela all’ultimo naturalismo. Un confine che verrà segnato, quasi emblematicamente, dalla corale ascendente degli spalti e degli argini della “pittura”, ’58-’59, simili “a rovescio” alle morfologie di paesaggio dipinte qualche tempo prima.
Ma rispettiamo intanto le tappe di quell’evoluzione.
La fidente adesione al dato di natura, congenito in Rossi, è il tramite che lo sostiene nel convergere verso l’“ultimo naturalismo” promosso da Arcangeli. Fra i pittori interpretati dal critico, la figura d’Ilario Rossi appare decentrata anche se non marginale; non comparirà nel secondo saggio (e se ne capiscono i motivi), ma nel primo gli viene dedicata un nitida nicchia: «(…) un’aria d’inverno, un rado gemito di neve, bianca accanto ai primi verdi o al nero dei binari e dei fili, si sfogava pacatamente nella pittura di Rossi». Sono, ad esempio, Paesaggio invernale, Collina, dalla trama in fibrillazione, 1954 e Nevicata serale, 1955, qui in bianco e nero, nella sequenza tavole, come per “adombrare” l’incipit di Rossi.
Si possono intendere almeno quali accordi d’ultimo naturalismo, secondo Arcangeli, se non proprio compiute sinfonie, ma si deve convenire che in tale misura appaiono non dissimili dagli approdi di Mandelli, Morlotti e altri pittori “padani”, o ad essi affini, da Bionda a Giunni, da Chighine a Carena, da Birolli a Saroni, fino al gruppo spoletino di Marignoli, De Gregorio e Raspi, per offrire qualche riferimento, per suggerire alcune analogie, pur diverse per componenti caso per caso. Situazioni non dissimili e distinte; così Rossi voleva.
È inevitabile il ricorso all’unità di misura che Francesco Arcangeli, prima di riferirla anche a Rossi entro e oltre quel suo saggio, aveva definito più in generale.
Quel rapporto sé-altro da sé (io e natura, quale vertiginoso e insondabile confine dove si consuma una voluttà autre enigmaticamente indefinita) trascorre a intermittenza entrambi i suoi saggi-chiave – intuitivo e lirico il primo, informato a più estesi riferimenti e perciò fortemente motivato il secondo – in una chiave di referenzialità che Arcangeli definisce «senso del due». Ne raccolgo la traccia per frammenti: «(…) un rapporto, il senso del ‘due’ (…) la religione della natura (…) un limite amato, oscuro e presente (…) il limite delle nostre possibilità (…) un ‘due’ che la mente formale può astrarre in sé e regolare, ma che subito crea il desiderio del rapporto»; un rapporto nel quale si è oscuramente attratti, fino all’erosione.
È un’intuizione affascinante e tempestiva di quanto andasse germogliando, sul terreno della giovane ricerca artistica italiana, in sintonia con le esperienze dell’informale europeo e internazionale; ed è, al tempo stesso, un modo per trovare una risoluzione non ideologica dell’antagonismo tra formalismo e realismo che aveva irrigidito il dibattito critico italiano negli anni dell’immediato dopoguerra e già conosciuto un primo, insufficiente tentativo di conciliazione nella formula dell’“astratto-concreto”teorizzata da Lionello Venturi.
Rossi non era allora tanto lontano da questa soglia, anzi piuttosto prossimo; così da non avvertire la necessità di votarsi alla “militanza” in uno schieramento e una poetica che già sentiva propri.
Arcangeli, con la sua grande onestà intellettuale, riconosce che «Rossi non ha ceduto, come poteva, alle tentazioni dell’ultimo naturalismo; senza straniarsene, ha reagito a modo suo».
La reazione “a modo suo” viene motivata da Luigi Carluccio, il quale bene intende come la via di Rossi all’informale si estenda «tra le prove degli inizi e quelle dei suoi esiti ultimi, molto più sulle evidenti suggestioni di un naturalismo astratto” scevro da “esiti che in altri artisti sono espressionistici, retti da motivi esistenziali, cioè da angosce ineffabili (…) che nella opera di Ilario Rossi restano invece ai margini dell’immagine o rappresentano una breve, quasi inafferrabile frangia dell’azione nel suo processo gestuale».
La vocazione di Rossi all’informel, a quella cifra informel che sarà tutta sua e particolare, va perciò intesa e proiettata oltre il confine dell’ultimo naturalismo, e il suo “ritardo” («il dolce indugio», lo dice Calvesi) diventa necessità nell’artista di maturare una convinzione davvero altra e segnata da maggiore radicalità evolutiva rispetto a quanto accadeva in seno a quella formazione, come certi suoi dipinti già “al limite” di metà anni ‘50 attestano. Colline e alberi, 1956, Orizzonte (quasi speculare a una Siepe, 1952, irsuta e scapigliata di Mandelli), Inverno e Case al sole, 1957; ma più ancora, per il collasso della struttura, agitata – si direbbe - da interne scosse telluriche e per quel spatolar pittura a strati imbricati che si fa battente, Neve e alberi, Neve in periferia, Strada bianca, Paesaggio e Paesaggio forte, 1957, e, sullo stesso registro, Nevicata dai vetri, e ancora paesaggi – giallo e ghiacciato – fino ad Albero fiorito, tutti del 1958 (ancora l’alternarsi di bianco-nero e colore, nella sequenza delle tavole, vuole segnalare la progressione in atto nel lavoro di Rossi); fino a fissare nel (quasi) ‘dittico’di Paesaggio e Paesaggio scuro, ’58, una cesura decisa, che introduce il ciclo successivo, analogo per tendenza poetica, ma segnato da una poderosa complessione della pittura che, retta dalla struttura della materia-colore, svetta protagonista assoluta in primo piano. Conviene però ribadire che, prima di tale impennata, il ’57 è già, nell’arte di Rossi, un anno di forte informale naturalistico di qualità materico-tachiste.
Di nuovo Carluccio propone una bellissima lettura, quasi a contatto di pelle o persino interna alla pittura di Rossi di quegli anni: «(…) la struttura dell’opera appare più convulsa, e lo spettacolo quasi improvvisato come una tumultuosa convergenza di larghi masselli colorati su diversi punti focali, di tessere e tacche di colore (…) quivi si assiepa, si contrae, gronda e spiove, scoprendo l’ordito minuto della materia pittorica, la vivacità intrinseca delle tinte, una vivacità assoluta (…) nelle scale dei bruni, dei fulvi, dei verdi marciti, dei bianchi fumosi o ghiacciati (…) scoprendo l’incastro di tasselli, scalari o incrociati in un innesto continuativo, che ricalca la logica delle forme naturali».
Sono dipinti che, fra analogie e corrispondenze, fra “somiglianze a rovescio e similitudini dissimili”, possono ben confrontarsi, in modo diverso caso per caso, con le opere di Morlotti e Mandelli, di Bionda, Chighine e Giunni, di alcuni del gruppo di Spoleto: Marignoli, De Gregorio, Raspi; o ancora con Birolli, Corpora, e pure Saroni; forse Turcato, forse Ajmone. Se si volesse tentare una traiettoria lontana, aggiungerei i nomi degli statunitensi Philip Guston e Joan Mitchell.
La vertigine che Arcangeli intuisce, nella progressione dei due saggi e dei relativi contenuti, non è lontana dall’insaisissable formel – l’inafferrabile formale – teorizzato da Michel Tapié nel ’52; ma il suo “perdre pied” rispetto a ogni riferimento è radicale; troppo, per la “misura” dell’ultimo naturalismo.
Arcangeli lo chiamerà però in causa di lì a poco, per l’evolversi del suo pensiero e delle opere dei suoi pittori, per il progredire della tensione poetica, quando il critico nel saggio Una situazione non improbabile pubblicato in «Paragone» nel 1957, ma già in onda prima nella sua mente, non si sottrae al confronto, di merito informel, fra l’art autre del critico francese e il suo naturalismo non più “ultimo” in misura pur struggente ed erosiva, ma “oltre”.
È noto come l’accezione autre arcangeliana sia stata non poco contrastata, poiché la categoria della natura rientrava a stento, secondo la critica, fra i codici dell’informel. È pure noto quanto strenua e brillante sia stata l’argomentazione in sua difesa, e a sostegno della sua pertinenza, prodotta da Arcangeli in quel secondo saggio che impenna l’ultimo naturalismo precedente motivando la sua idea d’informale. Rossi non vi figura; ha però già avvertito che la tensione è alta e altra, ha già esaltato «i contrappunti del colore in un più aggressivo possesso della natura, matrice incancellabile dell’ispirazione», come intuisce Gian Carlo Cavalli presentandolo alla Biennale di Venezia, nel ’58; ma forse è poco, perché Rossi s’è risolto a una virata forte, d’angolo più ampio.
Si rivela infine qui, ad alta tensione, il codice genetico dell’informale di Rossi, da quell’Albero fiorito, 1958, citato, fino ad Paesaggio autunnale, 1959, per non dare che una linea di progressione; o in alcune piccole ma intensissime opere, quali Paesaggio, Paesaggio grigio, Argine verdastro, Argine malva, tutti del ‘59; per non dire dell’intero, poderoso ciclo del biennio ’58-‘59: argini e spalti di materia-colore che sanno di natura ma sono altra cosa, o forse, sono solo “pittura”.
Non c’è peraltro soluzione di continuità in Rossi, fra piccole e medio-grandi dimensioni; l’artista resta comunque, proprio come si dice nel gergo degli artisti “un gran bel pittore”; e proprio in questo frangente alto e saliente della sua poetica, intrecciando i pensieri di Calvesi e Arcangeli, si deve aggiungere a suo titolo di merito che Rossi resta pure «un bolognese confesso (…) con la misura della vita storica filtrata da un angolo di provincia, Bologna; ora divenuta però provincia del mondo».
Superfici assiepate, muri forestali che addossano l’impatto al primo piano ribaltandolo in verticale; spazi occlusi che trasmettono la vertigine dell’impenetrabile, alluse profondità residuali oltre quelli che chiamano inebrianti naufragi. Sono, nei titoli, argini e paesaggi, natura e stagioni (un pretesto, definirli così; o un vezzo, o un’ostinata coerenza, da parte dell’autore?); titoli dove la “chiave” del colore viene significativamente specificata, e dove talora – astraendo dal soggetto – il solo colore resta a “significare” l’opera. Ne ricorrono altri, oltre quelli citati: Nevicata verticale, Colle bruciato, Argine ed Argine alto, Paesaggio, semplicemente, e sono tanti, o verde-grigio, oppure, come acroterio, Colle bruciato, Grigio mentastro, Rosso, mattone e nero tutti ’58; e ancora Argine e case, Nevicata, Primavera, Paesaggio autunnale (già citato), ed altri, del ’59.
Si capisce bene la voluttà del Rossi pittore in quella gamma di “parole dipinte”: grigio mentastro, dorato, scuro, bruciato, verde grigio, grigio rosato; sovente, in accezione tutta rossiana: grigiastro, verdastro, rossastro per suggerire certe sue magistrali commistioni cromatiche timbrico-tonali, coordinate al registro dei grigi-bianchi-neri-bleu schierati a contrappunto; sovente, anche la neve, l’idea del bianco intriso di tonalità mirabilmente sporche; e ancora, il rimando ai colori delle stagioni, al loro timbro; polpe e paste vegetali spremute, pressate e spalmate; umori cromatici come di frutti maturi e decomposti, frammisti l’un l’altro a dettar gamme cromatiche squisite e inusuali, esiti d’un senso del colore e di trapassi policromi che sono in Rossi sconcertanti per maestria e singolarità; e l’empito della materia, pennellata spatolata graffiata, quasi modellata come duttile bassorilievo da incisioni, tocchi, rastrellate d’asticella; e infine addensata a regger tutto.
Nelle pagine critiche dedicate al Rossi preinformale ricorrono, fra gli altri, riferimenti vari, e in genere pertinenti, a Cézanne; potrà apparire singolare evocarlo ora, ma la trama compositiva, l’architettura pittorica di Rossi, pur nel largo adagio ispessito della materia informale, può essere debitrice del gran maestro francese proprio qui più che altrove; o altrimenti, mediando da quel suo folgorante pensiero, «un paesaggio si pensa in me, ed io sono la sua coscienza», si potrebbe dire della poetica di Rossi in corso: «un paesaggio si emoziona in me, ed io sono il suo sentimento».
Colpito dall’affondo di Rossi, Arcangeli gli replica al volo, da par suo, proponendo in un denso testo del ’58, di forte significato per l’artista, una risoluta proiezione francese della sua opera, in orbita autre, dintorni De Staël; e tachisme, come s’è detto. L’incontro con l’opera di De Staël, prima nel ’54, a Venezia, poi nel ’60, a Torino, è certo una determinante conferma per la nuova rotta battuta da Rossi oltre la deriva dell’ultimo naturalismo.
De Staël: quell’artista straordinario che aveva a lungo «contemplato, sopra la linea d’orizzonte, nel cielo immenso di Honfleur, il volo dei gabbiani e la deriva del suo sogno di fare immobile e assoluto il moto interiore della vita» (P.G.Castagnoli); una bellissima immagine che ben si attaglia al senso del lavoro di Rossi, tanto quanto alla sua identità di «‘De Staël emiliano’ – come Carluccio l’intendeva - in un senso che appare giustificato anche dalla crepitazione sensuale delle sue immagini, dalle preziose smaltature della sua pasta pittorica».
Aveva ben inteso il senso di questa soglia, di questo crinale sul quale Rossi si attesta, Maurits Bilcke, quando, per una sua mostra a Bruxelles tenutasi proprio nel 1958, in fase di piena accelerazione informel dell’artista, scrive che i nuovi paesaggisti italiani astratti propongono «un nouvel espace, une autre visibilité, une structure intérieure». Nuovo, altro, interiore; ma anche spazio, visibilità, struttura; o viceversa.
Le testimonianze della critica d’Oltralpe – risalenti tutte al ’58, vale notarlo – non si pongono limiti nel giudicare Rossi, tanto che Franc lo ritiene «uno dei migliori nomi della pittura italiana d’oggi», e Bilcke – come s’è visto - lo giudica un informel in prima linea, una voce dell’action painting persino.
Interverrà più avanti Mirella Bentivoglio a riflettere sull’importanza di quei giudizi, riconoscendo a Rossi la componente ‘action painting’ indicata per primi da Arcangeli e Bilcke e aggiungendo che nella sua opera «la vibrazione spaziale-cromatica riconduce alle grandi stesure a zone sovrapposte dell’americano Rothko (…) e le stratificazioni della sua materia lo pongono sulla via percorsa da Fautrier (…) così si compie l’incontro tra l’espressionismo astratto e le hautes pâtes informali legate a una tradizione europea».
Con le opere del biennio ’58-’59 (quelle citate, ed altre) Rossi alza la quota ad un livello davvero europeo. Sono pervase da un sentimento in enfasi, di forte impatto, tanto da poter suggerire il magnetismo di un’empatia fisica, com’è, analogamente, nei densi assiepamenti della pittura di Morlotti ancora, o del bolognese Bruno Pulga nelle sue “quinte” di natura, ma non mancano sintonie pur diverse con l’opera di Afro; e ancora, proprio per quel senso d’impatto con la materia, l’analogia può estendersi alle cortine poderosamente avviluppate d’un Pierre Soulages, benché l’effetto sia in lui ben più dinamico e gestuale; e infine, restando alla dimensione francese, e fermo il riferimento saliente a De Stael, si può aggiungere che Rossi, nel suo personale tachisme a grana larga, può ben rivendicare una posizione intermedia fra Jean Paul Riopelle e Maurice Estève. Inoltre - riprendendo altre letture critiche, che abbiamo riferito - certe sensazioni d’insieme possono sì richiamare, ma indirettamente, anche Rothko (ma allora, perché non anche Clifford Still?); certi passaggi di materia possono sì richiamare, ma parzialmente Fautrier; certe accelerazioni gestuali che possono sì richiamare, ma saltuariamente, l’action painting.
Al centro della “seduzione informel”, recepita e trasmessa da Ilario Rossi, converge un perfetto commento coevo di Maurizio Calvesi,1959, il quale coglie la chiave della singolare e personale evoluzione stilistica intervenuta: «Colpo su colpo di spatola, a placche più squillanti o più opache, d’immediata risonanza, l’assetto della pagina si configura per erte strutture, slogate e quasi improvvise (…) l’intrisa scansione dei colori va oltre il senso costruttivo per incidere sulla qualità saporosa del tono e dell’impasto, sulla fragranza, e flagranza, della notazione naturalistica (…) negli ultimi dipinti la struttura tende a riassumersi (…) l’orizzonte pende invisibile oltre lo sbarrato di vivi assiepamenti (…) questo gravitare sulla superficie, questo prossimo depositarsi e crepitare del colore, allude ad una forte imminenza dei sensi, ad un calore più aspro e svelato (…) per quel suo amalgama di paste che profuma di diverse stagioni». Paesaggi: con ulivi, grigio, lungo;i paesaggi delle collezioni Iogna e Selleri, Nevicata grigia, Case, verde e secco, e finalmente Paesaggio informale. Siamo intorno al ’60.
E ancora, altri autori, altri scritti, a frammenti, come echi della e dalla pittura di Rossi: «alti argini e spalti vertiginosi (…) bianchi e grigi che s’intingono d’azzurro, bruni che trapassano in viola, verdi che affondano nell’ombra per arrestarsi sulla soglia del nero; e neri e grigi e bianchi» (Carluccio); materia, ritmi, pause, pesi, valori; «risalire vertiginoso di piano verso un orizzonte quasi sospeso allo zenit (…) libera spazialità che (…) apre i suoi crateri, i fulgori bianchi attorno ai quali si raggruma una materia d’ombre limpide, spessori sottili di geologie messe a nudo» (Valsecchi).
Anche l’incisione, musa complementare assiduamente frequentata nell’arte di Rossi (la monografia ‘Rossi incisore’, (Bologna, 1999), ne presenta completa documentazione), offre una significativa integrazione alla poetica e all’opera di questo periodo, con una serie straordinaria di fogli del ’58: forti dell’impianto segnico-gestuale, e non a caso sorretti dall’intervento del colore, di ben sei colori, che rispetto al bianco e nero abituale sottolineano la perfetta sintonia con i dipinti, in un riflesso reciproco di temi legati ad una stagione esaltante.
Fu una stagione di crisi, nel senso attivo della parola – è stato scritto - di una crisi risolutiva. Una crisi ‘positiva’, com’è nell’antico etimo greco, ,e in quella cultura. È infatti il momento in cui la materia assume decisamente il ruolo di protagonista e concentra nella fisicità delle sue strutture tutti i valori dell’espressione: individuandoli come spessore che vuole alludere alla intensità della percezione della realtà naturale e alla forza dei sentimenti che l’accolgono; come supporto di una gamma di colori che, attraverso una scala cromatica tutta giocata sulle ottave più basse, su dominanti brune o fulve, suggeriscono allo sguardo e allo spirito dello spettatore un’interpretazione bruta, grave dell’opera; come, infine, elemento naturale di una aggregazione tettonica degli elementi compositivi.
Il questa catarsi sublime della materia, intervengono in seguito anche i segni di una crisi in senso più stretto, che porta a dipinti difficili eppur intriganti, fuori dal pieno della seduzione informel, e forieri d’una oscura mutazione che si sta predisponendo. Lo si avverte nel collasso, quasi nel deliberato dissestamento di certi paesagggi dei primi anni ‘60: Casa grigia, Periferia; paesaggi, in particolare dorato, verdastro, rosa-arancio; Grigio con ringhiera,e un piccolo paesaggio dedicato ad Efrem Tavoni.
Si aprirà infatti una prospettiva di lavoro che dal nutrito itinerario degli anni ’58-’60, dalle periferie e dai paesaggi “in crisi” d’inizio anni ’60, va verso le grandi composizioni di un ciclo d’alto risalto e di primissimo livello, ma anche conclusivo, per molti versi, del tema che si è sin qui esaminato.
Prima d’abbandonarlo, ripensiamo l’artista al centro di questa sua smagliante stagione, nel pieno d’uno straordinario stato di grazia operativo e poietico.
La seduzione informel, avvertita e trasmessa; una seduzione pervasa di profumi quasi più francesi che italiani, più tachiste che informel, più destaeliana e cioè formale, che votata alla “non-non-forma”, all’inesperibile formale predicato da Tapié. Due anime complementari; più che dialettiche, felicemente colloquianti. La seduzione informel di Rossi, in doppio registro, vive del brivido di un equilibrio sottile attinto sul crinale formale-informale; fra due versanti che lo assegnano a un’intrigante collocazione liminare.
Oltre il suo momento cruciale, la stagione informale di Rossi – intensa, come s’è visto ma di breve durata: dal 1957-58, appunto, a poco dopo il Sessanta – ha ancora una ripresa e, si deve notare, un’evoluzione davvero importante, con l’evento che tocca la sala personale alla XXXII Biennale veneziana del ’64, la quale si nutre anche del lavoro che la precede, predisponendola nel ‘63, e del suo senso affatto particolare.
Ancora una volta, Rossi compie una metamorfosi “a suo modo”, in un anno e in un contesto pregno di segnali quasi ufficiali di cambiamento: è infatti la Biennale che premia Morlotti e Capogrossi, grandi esponenti italiani di due diverse tendenze dell’informale, e sembra che il premio quasi formalizzi il compimento di un ciclo; è la Biennale cui approda a ranghi compatti la Pop Art statunitense, a conferma di una radicale evoluzione nell’arte; è anche un momento di ricerca in Italia, critico e creativo insieme, che insiste sul tema della “figurabilità” magistralmente inteso da Calvesi, ricco di spunti e fermenti, che avrebbe forse – senza l’“equivoco” pop importato – prodotto altri risultati rispetto a quelli pur felici e rilevanti che ha prodotto.
Nello scritto in catalogo della Biennale, Venturoli osserva che «(…) la ‘natura’ di Rossi, senza perdere di concretezza, mi par proprio che abbia acquistato in solennità, in larghezza. Se si tratta di sensazioni in un teatro di decorazioni, ebbene queste sensazioni decorate possono essere cugine di quelle del De Staël delle ‘paste alte’, nel periodo appunto, tutto astratto, anche se il tocco e la tavolozza di quest’ultimo e felice Ilario Rossi richiamano di più il De Staël ‘figurativo’».
La “ripresa” informale di Rossi, in quella Biennale, va letta in chiave di “figurabilità” autre; anche in chiave De Staël, ma non solo.
Se la seduzione informel persiste, è certamente in via di metamorfosi, tanto che non si può più parlare di informale in senso stretto (se non per lacerti, passaggi e accordi che persistono in quella serie di grandi tele) quanto piuttosto di un’aura figurale autre dov’è in gestazione, elaborata ma sciolta per maestria esecutiva, l’imponente sinopia di una diversa, arcana ‘figurabilità’. Qualcosa d’analogo a quanto emergeva in deriva postinformale dal lavori di Sergio Vacchi, seppure in chiave di più dolente e catartico disfacimento. Rossi qui esalta invece la ‘decorazione’ nel senso più alto del termine; nel senso della pittura che ammanta e fa proprio lo spazio, che trasforma l’ambiente suggerendone uno alternativo e virtuale; com’era nella grande tradizione dei cicli d’affreschi, com’era nei più moderni intenti del doppio abbraccio ellittico delle ninfeee di Monet, com’era nella poetica ‘decadente’ e sublime degli ‘interni’ di Bonnard, e della qualità malleabile della sua pittura nella piena e tarda maturità (un’analogia in più, per il Rossi di Venezia), com’era nella tapisserie della vita quotidiana riflessa, colta da Edouard Vuillard nella decorazione di casa Vaquez.
In proposito, l’artista ebbe a dichiarare: «(…) non è che intenda riproporre, negli ultimi quadri, un ambiente di ricco ‘liberty’ (alla Matisse per esempio) o di povero ‘liberty’ (alla Vuillard) o di granaio o di baraccone, ma di tutto questo vorrei cogliere il pretesto essenziale alla poesia e all’inserimento vitale fuggente, in termini imprevisti o di riflessione». I riferimenti erano pertinenti, ma Rossi dissimulava; mi permetto di dissentire.
Certo, non c’è ‘riproposta’; piuttosto, Rossi traspone tutto questo nell’attualità, con un linguaggio poderoso, completo ma compendiario, talora allusivo, sospeso, persino ‘incompiuto’, lasciando al prediletto strumento della materia-colore il compito di suggerire ciò che deliberatamente non affiora alla soglia della ‘figurabilità’; vi si potrebbe persino riconoscere l’impronta di un Corsi dilatato nella dimensione, e testuale nell’effetto; vi si potrebbe persino immaginare, talora, un conflitto corpo-spazio-oggetto-materia com’è in certe ‘reclusioni’ di Francis Bacon; infine «quanto il grande pittore russo De Staël abbia contato nella ricerca dell’artista bolognese lo danno chiaramente a vedere i grandi dipinti di interno e figura realizzati da Rossi intorno al 1963 - chiosa Castagnoli, che poi conclude - ma le tele del ’63, che Rossi espose l’anno seguente alla Biennale, segnano anche la conclusione di un ciclo e l’esaurirsi di una stagione».
Si deve convenirne, purché s’intenda che, in quell’esito, era implicita un’evoluzione sostanziale e compiuta all’interno del lavoro, e che la stagione, esaurendosi, stava però volgendo a nuove ed altre aperture.
«In nobili e decoranti architetture neo-liberty Ilario Rossi inserisce oggetti e figure elaborati con un’aggressione di pennellate ricche (…) in una sorte di cornice mentale, astratta” (M.Venturoli, in visita allo studio di Rossi, che stava preparando i dipinti per la sua sala in Biennale); lasciamo a questa dimesione ‘altra’ Grigio e azzurro, Torso ed ombra, Traccia per un bronzo, Liberty (con Frammento, in dittico), Spirituals, Come afresco, Composizione di fronte, tutti ’63, con Torso e Miscellanea, ‘64; lasciamoli «nello spazio mentale della tela, in architetture di forme sospese, dove la luce batte come su una brace», dove li colloca Tassi, lasciamoli immersi, come ci suggerisce «ora in un pulviscolo mielato di luce pomeridiana, ora in un acquoso chiarore mattinale».
E’ una dimensione altra ed oltre, ‘figurale’ – meglio, di ‘figurabilità’ postinformale - alla quale appartengono anche altre opere: qualche imprevedibile precorrimento (Drappo rosso e fiori, ’60; Fiori secchi, ‘61), dipinti predisposti ma non presentati in Biennale, Composizione, semplicemente, poi con diaframma e a righe, Figura in ambiente, Giocoliere, tutti ’63, e dipinti successivi ma da ascrivere alla stessa linea stilistica, Torso e pupazzo, Interno ed impronte, ’65. Il modo di far pittura che Rossi sviluppa intorno al tema e ai modelli del ciclo veneziano della Biennale è di grande consistenza, non sono per qualità, ma anche per numero dei titoli e dimensioni. Vi è poi una vena d’estremo interesse, ancor più strappata nel far pittura, ancor più dialettica fra materia libera ed allusioni formali, che da quel modo deriva, e sono opere fra ’66 e ’70: nature morte: sul seggiolone, con specchiera; poi Dalia, Danzatrice, Rose e ideogrammi, Marrone e azzurro, Liuto e drappo, Orfeo rosso, Figura, Parete e poltrona, Figura, Fiori secchi ed oggetti, quasi replicato in Liuto, fiori secchi e oggetti, Seggiolone e liuto.
Affiorano allusioni geometriche od oggettuali: le linee nella realtà fisica sono solchi dentro lo spazio, e lo spazio è talmente presente nella realtà tattile del pittore che gli oggetti immersi in esso sembrano ferite. Orfeo rosso merita poi una nota a parte per quel suo estendersi fluente sulla tela, in campiture larghe e semplici di due soli colori complementari o poco più; davvero un’astrazione geometrico organica che ha qualcosa di statunitense, fra Helen Frankenthaler e Robert Motherwell.
Tutta quest’opera, e il senso che detiene di ‘figurabilità’ altra, resta distinta, occorre aggiungere, dalle ‘estensioni’ fra informale e figurativo-astraente che in parallelo, d’ora in poi e fino alla fine dell’attività di Rossi, ricorreranno sul ‘leit-motiv’ del paesaggio.
E in chiave di diversa, e più affiorata, “figurabilità” autre, come ha intuito anche Mirella Bentivoglio, va letta pure la serie degli “androidi” e loro ambiente e cose che verrà qualche tempo dopo; autre in quella loro severa ostentazione di un’arché forte per valenza plastica, che sa in pari misura di cicladico e sironiano; dove ancora ricorre un’idea traslata dei torsi baconiani o delle stratificazioni di Fautrier; scabra ed aspra nei colori, come fosse dissepolta e atemporale. Tutti dipinti del ’67: Cavalcante, Manichino di latta, Nudo appoggiato, Partita a scacchi, Tavolo e frutto. Torso e tavolo, Pugili, Figura; «molti se ne restano là con il muso impalato senza un sorriso», prima di rivelarsi, come ha felicemente intuito il poeta Dino Buzzati; prima di «sorprendere e trasfigurare la molteplicità fenomenica delle forme, salde e possenti come sculture» in una dimensione altra, che un poeta ancora, Mario Gorini, ha altrettanto ben percepito nel nuovo registro figurale di Rossi.
Varie, significative estensioni e riprese interverranno nel corso degli anni seguenti, e fino all’ultimo, quasi Rossi continui ad avvertire dentro di sé l’urgenza di una doppia vena poetica, tesa fra volontà di ordire trame formali di chiara identità e attrazione per il segreto arabescato del loro “altro da sé” informale.
Fabbrica-cartiera e Fabbrica, ’65, Nevicata e Case e alberi bianchi, ’66, Estate e Paesaggio invernale, ’67, sono ‘estensioni’ che restano ancorate alla centralità della stagione informale di Rossi, pregne di quella seduzione, intense per qualità e peso specifico.
Rarefatte si fanno poi le trame, rallentati i ritmi, rari i segni – dipinti o incisi - nella pittura di Ilario Rossi, come in un profondo adagio corale, che non rinuncia a qualche acuto saliente. Vi trascorrono traiettorie che delineano, quasi sdefinite, limiti o lontananze di confini fra campiture dipinte, siano figure forme o astrazioni; vi insistono intrecci fitti e rappresi, spesso graffiti, disseminati come un contrappunto saliente, forte ma isolato, nello spartito ampio e sovrano della pittura.
La struttura dell’immagine è come innervata da pochi, indispensabili elementi che ne assestano l’equilibrio; ma, sulla trama dissolta o contratta di campiture e segni, che esalta un’arcana qualità “totale” dei colori, prevale la seducente armonia del registro cromatico-materico. Sostanze, colori, forme, toni, tocchi e campiture della pittura ne escono come quintessenziati; la sua aura persiste, residuale nei suoi impasti e negli spessori, sdefinita eppure indelebile.
Rossi cerca ancora nella natura (diversamente, con rinnovata dolce ossessione) l’emozione; ma subito – nella pittura – questa si fa ‘taglio’, composizione, invenzione (nel senso etimologico) del soggetto, o meglio, re-invenzione, e infine “sigla”.
Una “sigla” che ricorre nel grande affresco, virtualmente unitario, del suo lavoro, rendendolo affatto singolare; da Paesaggio giallo, Paesaggio rosa, ’68, ad altri paesaggi, colli, e nevicate fino a Nevicata e Nevicata a San Luca, ’70, e San Luca con neve, ’70 e ’71; ed infinitamente oltre, fino al compimento della sua vita d’artista.
Così i paesaggi di Rossi, prima d’essere anche un angolo specifico del mondo, del “suo” mondo rivisitato, sono l’idea e la memoria indelebile, filtrata da occhio e cuore, che l’artista bolognese ha della sua terra. La ‘veduta’, per essere stata rivisitata a più riprese nel tempo, si è fatta ormai immagine nella mente. È questa la ‘sigla’ che Rossi riproietta sulla tela quando compone un paesaggio, quasi una figura della memoria, rispetto alla quale la visione diretta si presenta come puro pretesto.
E, analogamente, le figure, o l’insieme nutrito di composizioni, figurali o astraenti, risolte da Rossi grazie a quella stessa “architettura”, essenziale e rarefatta, che regge gli altri temi.
Abbandoniamoci a questi dipinti, selezionandone alcuni disseminati lungo un ampio arco cronologico di lavoro, per suggerire l’idea dell’inesausta ed assidua attività di Rossi: Nevicata bionda, ’75, Muraglione, ’82, Neve e azzurro, ’84, Bianco ed ombra, ’87, Paesaggio autunnale, ’88, Progressione rossa, ’89, Città alta, ’89, Paesaggio invernale ’91; e si potrebbe ancora proseguire. Scorrendoli per passi concisi, intermittenti, essenziali ed intensi com’è nei frammenti che seguono, quasi per segreta corrispondenza si ritrova la loro cifra: «(…) con respiro più disteso, con un fare più sciolto, e ritmi più dolci e morbidi l’immagine torna a distanziarsi dall’occhio, affidata ad una materia più pacata (…) ma è un’immagine che dalla realtà naturale rimanda sempre più agli affioramenti della memoria» (C.Spadoni); « a dar voce nuovamente al tono dell’elegia (…) furono quei paesaggi, costruiti a larghi gesti, in una nuova sintesi di forma e colore (…) tramite per dare figura e moderna sostanza di poesia a un ‘paesaggio dell’anima’» (P.G.Castagnoli); « una sequenza di meditazioni sul paesaggio, più che una sua rappresentazione (…) un patrimonio sedimentato, assimilato e trasformato in un qualcosa di assolutamente originale (…) un ansare quieto, come di fondo; uno sfogliare, una pagina dopo l’altra, una storia» (B.Buscaroli); per ritornare infine alla «natura, con quei moduli collinari trascritti come un pallido presagio di una nuova aurora o come momenti attraversati dal senso elusivo di un sogno» (F.Basile).
C’è da augurarsi che il futuro avverta dovere di memoria di fronte all’opera di quel pittore grande ed inesausto che è stato Ilario Rossi, generoso come uomo ed artista; ne sarà ripagato restandone sedotto.