ILARIO ROSSI incisore, Re Enzo Editrice, Bologna 1999
Franco Basile
La pratica incisoria è l'aspetto meno rivelato dell'opera di Ilario Rossi. Pochi conoscono questo risvolto creativo anche per la ritrosia dimostrata dall'artista nel proporre un capitolo che è stato comunque parallelo a quello pittorico, se non un approfondimento segnico di ciò che sarebbe stata l'estensione cromatica di un pensiero. Parte da lontano la traccia calcografica di Rossi, un primo cenno critico viene fornito da uno dei suoi primi maestri, un uomo che ha sempre primeggiato nella sua memoria. "Il Corso d'incisione, nella Regia Accademia di Belle Arti di Bologna, fu istituito il 1° gennaio 1929. Ebbe l'incarico dell'insegnamento il prof. Augusto Majani che lo tenne fino alla mia nomina a titolare della cattedra, avvenuta il 1° febbraio 1930. Dato che la scuola funziona da pochi anni, non posso parlare di artisti di valore che in essi si siano formati ma semplicemente di allievi che danno bene a sperare. Essi sono: Bandieri Giorgio; Bartoli Giuseppe; Chiappelli Aldo; Mascellani Norma; Natali Giuseppe e Rossi Ilario." Sono parole di Giorgio Morandi tratte da una relazione sull'insegnamento delle tecniche d'incisione. È uno scritto essenziale e dosato negli accenti, con i nomi elencati in ordine alfabetico e con una chiusura in linea con l'enfatizzazione nazionalistica di quei tempi, sebbene anche in questo caso Morandi non si lasci prendere troppo dall'onda emotiva che all'epoca pareva trasportare tutto e tutti. "Insisto maggiormente sull'incisione a puro segno perché è stata una delle prime tecniche tradizionali dell'incisione classica italiana".
Una prima e remota citazione dunque, e da un uomo non troppo tenero nei giudizi. Si era agli inizi degli anni Trenta, Rossi si è diplomato nel 1933, aveva ventidue anni. Morandi doveva aver notato il suo segno forte e sicuro, una peculiarità che non lo avrebbe mai lasciato pur negli attraversamenti di scuole e di indicazioni linguistiche. Il '33 è un anno cruciale per lo svolgimento calcografico, pochi dipinti all'attivo, per lo più incunaboli di una poetica già allora rivelatrice di una immersione nelle atmosfere capaci di trasformare in enigmi cose e situazioni che l'abitudine rende opache. Una decina di dipinti in sette anni a partire dal 1927, venti acqueforti nell'anno del diploma contro una sola tela. Il '33 è l'anno di maggiore attività incisoria, il resto del tempo segna una produzione altalenante: un'acquaforte nel 1935, una nel '40, quindi 14 anni senza produrre una sola lastra, dal 1941 al 1955, mentre i dipinti si succedono regolarmente con punte particolarmente alte nel '44 e nel '50. Niente, comunque, in rapporto agli anni Sessanta e Settanta, con una cinquantina di tele nel solo '60 e addirittura un centinaio nel 1970.
Il ritorno alla lastra è nel 1955, ma si deve attendere il 1975 per assistere, fino al 1994, a un succedersi di lavori senza stacchi temporali, a una produzione mai intensa ma graduale e cronologicamente ordinata. Centododici le incisioni fino ad oggi registrate, rare vernici molli, tre puntesecche su alluminio, il resto è rappresentato da acqueforti su zinco o su rame. Condensare in poche pagine lo svolgersi di un'esistenza artistica è semplicemente impossibile. Racchiudere in qualche foglio ansie e umori, poesia e tormento, è come pretendere di delimitare l'estensione di un'anima. Non sono molti i racconti che Rossi ha scritto sulla lastra, eppure in ognuno di essi c'è un'idea, un piccolo mondo dove il sapore del magico si mescola alla memoria, e dove il mistero di un'ombra si fa stenografia del silenzio. Tutto questo sin da talune opere degli esordi, in quelle carte dove già misurava la memoria con quanto gli si parava dinanzi agli occhi, anticipazioni di quel naturale declinare del paesaggio che lo avrebbe portato alle consonanze informali dell'Ultimo naturalismo arcangeliano, alle declinazioni della così detta "scuola romana", a quel fare in sintonia con le calibrate variazioni geometriche e tonali di un De Stael, memore sempre del tratto e dei colori di Morandi, partecipe di un mondo che immaginava disseminato di specchi deformanti, capaci quindi di ricreare la realtà, la stessa che egli amava reinventare spalancando la finestra su paesaggi contigui alla memoria e alla fantasia.
Certo, risalire a una vita intera leggendo un centinaio di fogli non è semplice, sebbene in ognuno di essi vi sia il riassunto di un periodo. Si può tuttavia intraprendere un appassionante viaggio attraverso il ricordo, leggendo i segni scavati dall'acido o attraversando il tempo sfiorando il reticolo che forma una casa, un tratto di collina, una figura di donna. Vien da pensare che le incisioni siano la controparte della pittura, ma non è così sebbene Rossi non abbia mai nascosto il grande piacere del colore, quella sostanza che da sola o agglutinata in fasi tonali era sufficiente, ai suoi occhi, a definire qualsiasi cosa. Amava il colore, la sterminata produzione pittorica ne dimostra il primato. Era come se un rosso o un giallo facessero parte insostituibile della poesia. Aveva impiegato il colore anche in un'edizione grafica, forse il nero lo turbava, come un segnale della notte. Amava dipingere, affondava i pennelli nei luoghi dello stordimento finché il lato dove tutto gli sembrava mancare si dissipava tra le maglie del supporto telato. Probabilmente il nero acuiva il sentimento di caducità che il poeta nota ovunque, innanzi tutto in se stesso. Eppure è dal nero che i cento fogli traggono alimento, un nero magari illuminato da isole senza inchiostro, da spazi dove la stasi assolata di un'estate si fa riflesso di nuovi incontri con la luce. Cento e passa incisioni che si ricollegano ai giorni di Morandi e che costituiscono un inusuale rendiconto di tante sollecitazioni emotive. Inusuale per Ilario Rossi, scopertosi incisore quasi per caso nonostante l'avvio fulminante del '33, quando in un solo anno realizzò un quinto della produzione di sessant'anni di creatività.
L'idea di mettere ordine a tutto il proprio percorso non l'ha mai presa troppo seriamente. Il lavoro era una costante disorganizzata. "Dicono che le opere sopravvivono agli uomini - ricordava strascicando la erre e dando una tirata all'inseparabile toscano -: sai che cosa mi interessa dei giudizi della gente quando non ci sarò più?". Forse era solo apparente questa forma di disincanto. Una volta unì a un racconto inedito di Francesco Arcangeli un gruppo di sue incisioni. Fu nel 1982, Estati bolognesi è il titolo del lavoro. Il clima descritto è quello di una città dove le ore della notte paiono incollate alle ombre predestinate alla solitudine.
"...Un'altra estate è incominciata... Ricordo una nobile stagione, un'estate sospesa in un sudario di nubi pallide, dorate: banchi di cielo che parevano fermare le speranze e le fantasie ai loro confini..." Alle pagine di Arcangeli le incisioni di Rossi fanno da assorto controcanto. Anche in queste carte il linguaggio grafico è sicuro, il tratto icastico sebbene intervallato a vuoti come sospensioni del respiro. Il racconto risale al 1943, c'era la guerra, nelle parole di Arcangeli Rossi deve essersi ritrovato fino a rivivere le proprie, distanti notti bolognesi. Un'estate lontana, calda come quella vissuta cinque anni fa, poco prima di andarsene per sempre.
Anche alla presentazione del volumetto ci fu chi si sorprese di fronte alle illustrazioni di un artista ritenuto eminentemente pittore. Pochi ne immaginavano un simile risvolto linguistico. Del resto Rossi non aveva mai fatto molto per far conoscere tutti i tratti del proprio esercizio poetico, quasi considerasse l'incisione una questione personale, come si può facilmente intuire dal modo in cui riuniva i fogli, ovvero cartelle sparse qua e là, o in cassetti che ogni volta che venivano aperti era come mettere le mani in una scatola a sorpresa. Osservare queste carte è come seguire le indicazioni di un pensiero destinato a congiungersi all'ultima periferia del tempo. Sia pur senza un preciso ordine cronologico, si può ripercorrere, sollecitati anche dal lato fantastico, un intero tracciato esistenziale. Sfilano quindi i fogli come anelli di una lunga catena dove le cose e la natura sono gli interlocutori primari di una costante corrente emotiva. Ecco un paesaggio degli anni Trenta accanto a uno di quei nudi forieri di stenografici torsi, ecco uno scorcio del Navile, un lembo degli anni giovanili che si unisce ai modelli di una natura morta. Ed è una natura morta la sua ultima incisione, quasi un'eco inconscia della sublime serialità del Maestro di via Fondazza. Pochi oggetti, una rappresentazione dalle linee essenziali e impaginata in un contesto dove la geometria è sostenuta da linee poliverse, comunque indicative di un esercizio sicuro, capace di costruire nella luce l'essenza di un modello. Nelle traslazioni della natura come nell'architettura derivante dagli oggetti, è chiaro come il segno tenda a tenere insieme i diversi aspetti della realtà. Anche nell'incisione Rossi ha dato voce al senso del tempo, c'è riuscito segnando lo zinco nel modo più attento e sottile, oppure riducendo, attimo dopo attimo, i ritmi scanditi dalle ombre, i riflessi delle albe e dei tramonti, qualcosa che interpretava dalla cima di un colle, o che immaginava sotto la lampada di un garage.
La raccolta grafica di Rossi è composta prevalentemente di prove uniche e di tirature minime: "pochi esemplari", s'è spesso dovuto annotare. Abbiamo ricordato come tenesse i fogli sparsi ovunque, in mezzo a volumi o nei cassetti dell'arruffato studio che aveva in subaffitto con una Polo. Di giorno lui, di sera l'automobile. Ora l'ambiente è stato riordinato, alle pareti appaiono molti suoi lavori, sul cavalletto è rimasta un'opera incompiuta, un grande mazzo di fiori. È morto mentre lo stava eseguendo, versione colorata di un tema che poco prima aveva affrontato sulla lastra, e cioè due delle quattro incisioni eseguite durante l'ultima estate vissuta a Monzuno.
Rossi non si è mai fatto prendere dalla smania di lasciare qualcosa ai posteri, tipo volumoni pesanti come sculture. Chissà perché, si convertì invece all'idea di un libro che riunisse l'opera grafica. L'altra faccia della luna, sembrava dire scartabellando nei cassetti. E così, a poco a poco, foglio dopo foglio, ecco ricostruita una vicenda tratteggiata sulle lastre. Negli ultimi tempi aveva intensificato l'attività, come a voler tenere in esercizio la mano. Non aveva tentennamenti nel delineare il profilo di una collina o una natura morta i cui oggetti parevano uniti dal filo del ricordo morandiano. Pochi fogli, la faccia nascosta della luna da presentare come memoria di altrettanti stati d'animo, fogli come segnalibro di una vicenda che al colore unisce l'inchiostro. Le lastre sono state forse supporti di un piccolo mistero, una questione personale che l'artista ha lungamente tenuto nelle zone dell'arcano per rivisitarle di tanto in tanto come si fa con i ricordi che si vuole rapportare al presente. Ora sono qui, pagina dopo pagina, brevi resoconti di una storia iniziata tanto tempo fa sotto lo sguardo accigliato di un uomo come Morandi.
ILARIO ROSSI canto/controcanto,Re Enzo Editrice, Bologna, 2000
Franco Basile
Questa iniziativa nasce dalla visione di un volumetto con scritti e illustrazioni di Ilario Rossi. Edito nel 1983 da Piovan, reca il titolo "Dieci personaggi che contano", ossia esponenti della poesia e dell’arte debitamente ritratti dal pittore bolognese con la penna e coi pennelli. La pubblicazione è la prima della collana "Phoenix" destinata alla raccolta di saggi, monografie e documenti della creatività con un ventaglio di argomenti affidati di volta in volta a interpreti di primo piano del mondo culturale. Parole e colore, dunque, canto/controcanto come un brano che si sviluppa a più voci, con toni e accenti che si aprono e si chiudono tra motivo principale e contrappunto, con l’immagine e la parola scritta che si articolano in modo libero fino a una stesura idealmente rafforzata dall’accostamento dei linguaggi.
Perché solo dieci personaggi e non tanti altri, pure importanti? In una nota d’apertura risponde lo stesso autore: "Per la ragione che questi dieci li ho conosciuti di persona e frequentati". Poeti, critici, pittori, soprattutto poeti con i quali aveva stabilito un rapporto particolare, con la sostanza cromatica pronta a farsi carico di determinati afflati lirici per una coinvolgente sintonia che nel raffronto con altri pittori si manifestava invece poche volte, se non con maestri della levatura di Giorgio Morandi la cui "metrica" sentiva assai prossima al proprio animo. Anche Morandi figura nel volumetto, gli altri personaggi sono Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti, Francesco Arcangeli, Carlo Betocchi, Alfonso Gatto, Giorgio De Chirico, Carlo Corsi, Mario Gorini.
Pagina dopo pagina il racconto si dipana sulla duplice intelaiatura immagine-parola. Con lo svolgersi della scrittura scorrono le fotografie del tempo e con esse riemergono fatti, si focalizzano circostanze, si torna indietro e si rivede ciò che è stato. Si rivede anche l’artista, e noi che l’abbiamo conosciuto, possiamo immaginarlo con un libro di poesie in mano, davanti a una tela, intento a soppesare una rima per farne un’assonanza cromatica.Echi di parole, ricordi e segni lontani si univano alla sua fantasia come un sottofondo destinato ad accompagnare l’atto del dipingere. Ricordiamo una delle sue ultime opere: un’estate particolarmente affocata si stava stemperando tra i giorni di settembre. L’artista aveva lasciato da poco Monzuno, quieto rifugio sull’Appennino dove era possibile rifornirsi di luce e colori. Rossi ne faceva una grande scorta assieme a un rosario di scorci di alture e di valli, soprattutto di quegli effetti luminosi che rendevano inedito quanto era stato inquadrato poco prima. L’opera di cui si diceva è un paesaggio, modulato riflesso di una delle tante visioni d’estate, o forse un brano interpretato sull’onda di un motivo poetico.
Legata ai luoghi e alla seduzione del ricordo, la pittura di Rossi è prevalemtemente un fenomeno mentale, come appunto quel paesaggio che pareva inventato nella penombra di uno studio dove gli oggetti avevano l’emblematicità di presenze numenose, o si attenevano alla tabella del tempo come segnali dell’avventura umana nella sua quotidianità. Un colle appena marcato nello stacco fra concreto e astratto, indizi di realtà, parvenze vegetali che sembrava volessero far confluire il loro verde in un sogno d’oltrecielo montaliano. Posato sul cavalletto, sotto una lampada riparata da un foglio di carta stagnola, la visione di quel dipinto torna alla mente come sospinta dal passo di una poesia.
Ilario Rossi ricorda di aver conosciuto Montale all’inaugurazione di una mostra a Milano. "Con il suo cipiglio scettico e scrutatore e con aria distaccata da intenditore, si soffermava davanti ad ogni quadro ed esprimeva, a chi glielo chiedeva, giudizi acuti sull’opera e sull’autore, non senza avere battute pungenti verso gli imbrattatele". E nel ritratto, eseguito con tocco felice ancorché icastico, il poeta sembra sul punto di un alato pronunciamento: il sopracciglio sollevato, il busto eretto, la bocca presa da una piega amara, ha l’aspetto di uno che, scandalizzato da chissà cosa, intende emettere una sentenza senza appello. "Mi sono più volte accostato alla poesie di Montale - ricorda Rossi -... Quelle sue colorite e intense composizioni de ‘Gli ossi di seppia’ che lo dovevano subito rendere celebre, da ‘Meriggiare pallido e assorto’ a ‘Portami il girasole’. Belle pure per l’alto potenziale lirico le poesie delle ‘Occasioni’".
Un altro dipinto ci colpì in quel giorno di settembre. Un algido paesaggio che il pittore aveva eseguito molti inverni prima, e al quale sembrava tenere moltissimo. "Questo non deve uscire dallo studio", diceva con tono cospiratorio. Si guardava attorno ed era chiaro che la raccomandazione era rivolta più a se stesso che ad altri, visto che era lui a decidere quali opere dovevano uscire dallo studio. Ora, nonostante gli anni abbiano velato tante cose, il pensiero attorno a quell’opera resta integro, forse perché lo abbiamo collegato a un passo montaliano, con quei toni chiari e quelle scansioni che offrono varchi su mondi autentici, parole e colori per un dialogo che traluce presagi di più effusive discorsività, schede che eludono il mistero grazie a un cifrario che si identifica con l’evidenza delle cose: ovvero, con la verità.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di natura
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità. (da "Ossi di seppia").
L’ombra si distese avvolgendo il bosco come un manto incupito; poi si spinse fino a un crinale, ombra muta e trasparente. Un’aura di assenza estatica aveva preso tutto. Si stava avvicinando l’ora letargica del crepuscolo e tutto appariva come in una bolla esistenziale, con il paesaggio che nel momento del trapasso cedeva le proprie forme ai segnali lanciati dai lampioni, alle finestre con i vetri azzurrati dalle televisioni, ai fari delle automobili che perlustravano le strade. Quelle delle auto erano luci che andavano e venivano, seguivano la sinuosità delle strade assecondando sbalzi e costoni.
Viste dal paese era come se formassero un corteo spaziale, o una via lattea di periferia. E’ una scena allestita dalla natura pochi mesi prima che il pittore se ne andasse per sempre. Anche questa una rappresentazione tra i declivi del paese appenninico. Difficile trasferire certe sensazioni con l’elemento verbale. "Anche con i colori non è facile", aggiungeva Rossi, che prendendo atto dell’indeterminatezza di quegli istanti annotava mentalmente la stesura della notte per trattarla a modo suo, magari il giorno dopo, in un cielo non oscurato, con la luna trasformata in una virgola luminescente dietro la curva rigonfia di un colle.
La notte evoca forme indistinte. Quando scompare l’ultima parte del tramonto e le palpebre della giornata si fanno di pietra, si comincia a pensare agli eventi trascorsi rapportandoli alla gioia e al dolore, all’inizio e alla fine, come in un teorema di luci e di ombre. Quando manca lo stordimento di un sogno, il silenzio ha la stessa incisività di un acuto e la mente viene sottoposta a un incessante lavorìo. Si pensa, e si immagina di tutto mentre fantasmi riemergono dal passato per annunciare con voce commossa di voler fare nuovamente parte della recita esistenziale. A Rossi succedeva spesso di esplorare la notte. La luce è più chiara quando si conosce la profondità del nero. Era attratto dal mutare dei colori, alle ore dava scansioni personali che i dipinti ricordano nel fluire di segni. Con pochi tratti dava l’idea di un’emozione, sapeva cogliere l’essenza del circostante liberando lo sguardo da funambolismi intellettuali. Per questo sentiva vicina la scrittura di certi poeti, come quelli che con quattro parole sanno descrivere la meraviglia dell’immenso. Uno di questi non poteva che essere Ungaretti, conosciuto a Formia durante un concorso di pittura e rivisto anni dopo a Bologna in una serata culturale. "...Subito mi riconobbe e insieme ricordammo i giorni di Formia. Era con me anche Morandi". Un avvenimento data la ritrosia del maestro di via Fondazza agli incontri. Non usciva mai di sera, "ma quella volta fece un’eccezione. ‘Lo faccio solo per Ungaretti’, mi disse. Insieme ascoltammo poesie magistralmente strascicate dalla sua voce rauca e ansimante". Ungaretti lesse brani dal "Sentimento del tempo"e dal "Dolore", tra cui quella dell’"Angelo e del povero".
Di notte è più facile imbattersi nel mistero. I tratti del giorno da poco concluso non sono che indizi di entità che si perdono nell’indeterminatezza. A una certa ora tutto porta al sogno e alla presunzione di 8 poter dare una caratura all’indistinto. Poi, quando giunge l’alba, il tempo perde lo spessore della fantasia, le cose acquistano nuovo significato e le parole sono rese più vibranti dalla tensione con cui vengono trasmesse. Il primo mattino ha il sapore del ferro, le immagini riprendono i contorni di sempre; e come sempre, nell’atto creativo hanno rinnovata voce e colore diverso. I passaggi di "O notte" dovevano attraversare sovente il pensiero di Rossi. La notte evoca forme indistinte. Quando scompare l’ultima parte del tramonto e le palpebre della giornata si fanno di pietra, si comincia a pensare agli eventi trascorsi rapportandoli alla gioia e al dolore, all’inizio e alla fine, come in un teorema di luci e di ombre. Quando manca lo stordimento di un sogno, il silenzio ha la stessa incisività di un acuto e la mente viene sottoposta a un incessante lavorìo. Si pensa, e si immagina di tutto mentre fantasmi riemergono dal passato per annunciare con voce commossa di voler fare nuovamente parte della recita esistenziale. A Rossi succedeva spesso di esplorare la notte. La luce è più chiara quando si conosce la profondità del nero. Era attratto dal mutare dei colori, alle ore dava scansioni personali che i dipinti ricordano nel fluire di segni. Con pochi tratti dava l’idea di un’emozione, sapeva cogliere l’essenza del circostante liberando lo sguardo da funambolismi intellettuali. Per questo sentiva vicina la scrittura di certi poeti, come quelli che con quattro parole sanno descrivere la meraviglia dell’immenso. Uno di questi non poteva che essere Ungaretti, conosciuto a Formia durante un concorso di pittura e rivisto anni dopo a Bologna in una serata culturale. "...Subito mi riconobbe e insieme ricordammo i giorni di Formia. Era con me anche Morandi". Un avvenimento data la ritrosia del maestro di via Fondazza agli incontri. Non usciva mai di sera, "ma quella volta fece un’eccezione. ‘Lo faccio solo per Ungaretti’, mi disse. Insieme ascoltammo poesie magistralmente strascicate dalla sua voce rauca e ansimante". Ungaretti lesse brani dal "Sentimento del tempo"e dal "Dolore", tra cui quella dell’"Angelo e del povero".
Di notte è più facile imbattersi nel mistero. I tratti del giorno da poco concluso non sono che indizi di entità che si perdono nell’indeterminatezza. A una certa ora tutto porta al sogno e alla presunzione di 8 poter dare una caratura all’indistinto. Poi, quando giunge l’alba, il tempo perde lo spessore della fantasia, le cose acquistano nuovo significato e le parole sono rese più vibranti dalla tensione con cui vengono trasmesse. Il primo mattino ha il sapore del ferro, le immagini riprendono i contorni di sempre; e come sempre, nell’atto creativo hanno rinnovata voce e colore diverso. I passaggi di "O notte" dovevano attraversare sovente il pensiero di Rossi.
Dall’ampia ansia dell’alba
Svelata alberatura
Dolorosi risvegli
Foglie, sorelle foglie
Vi ascolto nel lamento.
Autunni,
Moribonde dolcezze.
O gioventù,
Passata è appena l’ora del distacco.
Cieli alti della gioventù,
Libero slancio.
E già sono deserto.
Perso in questa curva malinconia. (da Sentimento del tempo)
Nei ritratti dei dieci personaggi si nota certa marcatura dei tratti fisionomici, senza però arrivare alla caricatura vera e propria. Tutto sommato, la mano del pittore è stata lieve, sicché la bonarietà ha stemperato quei caratteri che avrebbero invece fatto felice qualsiasi disegnatore satirico. Ma è chiaro che non c’era nessuna intenzione di calcare la mano in Rossi, uomo assai compìto e riguardoso nei confronti di personaggi che stimava e ammirava. Di Quasimodo viene addirittura accentuava la distinzione. "Lo vidi per la prima volta ad un concerto. Era attorniato da eleganti signore...Gli chiedevano l’autografo al libro ‘Ed è subito sera’. Mi colpì il suo viso gonfio e ben rasato... I suoi occhi neri e taglienti e l’impeccabile taglio del vestito davano alla sua figura una virile nota di fascino. La poesia di Quasimodo mi ha sempre entusiasmato, per la dominata liricità e per l’accorata partecipazione umana. Una delle sue poesie più alte, per me, è ‘Davanti al simulacro di Ilaria del Carretto’ che ho 9 letto e riletto anche per il seducente richiamo al capolavoro di Jacopo della Quercia".
Le opere ci raccontano lo sguardo del pittore sul mondo, o meglio sulla terra dove è nato e dove è vissuto, quei luoghi natali mitizzati da Quasimodo come un eden perduto. Con un linguaggio evocativo e insieme lontanante, Rossi ha costruito le proprie visioni con equilibrate modulazioni nello spazio di un frammento, in particolare quando sentiva di dover appuntare con immediatezza qualcosa che il tempo avrebbe potuto cancellare. Da una parte c’è la realtà, dall’altra la bellezza, diceva Virginia Wolf. Il pittore ha sempre avvertito quanto si cela oltre il vero, doveva solo soppesare i tempi per captarlo e stabilire la misura narrativa con cui dare voce all’intuizione. Proprio come si deve fare con un tratto di elegìa, dove semplicità e purezza si accordano fino a stabilire una duttile musicalità.
Sono lontani i giorni in cui Rossi ha incontrato i dieci personaggi del libro. Deve aver preso nota di tutto come si fa in un diario dove vengono segnati gli avvenimenti più importanti. Nel volumetto i ritratti e le parole viaggiano insieme, testimonianza di un rapporto con la poesia che in Rossi si è manifestao anche nell’illustrare una raccolta di liriche di Catullo. Il tempo delle cose si è fermato nei quadri, consolidato da pennellate di grigio e da accensioni lievemente azzurrate. Il pittore rimaneva a lungo nello studio, smetteva solo quando la luce non dialogava più con i modelli delle nature morte, oggetti-amuleti, avrebbe detto Montale, metafore d’arte rafforzate dall’immaginazione Anche il tempo di Rossi si è fermato nei quadri, dopo aver a lungo studiato il cielo di quell’estate sull’Appennino, con il sole che chiamava continuamente a raccolta le coordinate della luce fino a tingersi di vermiglio in maestosi tramonti, con le notti portatrici di un mistero che si sarebbe concluso, forse, nel sonno.
Dormono le cime dei monti
E le vallate intorno,
i declivi e i burroni... (Quasimodo - Lirici greci)
ILARIO ROSSI, Grafis Edizioni, Casalecchio di Reno (Bologna) 1992
Franco Basile
Il segno di Ilario Rossi è un filo che attraversa la memoria, una linea che attinge agli umori di una geografia ideale per un viaggio che negli ultimi tempi pare inoltrarsi sempre più nella soffice palude del silenzio. Ed è un fare colto questo modo di tratteggiare situazioni fra archeologie fantastiche e invenzione: è la risultanza di un ampio lessico innestato nella semplicità di una struttura tipica, personalissima, esito di uno sguardo esercitato alla lettura e alla trascrizione continuata di intime espressioni. Si avvicendano così visioni di misurata eleganza e improvvisi materici, scansioni luminose e indugi descrittivi, quelle esperienze evocate dall'interazione di colori contrapposti, aeree metafore di stati emotivi come ciondoli di ricordi appesi a un cielo ricreato in un garage. Perché è in un box sottocasa che Rossi compone molte opere, in un ambiente dove gli odori delle vernici si mescolano a quello dell'auto e dove passato e presente si fanno cogliere da balzi di luce trascolorata dalla polvere. La realtà è fuori, lontana; gli eventi della vita sono schegge impazzite che tagliano l’aria, a volte l’esistenza ha un significato sfuggente, fatto di palpiti còlti a distanza che subito si confondono con i brani della memoria.
Come un laboratorio stellare, la "cabina dei pensieri" è al centro del locale, fra barattoli, pennelli, tubetti, e spatole. Il cavalletto è la plancia con i comandi incorporati nei depositi degli olî aggrumati nel legno. L'artista si muove in un'aura un po' criptica, forse per lo svolgimento di una penombra che pare incisa sul rovescio delle cose. Fuori, lungo la strada che corre ai piedi della collina, passano solo auto. C'è molto verde attorno, in certi momenti il gioco delle assenze crea spazi deserti dove premonizioni ed echi si uniscono alla pratica fantastico-onirica. Sono momenti in cui i fatti tendono al sogno, ma sono spazi troppo ristretti per unirsi al mito, troppo limitati per intraprendere, sicuri, un viaggio nel passato. La realtà è un angolo impietrito sotto i riflessi di una lampada alogena; meglio la "cabina dei pensieri", meglio la penombra del garagedove è semplice farsi prendere dalla seduzione dei ricordi e dove si possono immaginare anelli galattici che descrivono mondi infiniti, qualcosa che la mente accomuna alle esperienze già vissute e che permette di raccontare, alla luce di nuove esperienze, gli stessi fatti; ovvero, qualcosa che può dare un senso a tutto quanto è destinato ad essere bruciato dal calore bianco del distacco.
Nella sua lunga esperienza estetica Ilario Rossi ha sempre dato rilievo alla ricerca cromatica articolando l’indagine nella specificità di un segno esemplare, come dimostrano le luminose tessiture delle sezioni. Esemplari anche i passaggi da un ciclo compositivo all'altro, e quel suo apparire in linea con i movimenti più avanzati, ancorché in grado di esprimersi in chiave autonoma. Così, fino alle ultime risultanze, a quei motivi che lo vedono ancora, forse più che mai, tenacemente rivolto a un'azione descrittiva in cui il ricordo fa da tramite alla poesia. È un confronto con quelle visioni che lo hanno accompagnato per quasi tutta la vita, è uno specchiarsi nel vero per poi traslare i termini naturali in un contesto che sulla tela assume una ben scandita impaginatura spaziale. Ancora una volta, dunque, il mondo circostante e l’esercizio dell'evocazione emergono in primo piano; un tema, se così possiamo definirlo, affrontato con la fedeltà di chi sa trarre dalle cose e dalla luce inesauribili motivi di traduzione cromatica. Certo, molti anni sono passati dai primi approcci con le sottigliezze descrittive di taluni francesi, come remoto appare l’interesse per la coloristica fauve o per l’espressionismo americano. Erano giorni intensi, di scoperte e di ansiosa partecipazione, senza però rinunciare alla propria indipendenza, al di là di ogni referente. I tempi delle figure, delle geometrizzazioni cézanniane e delle icastiche cromìe dei torsi paiono essersi persi in una nuova e più profonda dilatazione atmosferica, ma non è così: gli antichi segnali restano, larve magmatiche, virgole di sogni lontani che si uniscono ai moduli di immagini che hanno assunto una diversa compattezza, un evoluto deposito di piani plastici, una realizzazione succedanea, forse, al desiderio di concedere maggiore evidenza al passaggio della luce in un clima che oscilla tra la nordica essenza dei grigi e dei bruni e la solarità dei gialli, degli avori e dei rosa. E in queste ultime visioni, nella frontalità di un colle che si eleva simile a uno stupito marchio della solitudine, come nello sviluppo di una trama iscritta in un cielo senza margini, è facile intuire i trapassi di remote scritture, quei torsi e quei tratti di arcaica rilevanza che nell'azione sinergica di un accorto esercizio pittorico si sono tradotti in un unico riporto. Cosicché le trascorse esperienze si son fatte consecutio, vaghe citazioni per una serie di rimandi culturali, quindi nuove sintesi.
I giorni dell'arte sono tacche incise sulla lastra della creatività, o sono momenti di tenera illusione come ambigui riflessi nello specchio di un lago. E ogni traccia di colore, con la sua storia di vita conclusa, è l’azzardo di una favola che aiuta a evadere dal peso dell'angoscia. Il mondo di Rossi è una continua invenzione, proprio per quel suo estraniarsi dalla realtà manovrando la navicella dell'immaginario standosene fra le annerite pareti di un garage fatto studio. Un altro rifugio è sui colli, in una luminosa mansarda o tra i sentieri dei boschi che il pittore traveste coi colori delle stagioni che preferisce. Ma questo è un altro discorso, a parentesi sotto il vapore delle nubi che si stacca dall'arcana penombra che ricopre il quadrante della vita in città. Memore di particolari referenti e portatore di una accentuata cultura visiva che spazia dai Primitivi alle ultime avanguardie, Rossi resta un artista dai meditati accordi, per l’ordine razionale dei rapporti compositivi, per quella musicalità descrittiva fatta di abbandoni e di sospensioni, per quel modo di reinterpretare il passato attraverso i veli di un inappellabile sentimento metafisico. Il tempo, una miscela custodita nella scatola delle passioni, è un registro da sfogliare con mano lieve. Dagli anni dei torsi, dei riverberi morandiani e degli Ultimi naturalisti, sono trascorse cento esperienze. Già negli anni Sessanta veniva fatto rilevare come egli avesse un passato di grande spessore, con un elenco di date altamente significative fra cui quelle delle Biennali veneziane e delle Quadriennali romane. Allora, i temi di un'accorata quotidianità, partecipe di accademiche sollecitazioni, appartenevano ormai all'archeologia dell'apprendistato, come del resto talune suggestioni di maestri novecentisti. Ben altra attenzione a Cézanne e al tardo picassismo, all'astrattismo e alle tendenze più avanzate, secondo una regola comune agli artisti più vigili, ma pur sempre capaci di affrancarsi dai luoghi comuni e dalle mode mediante la riduzione personale di certi dettami. Non a caso si diceva degli Ultimi naturalisti del cosiddetto periodo arcangeliano, di quell'essere nell'universo, di esprimere la propria esistenza e la propria inquietudine attraverso i colori e gli umori dello svolgersi naturale, di seguire quel tracciato che il critico faceva partire da tanto lontano, di essere in un angolo della vita, "dans le petit coin de la nature". Una poetica fascinosa cui Rossi si è accostato, ma sempre con interpretazioni personali e dando ancora una volta prova di una scrittura dalle specifiche connotazioni.
La poetica della natura, un modo di farsi prendere dalla linea fosforescente di un fiume o dal dispiegarsi del sole tra le valli; un modo per rendersi partecipe di una vicenda cosmica, senza artifizi, errabondo tra gli elementi atmosferici, così, fino ai languidi crepuscoli che avvolgono di grigio l’ultima lingua del tramonto. Per anni Rossi ha lavorato in un casolare alla periferia di Bologna alternando le pose d'atelier ai fotogrammi en plein air. Poi, come successe a Morandi, nuovi edifici si pararono davanti ai suoi occhi, mattoni e cemento al posto dei campi, un catalettico sipario dinanzi a vecchie attenzioni e affetti, a quegli angoli che la calura avvolgeva a volte in una nebbiolina formicolante, a quei momenti in cui la pioggia rigava i vetri mentre l’orecchio era teso all'inquieto monologo del vento.
Delle sequenze girate fra le stesure della piana periferica sono rimaste trame sinuose, via via riprese e sviluppate nei raccordi della memoria. Il calendario si è fatto prendere sempre più dalla pesantezza degli anni: Ilario Rossi divide ora i suoi giorni fra Bologna e Monzuno, piccolo centro dell'Appennino che si è sostituito a quella che Arcangeli definiva la civiltà rustica della periferia bolognese, un paese sulla collina dove si perpetuano magìa e piccoli palpiti in un reticolo in cui si annodano fili colorati: quelle essenze di gamme cromatiche che si fanno scrittura, quei toni segreti evocati come materia pittorica, quei segni lievi come un sospiro, ricordava Luigi Carluccio, una pellicola impalpabile, opaca e trasparente insieme. Ed è proprio il piacere della scrittura una delle componenti dell'operare di Rossi, quel traslare graffiti della memoria, quei segni che si accorpano nella stesura di un testo complesso e al tempo stesso disarmante nella sua naturale tessitura. Complessità e flusso spontaneo, dunque, uniti alla rivisitazione delle cose in una ricerca tesa a dare alla storia un supplemento di verità; e ritrovare il passato dove la luce scivola a indicare tristezze, a scoprire tenui estensioni orografiche, a toccare, infine, i polsi del silenzio. Scorrono le pagine del registro, ecco le annotazioni di tanti anni trascorsi a tracciare il sentiero della creatività, e tra i cicli emergono il Periodo lirico, i singolari indugi come l’intervallo del respiro, il colore che sfuma nell'inespresso, le campiture pallide, sfrangiate, gli sfondi simili a un cielo ventilato e terso, la traslazione dei ricordi in forme colorate. E novelle, controllate concessioni all'afflato sentimentale fino alle più prossime architetture dagli accenti quasi vitrei, essenziali nella loro concezione spaziale; nature morte, soprattutto, dove i pensieri paiono pietrificarsi nelle pieghe di un sacchetto di carta, momenti che si alternano al significato sfuggente di fatti che si sbriciolano in frammenti esistenziali, accenni del tempo che si riflettono nei telai, tracce di ricordi, intermittenti segnali nel mare dell'oblìo. È così che la materia si fa impasto mnemonico, come quella linea che dall'arco di un monte segue per un tratto il vertice, per poi incurvarsi leggermente quasi a simboleggiare una cuspide, logo di un antico voto, un accento così intimo e visionario per un elusivo abbandono, che è sostanza di poesia.
I1 velo del passato suggerisce contorni fantastici, o indica il presente sotto una luce circospetta. Così la realtà si può affrontare con silenziosa pazienza mentre l’occhio della consuetudine distingue appena la valenza delle cose. Chissà, forse per questo Rossi tende a rendere il tempo un allusivo e retrattile poema colorato, quasi una nuova entità riconosciuta solo dagli accenti della memoria, dai ricordi che vanno e vengono, da quei pensieri che si fanno prendere dai toni radenti di un lungo, interminabile sussurro che pare uscire dalla conchiglia di un futuro senza storia. Le visioni partono da orizzonti lontani per proiettarsi sugli schermi gelatinosi di un'attesa tra il verde e l’azzurro; e l’invenzione, arricchita da mille sguardi, improvvisa adagi dolenti e tessuti armoniosi, enunciazioni di un universo feriale, cantabili trionfanti come fiori incisi nel carminio, quindi immagini che da mescolanze timbriche cariche di intima malinconia passano al brio colorito dei frizzi materici. In questo modo un monte si può tradurre in un arco lamellato di apostrofi, così, come l’ondulata sequenza dei crinali può essere annodata da un accenno di sentiero, un tratto di tensione che vuole traguardare palpiti captati a distanza. La pittura è un'immensa raccolta di norme marginate dai sussulti dell'immaginario, una scatola magica che Rossi schiude naturalmente per rapportarsi ai tocchi della vita. È una vicenda che si perde nel tempo delle prime scritture sulla granulosa carta dei disegni; o sono brani conchiusi nella vaghezza di momenti trascorsi in quel casolare della periferia bolognese, tra i muri spessi, a correre con l’occhio sulle grigie fatture dell'umidità, solo, nella penombra di una camera ad ascoltare, nella lontananza, i cupi richiami di un tuono. Iniziarono in questo modo le suggestioni del tempo, e quell'alternarsi di controlli e di abbandoni che volevano dire attimi alternativi a qualsiasi avvenimento, invenzioni tra sguardo e pensiero, il mondo trasfigurato nella misura di una privata meditazione.
Dagli anni Trenta a oggi, dalla mutevole fantasmagoria delle passioni giovanili alle invenzioni degli ultimi tempi, alle attuali "fantasie" che paiono adagiate sull'aura criptica di una chimera. Ricordiamo Alberi della memoria, opera emblematica dell'ultima produzione, sintesi esemplare di un linguaggio affinato proprio dal persistere dell'evocazione. È un melodiare di verdi, con l’onda delle colline che si rifrange contro un orizzonte a portata di ricordo: i piani si succedono in una scala di rara compostezza, le piante sono simboli di luce, il senso atmosferico è dato dall'intercalare dei toni che mai assumono l’iperbole del gridato. Molti lavori degli anni più recenti sono stati concepiti nell'augustia del garage, molti sono idee rielaborate nel silenzio, altri si rifanno alle piccole cose dello studio. Pensiamo che pochi pittori abbiano saputo dire tanto su così poco. Diverso il discorso monzunese, dove l’artista vive a più diretto contatto con il reale arrivando anche a raccogliere appunti sul paesaggio en plein air. Ma si tratta di visioni che l’artista preferisce far decantare in un recesso della mente, per poi trascriverle fra i sommessi umori dell'atelier.
Anche il capitolo dell'Appennino è denso di pagine, perché è da tanto che Rossi frequenta queste contrade. Trascorre diversi mesi nella villa che ha voluto in un punto defilato, tranquillo e circondato dal verde. Molti alberi sono cresciuti attorno alla casa, e ora svettano oltre i tetti in un fitto dialogo con le antenne della televisione. Lo studio è sotto i tetti, perfettamente ordinato, quasi un laboratorio per intrecci compositivi: l’opposto di quello bolognese. Libri allineati negli scaffali, fiori secchi bene in posa nei vasetti, pennelli inquadrati nello scacchiere delle operazioni creative. Rossi si muove con fare circospetto in questa precisione; dipendesse da lui, ridurrebbe tutto alla copia esatta del garage cittadino. Ma gli indugi e la soggezione che sorgono al cospetto di tanto ordine si dissolvono presto: anche perché l’azione di riporto non ha bisogno di specifiche condizioni ambientali, se non un tavolo, un cavalletto, e il silenzio indispensabile per socchiudere gli occhi e soffiare sul calendario di un universo fatto di intime relazioni con la luce e coi colori. E dunque, pure qui Rossi dipinge nell'alternanza di immagini e parole, sicché l’attenzione oscilla sempre tra memoria e possibilità di sublimare in bellezza i pensieri raccolti nel teatro dell’essere. Un fiore, giallo e corposo, è forse una stella avvolta nella seta; un giorno d'estate, mascherato di grigio, è una nuvola capovolta che ammanta un tratto di cielo diventato lago. Pagine senza date, momenti qualsiasi che potrebbero appartenere a qualsiasi libro di viaggi nella natura, se non fosse per qualche trapasso liricamente sospeso fra gli spazi lasciati liberi dagli abeti attorno alla casa. Rossi considera quest'angolo un rifugio dove registrare suggestioni e poetici suggerimenti. Insiste sul valore interpretativo e sui rapporti tonali, su quel modo di osservare le cose che conduce a una sorta di felicità contemplativa, ma anche a un senso di provvisorietà e di attesa che solo la traslazione artistica riesce ad allineare alla consequenzialità degli eventi, fino ai sottili tratteggi di un colle, a quei simboli che dalle arcaiche matrici di un relitto di sogno si trasformano in emblemi di vita, in un desiderio di ripercorrere il passato osservando la realtà dagli alberi della memoria.
ROSSI l'ultima estate, Re Enzo Editrice, Bologna 1995
Franco Basile
Sembrava che l’estate non dovesse aver fine. I giorni si succedevano come se il tempo non avesse regole stagionali. Lassù, tra le balze dell'Appennino, la luce metteva a fuoco le cose solo quando la brezza dissipava la caligine che rendeva l’orizzonte una linea indefinita. Ilario Rossi aveva trascorso un periodo molto intenso in città, come non gli succedeva da anni. Gli era stato assegnato il "Nettuno d'oro", un premio con cui Bologna aveva inteso ricordarne la lunga attività. C'era stata anche l’antologia alla Galleria d'arte moderna e tutto un insieme di episodi che lo avevano fatto tornare indietro nel tempo, quando mostre e pubblicazioni erano una costante, quando Venezia lo accoglieva nelle sale della Biennale e quando doveva fare la spola tra Milano e Bologna, nel periodo dell'insegnamento a Brera. Solo che allora la fatica non si faceva sentire e l’affanno non gli impediva l’esercizio quotidiano della pittura.
Rossi non poteva stare senza dipingere, i colori erano un prolungamento del respiro. È sempre stato così sin da quando era bambino. Il nonno lo aveva abituato a svolgere un compito giornaliero che consisteva in un acquerello al mattino e uno al pomeriggio. Mettersi al cavalletto significava mantener viva la mente: segni e materia gli permettevano di ripercorrere tanti momenti, dipingere era una felice consegna, una sollecitazione rigenerante che dalla perentorietà dei confronti con la realtà Io portava ai grandi temi della memoria.
Un'estate davvero ricca di palpiti e di umori stranianti quella vissuta per l’ultima volta lassù, tra bianchi venati di rosa morbido, come toni staccati da un presagio d'aurora; giorni passati tra sfumature di verde e case unite in borghi sassosi, tra elementi naturali il cui valore espressivo si univa, nei suoi pensieri, a momenti attraversati dal sogno.
Il caldo aveva giocato d'anticipo, vivere in città era un'affocata condanna sicché i fine settimana a Monzuno si erano trasformati in periodi sempre più lunghi, fino al rituale insediamento di ogni anno, nella casa piantata in una balza verdeggiante. Sull'Appennino aveva trovato una postazione da cui osservare meglio la rincorsa delle alture, e da cui era possibile limare quei ricordi che sulla tela si traducevano in scampoli di poesia, in voci che trasmigravano lontano fino ad annullare ogni valore conoscitivo e razionale. A poco a poco le scorie degli ultimi affanni si andavano stemperando, i fatti della città avevano riporti filtrati dalla distanza e da uno svolgimento quotidiano improntato a una sorta di abbandono tra le cose e all'esercizio pittorico.
Dei giorni passati sulle alture Rossi ha lasciato una parabola intensa e accorata, forse un inconscio riepilogo della vita, un affrettarsi sulla tela prima della fine. Il repertorio di questo capitolo si compone di una quarantina di lavori, tra paesaggi, fiori e nature morte. Soprattutto visioni della natura, espressioni sottilmente intense alternate ad altre dai vividi contrasti. Scorrono così le immagini dell'ultima estate: un cielo che si perde dietro l’apparizione di una linea, una collina che si sviluppa come un'onda, colori come luci che ruotano attorno all'astro della memoria. Immagini come un sunto di vita che annoda esperienze e ricordi, un lucido riepilogo simile alla totale rappresentazione che scorre dinanzi agli occhi di chi sta per andarsene: tutta l’esistenza rivissuta in un lampo.
Quaranta immagini, soprattutto paesaggi suggeriti dal reale ma anche dal ricordo. Rossi aveva ben in mente le suggestioni di un tratto luminoso che scendendo tra gli alberi si faceva prendere in un'accecante ragnatela. Lassù, aveva in mente anche distese marine o addirittura il tempo della neve, visioni del passato che si sviluppavano nei dipinti ora in liquide distese d'azzurro, ora in tratti imbiancati con gli alberi illuminati dal gelo: volute di neve sognata e posata nell'ordito della tela in un torrido giorno d'agosto. Questi segnali, e questi toni raccolti alla periferia dell'orizzonte, portano lontano, al ricordo di un racconto che si è protratto inesausto, come un viaggio nell'indefinito, tappa dopo tappa, tra la notte e il giorno, tra le virgole della vita e lo stupore di un tempo che la mente vagheggiava in una nuova realtà. Quelle cose, e quelle visioni della natura, quelle immagini che fanno tornare alla mente le parole di Gian Carlo Cavalli, il critico, come disse Francesco Arcangeli, che forse non più costante amore ebbe a seguire la sua vicenda e che seppe riassumerne la migliore essenza con parole difficilmente sostituibili: Cavalli aveva ricordato la predilezione di Rossi per la natura del paesaggio, ordinato per dati essenziali e che, nella traslazione poetica, doveva riassumersi "lungo curve grevi e malinconiche dei colli emiliani, lungo i profili d'ombra delle case e degli orti, nelle gamme ormai schiarite del colore". E la voce doveva levarsi "lenta, quasi mormorata e pigra, in una sorta di bucolica accorata e severa".
La parabola di quell'estate indica dunque le componenti di uno spezzone di vita che l’artista ha elencato con note sottilmente elegiache, ancorché dettate dall'urgenza di un sentimento che doveva pesargli come un aspro presagio. L'intensità del flusso compositivo era pari all'ansia di un compito da svolgere il più presto possibile. C'era da cogliere un tratto d'esistenza e fermarlo per sempre, con qualche segno e qualche cuspide da colorare sulla sommità di un colla. Dipingere voleva dire afferrare angoli della memoria e trasferirli sulla tela in modo netto, ultimativo. Ma quello che ai suoi occhi sembrava contare di più, era raccogliere elementi di natura che prima non conosceva. Quello che più contava in quei giorni di assolata solitudine, era afferrare segnali remoti e trasmigrarli nella tavolozza fino ad aggrumarli in una nuova sintesi. Dalle colline la luce seguiva il copione di sempre. Eppure tutto si annunciava diverso, soprattutto ai suoi occhi, perché non voleva che i pensieri che gli attraversavano la mente appartenessero a un esercizio superficiale, come una semplice constatazione dello svolgersi del tempo o del meccanico trascolorare delle cose. E mentre la luce andava e veniva rendendo l’orizzonte una fantasia sospesa tra i boschi, appariva felice e inebriato di perdersi al di là delle alture, e di farsi prendere dalla quiete di un tramonto. Ma erano attimi: un indefinibile senso di abbandono e di ansia lo prendeva nuovamente, e la felicità era solo un accenno luminoso. E non bastava lo scintillìo di una stella a rischiarare notti d'angoscia. Presto si sarebbe accorto che la felicità era racchiusa in un libro misterioso, in pagine che non avrebbe avuto il tempo di leggere. La quiete se ne andava anche se il movimento della luce in cielo palpitava ancora. Si poteva cogliere quello scintillìo e fermarlo per sempre? Il buio era una coltre insostenibile, era come se la notte segnasse la scadenza del tempo e annunciasse le ore come una sinistra parodia dell'esistenza.
In un volumetto edito nel 1983 Rossi riunì dieci personaggi della poesia e dell'arte. Per ognuno eseguì un doppio ritratto: uno con le parole, l’altro con i pennelli. È un capitolo rilevante questo dei ritratti, un segmento di poetica che unito a quello delle nature morte e dei nudi si riallaccia agli esiti più significativi del percorso iniziale, quando il pulsare dell'emozione cominciava ad essere affidato al tono, quando i riflessi della cosiddetta "scuola romana" si stemperavano tra le linee di una personale scrittura, a un'espressione che era comunque traslazione del visto e del sentito secondo un insegnamento al quale mai sarebbe venuto meno: quello di Giorgio Morandi. Nelle sue trascrizioni pittoriche gli indugi luminosi, i toni che evocano i1 pensiero, le cose raccolte in un'atemporale immobilità sono un costante riverbero del ricordo morandiano, anche quando gli accenti si spingono sino ai limiti dell'astrazione, anche negli anni arcangeliani, quando l’adesione all’"Ultimo naturalismo" è più che altro ideale, proprio per quel personalissimo modo di intendere la realtà. Il suo era un mondo fatto di alberi, di tenere modulazioni, di campi e di cose da traslare tono dopo tono per ricavarne elementi che, nella composizione, dovevano emergere dall'impianto materico come isole del silenzio, fina ai tratti di una pittura lirica. Uno svolgersi semplificato fatto di calibrate variazioni, per certi versi riconducibile alle tavole di un De Staël.
Fra i dieci personaggi raccolti nel volumetto, Morandi occupa un posto di primo piano. Appaiono anche Montale, Arcangeli, De Chirico. E c'è Ungaretti, da cui Rossi si sentiva particolarmente attratto, al punto da riportarne una poesia, quella dell'Angelo e de1 povero. Rossi conobbe Ungaretti molti anni fa a Formia durante un concorso di pittura. Lo incontrò nuovamente a Bologna e l’episodio è ricordato come un luminosoflash-back. "Era con me anche Morandi, il quale non usciva mai la sera. Ma in quella circostanza fece un'eccezione e disse: "Lo faccio solo perUngaretti". E insieme ascoltammo le sue stupende poesie, magistralmente strascicate dalla sua voce rauca ed ansimante". In quella serata il poeta lesse composizioni tratte dal "Sentimento del tempo" e dal "Dolore", tra cui quella dell’"Angelo e del povero", che - annotò Rossi - sembra sgorghi dalla sofferenza e dalla solitudine. "Ora che invade le oscurate menti / Più aspra pietà del sangue e della terra, / Ora che ci misura ad ogni palpito / Il silenzio di tante ingiuste morti, / Ora si sveli l’angelo del povero, / gentilezza suprema dell'anima... / Col gesto inestinguibile dei secoli / Discenda a capo del suo vecchio popolo, / In mezzo alle ombre...".
A Monzuno Rossi si faceva accompagnare dai ricordi. Le giornate trascorrevano senza trasalimenti e i gesti seguivano il più possibile il copione della quiete. Qualche incontro con gli amici, brevi passeggiate per ossigenare la mente e aggiungere nuova luce ai fatti emozionali, qualche fuga con la mente per la realizzazione di quello che definiva "il vero inventato": quindi l’abituale e sempre appassionante esercizio con i colori. Le notizie giungevano senza echi particolari, il distacco da Bologna faceva apparire tutto irrilevante, come se la città e il mondo intero appartenessero a una sfera aliena. Ma un fatto lo colpì crudamente e un'ombra greve gli si addensò nella mente. Fu quando seppe della scomparsa di Maria Teresa Morandi, l’ultimo filo diretto con la memoria del Maestro. Agosto era appena cominciato e in un giorno soffocante la notizia si diffuse come un refolo di disperazione. Maria Teresa era la più giovane della famiglia e sembrava la più fragile. E proprio a lei, a quella che sembrava la più esposta alle difficoltà della vita, toccò il compito più delicato, quello di perpetuare in modo tangibile la poetica del fratello. Quella mattina la trovarono priva di vita nella casa di Grizzana, dove trascorreva l’estate sola, tra i segni della memoria.
Se ne era andato l’ultimo concreto riferimento di una storia che Rossi conosceva bene, e che ora poteva rivivere soltanto attraverso le immagini e le pagine dei libri. Un altro spicchio di una grande vicenda umana e artistica si era staccato dal rotolo dell'esistenza. Maria Teresa aveva lasciato un mondo che aveva attraversato con sentimento lieve, con innata discrezione. E con discrezione se ne era andata, come un sussurro dietro un vetro, in quella casa davanti al borgo del Campiaro dove il fratello si era creato uno studio sul verde. Rossi pensava a tutto ciò, ripassando antichi ricordi sotto la luce calcinata di un'estate che ogni giorno metteva in scena affocate rappresentazioni. Il sole era implacabile, nelle ore più calde lo sguardo sembrava perdersi tra i vapori che salivano dalle valli come vele sfilacciate. La caligine si spingeva da una cima all'altra simile a una garza fluttuante. Sembrava un incantamento pronto a dissolversi all'imbrunire, quando ormai l’occhio ne aveva fatto una matassa da posare nella casella dei giorni scaduti.
Poi, lentamente, i pensieri ripresero il loro corso, anche se l’artista sapeva che quella casella mancante avrebbe inciso in modo bruciante sul lessico della sua memoria. Le voci e le notizie tornarono ad essere filtrate dal distacco e Monzuno riprese ad essere il vecchio rifugio dove era bello farsi prendere dalle distanze che separavano la realtà dalla fantasia.
Sull'Appennino la frequentazione artistica è fenomeno diffuso, come attestano gli esempi di Grizzana e di Monzuno. Nel centro che si erge tra il Setta e il Savena si è formata una specie di colonia di pittori. Tutto cominciò molto tempo fa, quando Nino Bertocchi si insediò all'Ospitale, un antico agglomerato un po' fuori del paese e che si raggiunge arrampicandosi lungo due erte sassose. Nei lavori di Bertocchi questi luoghi sono spesso rappresentati, così come sono ricordati nei suoi scritti. Luoghi di meditazione, ore e ore trascorse davanti alle infinite sfumature dei boschi e dei campi, ore e ore intento a mettere a posto gli elementi vivi di questo paesaggio, la gioia e lo stupore nell'ascoltare un linguaggio tra i più patetici e dimessi. Qui si sono soffermati anche Lea Colliva e Ferruccio Giacomelli e qui, proprio per la presenza di diversi artisti, si sono tenute iniziative che hanno finito per far conoscere un po' ovunque il paese.
Ora, il decano della piccola colonia è Giuseppe Gagliardi, che tra scorre molto tempo dell'anno in uno sbalzo vicino a Trasasso chiamato Montagnola. Quand'era giovane Gagliardi faceva il macchinista delle Ferrovie: il suo sogno era diventare musicista, ma anche la pittura gli piaceva maledettamente. Forse, per una reazione ai mille giorni passati a respirare il fumo della caldaia, si è scelto un punto particolarmente chiaro e arioso. Conosce a menadito le valli e ogni macchia di verde. In particolare, sa calcolare i momenti delle albe. È uno spettatore puntuale di ogni aurora, che dalla Montagnola accarezza coi pennelli per farne un diario tra il rosa e il giallo.
A Casette, sempre alle porte di Monzuno, lavora un altro artista. È Mario Giovanetti che alterna i pensieri tra scultura e pittura. Dal Ferrarese s'è trascinato un barcone che per un po' è rimasto "arenato" tra gli alberi. Poi l'ha segato in due per farne un richiamo plastico da inserire in una poetica fatta di legni, reperti ferrosi e sassi. Ma gli ultimi tempi li ha trascorsi a riversare su vecchie tavole i ricordi accumulati durante un soggiorno africano. Monzuno è luogo di meditazione e di lavoro anche per Paola Collina, pittrice attenta alle sfumature e ai compiacimenti dell'uomo. Ha la casa in un punto appartato, di fianco a un capannone dove ha passato mesi interi per realizzare un gigantesco pannello in cui ironia e amarezza si uniscono per rappresentare ciò che l’artista è riuscita ad estrapolare dalla vacuità di taluni sentimenti. L'opera raggruppa una miriade di personaggi, una grande distesa di teste e di sguardi che si confondono nel conformismo di una inaugurazione e che si riallaccia a gruppi di ensoriana memoria. Sempre a Monzuno, la Collina ha materializzato un'idea che le venne ripassando l’opera di Lee Masters. Camminando nei pressi del cimitero le tornarono alla mente le voci di Spoon River, storie concluse riassunte in un epitaffio, vicende da rievocare, da sovrapporre al presente e quindi da trascrivere sulla tela.
Si conoscono tutti a Monzuno, ma gli artisti si incontrano per lo più alle mostre. Ultimamente Rossi si era un po' ritirato; non è mai stato un presenzialista ma durante l’estate la sua ritrosia all'ufficialità si era accentuata. Forse doveva ancora smaltire le scorie accumulate in città, forse preferiva dedicare tutto il tempo a quello che sarebbe stato il suo ultimo racconto. Ha lasciato Monzuno molto tardi, quando la coda dell'estate cominciava a sfaldarsi tra le ombre d'ottobre. Per un po' ha fatto la spola tra la collina e la città, fino al definitivo rientro nella casa bolognese, dove riprese possesso dello studio ricavato in un garage. Col tempo il locale aveva assunto l’aspetto di un bazar della poesia, con telai, tele e foglietti sparsi qua e là, con le suppellettili imbrattate di colori, con pennelli e spatole di fianco a caraffe e a scatole di toscanelli, secondo un organizzato disordine che solo un artista poteva prevedere e intendere.
Rossi si alzava molto presto al mattino e come d'abitudine scendeva subito nello studio. È morto davanti al cavalletto, aveva appena delineato un mazzo di fiori. I primi tocchi di colore dovevano far rivivere l’essenza del modello: larghe colate di rosso e di verde per rigenerare il riflesso di una visione racchiusa in un vaso. La tela è rimasta là, sul cavalletto, circondata da una miriade di tubetti e di pennelli, fra i segni di una vita intera. Se Rossi avesse dovuto scegliere il modo di morire, certamente avrebbe scelto questo. È stato come un lampo che l’ha preso fra le sue cose. Il tempo di guardarsi attorno, di sentirsi smarrito in una distanza infinita. Rossi è morto un giorno d'ottobre. Faceva ancora caldo. Sembrava che l’estate non dovesse aver fine.
Franco Basile
La pratica incisoria è l'aspetto meno rivelato dell'opera di Ilario Rossi. Pochi conoscono questo risvolto creativo anche per la ritrosia dimostrata dall'artista nel proporre un capitolo che è stato comunque parallelo a quello pittorico, se non un approfondimento segnico di ciò che sarebbe stata l'estensione cromatica di un pensiero. Parte da lontano la traccia calcografica di Rossi, un primo cenno critico viene fornito da uno dei suoi primi maestri, un uomo che ha sempre primeggiato nella sua memoria. "Il Corso d'incisione, nella Regia Accademia di Belle Arti di Bologna, fu istituito il 1° gennaio 1929. Ebbe l'incarico dell'insegnamento il prof. Augusto Majani che lo tenne fino alla mia nomina a titolare della cattedra, avvenuta il 1° febbraio 1930. Dato che la scuola funziona da pochi anni, non posso parlare di artisti di valore che in essi si siano formati ma semplicemente di allievi che danno bene a sperare. Essi sono: Bandieri Giorgio; Bartoli Giuseppe; Chiappelli Aldo; Mascellani Norma; Natali Giuseppe e Rossi Ilario." Sono parole di Giorgio Morandi tratte da una relazione sull'insegnamento delle tecniche d'incisione. È uno scritto essenziale e dosato negli accenti, con i nomi elencati in ordine alfabetico e con una chiusura in linea con l'enfatizzazione nazionalistica di quei tempi, sebbene anche in questo caso Morandi non si lasci prendere troppo dall'onda emotiva che all'epoca pareva trasportare tutto e tutti. "Insisto maggiormente sull'incisione a puro segno perché è stata una delle prime tecniche tradizionali dell'incisione classica italiana".
Una prima e remota citazione dunque, e da un uomo non troppo tenero nei giudizi. Si era agli inizi degli anni Trenta, Rossi si è diplomato nel 1933, aveva ventidue anni. Morandi doveva aver notato il suo segno forte e sicuro, una peculiarità che non lo avrebbe mai lasciato pur negli attraversamenti di scuole e di indicazioni linguistiche. Il '33 è un anno cruciale per lo svolgimento calcografico, pochi dipinti all'attivo, per lo più incunaboli di una poetica già allora rivelatrice di una immersione nelle atmosfere capaci di trasformare in enigmi cose e situazioni che l'abitudine rende opache. Una decina di dipinti in sette anni a partire dal 1927, venti acqueforti nell'anno del diploma contro una sola tela. Il '33 è l'anno di maggiore attività incisoria, il resto del tempo segna una produzione altalenante: un'acquaforte nel 1935, una nel '40, quindi 14 anni senza produrre una sola lastra, dal 1941 al 1955, mentre i dipinti si succedono regolarmente con punte particolarmente alte nel '44 e nel '50. Niente, comunque, in rapporto agli anni Sessanta e Settanta, con una cinquantina di tele nel solo '60 e addirittura un centinaio nel 1970.
Il ritorno alla lastra è nel 1955, ma si deve attendere il 1975 per assistere, fino al 1994, a un succedersi di lavori senza stacchi temporali, a una produzione mai intensa ma graduale e cronologicamente ordinata. Centododici le incisioni fino ad oggi registrate, rare vernici molli, tre puntesecche su alluminio, il resto è rappresentato da acqueforti su zinco o su rame. Condensare in poche pagine lo svolgersi di un'esistenza artistica è semplicemente impossibile. Racchiudere in qualche foglio ansie e umori, poesia e tormento, è come pretendere di delimitare l'estensione di un'anima. Non sono molti i racconti che Rossi ha scritto sulla lastra, eppure in ognuno di essi c'è un'idea, un piccolo mondo dove il sapore del magico si mescola alla memoria, e dove il mistero di un'ombra si fa stenografia del silenzio. Tutto questo sin da talune opere degli esordi, in quelle carte dove già misurava la memoria con quanto gli si parava dinanzi agli occhi, anticipazioni di quel naturale declinare del paesaggio che lo avrebbe portato alle consonanze informali dell'Ultimo naturalismo arcangeliano, alle declinazioni della così detta "scuola romana", a quel fare in sintonia con le calibrate variazioni geometriche e tonali di un De Stael, memore sempre del tratto e dei colori di Morandi, partecipe di un mondo che immaginava disseminato di specchi deformanti, capaci quindi di ricreare la realtà, la stessa che egli amava reinventare spalancando la finestra su paesaggi contigui alla memoria e alla fantasia.
Certo, risalire a una vita intera leggendo un centinaio di fogli non è semplice, sebbene in ognuno di essi vi sia il riassunto di un periodo. Si può tuttavia intraprendere un appassionante viaggio attraverso il ricordo, leggendo i segni scavati dall'acido o attraversando il tempo sfiorando il reticolo che forma una casa, un tratto di collina, una figura di donna. Vien da pensare che le incisioni siano la controparte della pittura, ma non è così sebbene Rossi non abbia mai nascosto il grande piacere del colore, quella sostanza che da sola o agglutinata in fasi tonali era sufficiente, ai suoi occhi, a definire qualsiasi cosa. Amava il colore, la sterminata produzione pittorica ne dimostra il primato. Era come se un rosso o un giallo facessero parte insostituibile della poesia. Aveva impiegato il colore anche in un'edizione grafica, forse il nero lo turbava, come un segnale della notte. Amava dipingere, affondava i pennelli nei luoghi dello stordimento finché il lato dove tutto gli sembrava mancare si dissipava tra le maglie del supporto telato. Probabilmente il nero acuiva il sentimento di caducità che il poeta nota ovunque, innanzi tutto in se stesso. Eppure è dal nero che i cento fogli traggono alimento, un nero magari illuminato da isole senza inchiostro, da spazi dove la stasi assolata di un'estate si fa riflesso di nuovi incontri con la luce. Cento e passa incisioni che si ricollegano ai giorni di Morandi e che costituiscono un inusuale rendiconto di tante sollecitazioni emotive. Inusuale per Ilario Rossi, scopertosi incisore quasi per caso nonostante l'avvio fulminante del '33, quando in un solo anno realizzò un quinto della produzione di sessant'anni di creatività.
L'idea di mettere ordine a tutto il proprio percorso non l'ha mai presa troppo seriamente. Il lavoro era una costante disorganizzata. "Dicono che le opere sopravvivono agli uomini - ricordava strascicando la erre e dando una tirata all'inseparabile toscano -: sai che cosa mi interessa dei giudizi della gente quando non ci sarò più?". Forse era solo apparente questa forma di disincanto. Una volta unì a un racconto inedito di Francesco Arcangeli un gruppo di sue incisioni. Fu nel 1982, Estati bolognesi è il titolo del lavoro. Il clima descritto è quello di una città dove le ore della notte paiono incollate alle ombre predestinate alla solitudine.
"...Un'altra estate è incominciata... Ricordo una nobile stagione, un'estate sospesa in un sudario di nubi pallide, dorate: banchi di cielo che parevano fermare le speranze e le fantasie ai loro confini..." Alle pagine di Arcangeli le incisioni di Rossi fanno da assorto controcanto. Anche in queste carte il linguaggio grafico è sicuro, il tratto icastico sebbene intervallato a vuoti come sospensioni del respiro. Il racconto risale al 1943, c'era la guerra, nelle parole di Arcangeli Rossi deve essersi ritrovato fino a rivivere le proprie, distanti notti bolognesi. Un'estate lontana, calda come quella vissuta cinque anni fa, poco prima di andarsene per sempre.
Anche alla presentazione del volumetto ci fu chi si sorprese di fronte alle illustrazioni di un artista ritenuto eminentemente pittore. Pochi ne immaginavano un simile risvolto linguistico. Del resto Rossi non aveva mai fatto molto per far conoscere tutti i tratti del proprio esercizio poetico, quasi considerasse l'incisione una questione personale, come si può facilmente intuire dal modo in cui riuniva i fogli, ovvero cartelle sparse qua e là, o in cassetti che ogni volta che venivano aperti era come mettere le mani in una scatola a sorpresa. Osservare queste carte è come seguire le indicazioni di un pensiero destinato a congiungersi all'ultima periferia del tempo. Sia pur senza un preciso ordine cronologico, si può ripercorrere, sollecitati anche dal lato fantastico, un intero tracciato esistenziale. Sfilano quindi i fogli come anelli di una lunga catena dove le cose e la natura sono gli interlocutori primari di una costante corrente emotiva. Ecco un paesaggio degli anni Trenta accanto a uno di quei nudi forieri di stenografici torsi, ecco uno scorcio del Navile, un lembo degli anni giovanili che si unisce ai modelli di una natura morta. Ed è una natura morta la sua ultima incisione, quasi un'eco inconscia della sublime serialità del Maestro di via Fondazza. Pochi oggetti, una rappresentazione dalle linee essenziali e impaginata in un contesto dove la geometria è sostenuta da linee poliverse, comunque indicative di un esercizio sicuro, capace di costruire nella luce l'essenza di un modello. Nelle traslazioni della natura come nell'architettura derivante dagli oggetti, è chiaro come il segno tenda a tenere insieme i diversi aspetti della realtà. Anche nell'incisione Rossi ha dato voce al senso del tempo, c'è riuscito segnando lo zinco nel modo più attento e sottile, oppure riducendo, attimo dopo attimo, i ritmi scanditi dalle ombre, i riflessi delle albe e dei tramonti, qualcosa che interpretava dalla cima di un colle, o che immaginava sotto la lampada di un garage.
La raccolta grafica di Rossi è composta prevalentemente di prove uniche e di tirature minime: "pochi esemplari", s'è spesso dovuto annotare. Abbiamo ricordato come tenesse i fogli sparsi ovunque, in mezzo a volumi o nei cassetti dell'arruffato studio che aveva in subaffitto con una Polo. Di giorno lui, di sera l'automobile. Ora l'ambiente è stato riordinato, alle pareti appaiono molti suoi lavori, sul cavalletto è rimasta un'opera incompiuta, un grande mazzo di fiori. È morto mentre lo stava eseguendo, versione colorata di un tema che poco prima aveva affrontato sulla lastra, e cioè due delle quattro incisioni eseguite durante l'ultima estate vissuta a Monzuno.
Rossi non si è mai fatto prendere dalla smania di lasciare qualcosa ai posteri, tipo volumoni pesanti come sculture. Chissà perché, si convertì invece all'idea di un libro che riunisse l'opera grafica. L'altra faccia della luna, sembrava dire scartabellando nei cassetti. E così, a poco a poco, foglio dopo foglio, ecco ricostruita una vicenda tratteggiata sulle lastre. Negli ultimi tempi aveva intensificato l'attività, come a voler tenere in esercizio la mano. Non aveva tentennamenti nel delineare il profilo di una collina o una natura morta i cui oggetti parevano uniti dal filo del ricordo morandiano. Pochi fogli, la faccia nascosta della luna da presentare come memoria di altrettanti stati d'animo, fogli come segnalibro di una vicenda che al colore unisce l'inchiostro. Le lastre sono state forse supporti di un piccolo mistero, una questione personale che l'artista ha lungamente tenuto nelle zone dell'arcano per rivisitarle di tanto in tanto come si fa con i ricordi che si vuole rapportare al presente. Ora sono qui, pagina dopo pagina, brevi resoconti di una storia iniziata tanto tempo fa sotto lo sguardo accigliato di un uomo come Morandi.
ILARIO ROSSI canto/controcanto,Re Enzo Editrice, Bologna, 2000
Franco Basile
Questa iniziativa nasce dalla visione di un volumetto con scritti e illustrazioni di Ilario Rossi. Edito nel 1983 da Piovan, reca il titolo "Dieci personaggi che contano", ossia esponenti della poesia e dell’arte debitamente ritratti dal pittore bolognese con la penna e coi pennelli. La pubblicazione è la prima della collana "Phoenix" destinata alla raccolta di saggi, monografie e documenti della creatività con un ventaglio di argomenti affidati di volta in volta a interpreti di primo piano del mondo culturale. Parole e colore, dunque, canto/controcanto come un brano che si sviluppa a più voci, con toni e accenti che si aprono e si chiudono tra motivo principale e contrappunto, con l’immagine e la parola scritta che si articolano in modo libero fino a una stesura idealmente rafforzata dall’accostamento dei linguaggi.
Perché solo dieci personaggi e non tanti altri, pure importanti? In una nota d’apertura risponde lo stesso autore: "Per la ragione che questi dieci li ho conosciuti di persona e frequentati". Poeti, critici, pittori, soprattutto poeti con i quali aveva stabilito un rapporto particolare, con la sostanza cromatica pronta a farsi carico di determinati afflati lirici per una coinvolgente sintonia che nel raffronto con altri pittori si manifestava invece poche volte, se non con maestri della levatura di Giorgio Morandi la cui "metrica" sentiva assai prossima al proprio animo. Anche Morandi figura nel volumetto, gli altri personaggi sono Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti, Francesco Arcangeli, Carlo Betocchi, Alfonso Gatto, Giorgio De Chirico, Carlo Corsi, Mario Gorini.
Pagina dopo pagina il racconto si dipana sulla duplice intelaiatura immagine-parola. Con lo svolgersi della scrittura scorrono le fotografie del tempo e con esse riemergono fatti, si focalizzano circostanze, si torna indietro e si rivede ciò che è stato. Si rivede anche l’artista, e noi che l’abbiamo conosciuto, possiamo immaginarlo con un libro di poesie in mano, davanti a una tela, intento a soppesare una rima per farne un’assonanza cromatica.Echi di parole, ricordi e segni lontani si univano alla sua fantasia come un sottofondo destinato ad accompagnare l’atto del dipingere. Ricordiamo una delle sue ultime opere: un’estate particolarmente affocata si stava stemperando tra i giorni di settembre. L’artista aveva lasciato da poco Monzuno, quieto rifugio sull’Appennino dove era possibile rifornirsi di luce e colori. Rossi ne faceva una grande scorta assieme a un rosario di scorci di alture e di valli, soprattutto di quegli effetti luminosi che rendevano inedito quanto era stato inquadrato poco prima. L’opera di cui si diceva è un paesaggio, modulato riflesso di una delle tante visioni d’estate, o forse un brano interpretato sull’onda di un motivo poetico.
Legata ai luoghi e alla seduzione del ricordo, la pittura di Rossi è prevalemtemente un fenomeno mentale, come appunto quel paesaggio che pareva inventato nella penombra di uno studio dove gli oggetti avevano l’emblematicità di presenze numenose, o si attenevano alla tabella del tempo come segnali dell’avventura umana nella sua quotidianità. Un colle appena marcato nello stacco fra concreto e astratto, indizi di realtà, parvenze vegetali che sembrava volessero far confluire il loro verde in un sogno d’oltrecielo montaliano. Posato sul cavalletto, sotto una lampada riparata da un foglio di carta stagnola, la visione di quel dipinto torna alla mente come sospinta dal passo di una poesia.
Ilario Rossi ricorda di aver conosciuto Montale all’inaugurazione di una mostra a Milano. "Con il suo cipiglio scettico e scrutatore e con aria distaccata da intenditore, si soffermava davanti ad ogni quadro ed esprimeva, a chi glielo chiedeva, giudizi acuti sull’opera e sull’autore, non senza avere battute pungenti verso gli imbrattatele". E nel ritratto, eseguito con tocco felice ancorché icastico, il poeta sembra sul punto di un alato pronunciamento: il sopracciglio sollevato, il busto eretto, la bocca presa da una piega amara, ha l’aspetto di uno che, scandalizzato da chissà cosa, intende emettere una sentenza senza appello. "Mi sono più volte accostato alla poesie di Montale - ricorda Rossi -... Quelle sue colorite e intense composizioni de ‘Gli ossi di seppia’ che lo dovevano subito rendere celebre, da ‘Meriggiare pallido e assorto’ a ‘Portami il girasole’. Belle pure per l’alto potenziale lirico le poesie delle ‘Occasioni’".
Un altro dipinto ci colpì in quel giorno di settembre. Un algido paesaggio che il pittore aveva eseguito molti inverni prima, e al quale sembrava tenere moltissimo. "Questo non deve uscire dallo studio", diceva con tono cospiratorio. Si guardava attorno ed era chiaro che la raccomandazione era rivolta più a se stesso che ad altri, visto che era lui a decidere quali opere dovevano uscire dallo studio. Ora, nonostante gli anni abbiano velato tante cose, il pensiero attorno a quell’opera resta integro, forse perché lo abbiamo collegato a un passo montaliano, con quei toni chiari e quelle scansioni che offrono varchi su mondi autentici, parole e colori per un dialogo che traluce presagi di più effusive discorsività, schede che eludono il mistero grazie a un cifrario che si identifica con l’evidenza delle cose: ovvero, con la verità.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di natura
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità. (da "Ossi di seppia").
L’ombra si distese avvolgendo il bosco come un manto incupito; poi si spinse fino a un crinale, ombra muta e trasparente. Un’aura di assenza estatica aveva preso tutto. Si stava avvicinando l’ora letargica del crepuscolo e tutto appariva come in una bolla esistenziale, con il paesaggio che nel momento del trapasso cedeva le proprie forme ai segnali lanciati dai lampioni, alle finestre con i vetri azzurrati dalle televisioni, ai fari delle automobili che perlustravano le strade. Quelle delle auto erano luci che andavano e venivano, seguivano la sinuosità delle strade assecondando sbalzi e costoni.
Viste dal paese era come se formassero un corteo spaziale, o una via lattea di periferia. E’ una scena allestita dalla natura pochi mesi prima che il pittore se ne andasse per sempre. Anche questa una rappresentazione tra i declivi del paese appenninico. Difficile trasferire certe sensazioni con l’elemento verbale. "Anche con i colori non è facile", aggiungeva Rossi, che prendendo atto dell’indeterminatezza di quegli istanti annotava mentalmente la stesura della notte per trattarla a modo suo, magari il giorno dopo, in un cielo non oscurato, con la luna trasformata in una virgola luminescente dietro la curva rigonfia di un colle.
La notte evoca forme indistinte. Quando scompare l’ultima parte del tramonto e le palpebre della giornata si fanno di pietra, si comincia a pensare agli eventi trascorsi rapportandoli alla gioia e al dolore, all’inizio e alla fine, come in un teorema di luci e di ombre. Quando manca lo stordimento di un sogno, il silenzio ha la stessa incisività di un acuto e la mente viene sottoposta a un incessante lavorìo. Si pensa, e si immagina di tutto mentre fantasmi riemergono dal passato per annunciare con voce commossa di voler fare nuovamente parte della recita esistenziale. A Rossi succedeva spesso di esplorare la notte. La luce è più chiara quando si conosce la profondità del nero. Era attratto dal mutare dei colori, alle ore dava scansioni personali che i dipinti ricordano nel fluire di segni. Con pochi tratti dava l’idea di un’emozione, sapeva cogliere l’essenza del circostante liberando lo sguardo da funambolismi intellettuali. Per questo sentiva vicina la scrittura di certi poeti, come quelli che con quattro parole sanno descrivere la meraviglia dell’immenso. Uno di questi non poteva che essere Ungaretti, conosciuto a Formia durante un concorso di pittura e rivisto anni dopo a Bologna in una serata culturale. "...Subito mi riconobbe e insieme ricordammo i giorni di Formia. Era con me anche Morandi". Un avvenimento data la ritrosia del maestro di via Fondazza agli incontri. Non usciva mai di sera, "ma quella volta fece un’eccezione. ‘Lo faccio solo per Ungaretti’, mi disse. Insieme ascoltammo poesie magistralmente strascicate dalla sua voce rauca e ansimante". Ungaretti lesse brani dal "Sentimento del tempo"e dal "Dolore", tra cui quella dell’"Angelo e del povero".
Di notte è più facile imbattersi nel mistero. I tratti del giorno da poco concluso non sono che indizi di entità che si perdono nell’indeterminatezza. A una certa ora tutto porta al sogno e alla presunzione di 8 poter dare una caratura all’indistinto. Poi, quando giunge l’alba, il tempo perde lo spessore della fantasia, le cose acquistano nuovo significato e le parole sono rese più vibranti dalla tensione con cui vengono trasmesse. Il primo mattino ha il sapore del ferro, le immagini riprendono i contorni di sempre; e come sempre, nell’atto creativo hanno rinnovata voce e colore diverso. I passaggi di "O notte" dovevano attraversare sovente il pensiero di Rossi. La notte evoca forme indistinte. Quando scompare l’ultima parte del tramonto e le palpebre della giornata si fanno di pietra, si comincia a pensare agli eventi trascorsi rapportandoli alla gioia e al dolore, all’inizio e alla fine, come in un teorema di luci e di ombre. Quando manca lo stordimento di un sogno, il silenzio ha la stessa incisività di un acuto e la mente viene sottoposta a un incessante lavorìo. Si pensa, e si immagina di tutto mentre fantasmi riemergono dal passato per annunciare con voce commossa di voler fare nuovamente parte della recita esistenziale. A Rossi succedeva spesso di esplorare la notte. La luce è più chiara quando si conosce la profondità del nero. Era attratto dal mutare dei colori, alle ore dava scansioni personali che i dipinti ricordano nel fluire di segni. Con pochi tratti dava l’idea di un’emozione, sapeva cogliere l’essenza del circostante liberando lo sguardo da funambolismi intellettuali. Per questo sentiva vicina la scrittura di certi poeti, come quelli che con quattro parole sanno descrivere la meraviglia dell’immenso. Uno di questi non poteva che essere Ungaretti, conosciuto a Formia durante un concorso di pittura e rivisto anni dopo a Bologna in una serata culturale. "...Subito mi riconobbe e insieme ricordammo i giorni di Formia. Era con me anche Morandi". Un avvenimento data la ritrosia del maestro di via Fondazza agli incontri. Non usciva mai di sera, "ma quella volta fece un’eccezione. ‘Lo faccio solo per Ungaretti’, mi disse. Insieme ascoltammo poesie magistralmente strascicate dalla sua voce rauca e ansimante". Ungaretti lesse brani dal "Sentimento del tempo"e dal "Dolore", tra cui quella dell’"Angelo e del povero".
Di notte è più facile imbattersi nel mistero. I tratti del giorno da poco concluso non sono che indizi di entità che si perdono nell’indeterminatezza. A una certa ora tutto porta al sogno e alla presunzione di 8 poter dare una caratura all’indistinto. Poi, quando giunge l’alba, il tempo perde lo spessore della fantasia, le cose acquistano nuovo significato e le parole sono rese più vibranti dalla tensione con cui vengono trasmesse. Il primo mattino ha il sapore del ferro, le immagini riprendono i contorni di sempre; e come sempre, nell’atto creativo hanno rinnovata voce e colore diverso. I passaggi di "O notte" dovevano attraversare sovente il pensiero di Rossi.
Dall’ampia ansia dell’alba
Svelata alberatura
Dolorosi risvegli
Foglie, sorelle foglie
Vi ascolto nel lamento.
Autunni,
Moribonde dolcezze.
O gioventù,
Passata è appena l’ora del distacco.
Cieli alti della gioventù,
Libero slancio.
E già sono deserto.
Perso in questa curva malinconia. (da Sentimento del tempo)
Nei ritratti dei dieci personaggi si nota certa marcatura dei tratti fisionomici, senza però arrivare alla caricatura vera e propria. Tutto sommato, la mano del pittore è stata lieve, sicché la bonarietà ha stemperato quei caratteri che avrebbero invece fatto felice qualsiasi disegnatore satirico. Ma è chiaro che non c’era nessuna intenzione di calcare la mano in Rossi, uomo assai compìto e riguardoso nei confronti di personaggi che stimava e ammirava. Di Quasimodo viene addirittura accentuava la distinzione. "Lo vidi per la prima volta ad un concerto. Era attorniato da eleganti signore...Gli chiedevano l’autografo al libro ‘Ed è subito sera’. Mi colpì il suo viso gonfio e ben rasato... I suoi occhi neri e taglienti e l’impeccabile taglio del vestito davano alla sua figura una virile nota di fascino. La poesia di Quasimodo mi ha sempre entusiasmato, per la dominata liricità e per l’accorata partecipazione umana. Una delle sue poesie più alte, per me, è ‘Davanti al simulacro di Ilaria del Carretto’ che ho 9 letto e riletto anche per il seducente richiamo al capolavoro di Jacopo della Quercia".
Le opere ci raccontano lo sguardo del pittore sul mondo, o meglio sulla terra dove è nato e dove è vissuto, quei luoghi natali mitizzati da Quasimodo come un eden perduto. Con un linguaggio evocativo e insieme lontanante, Rossi ha costruito le proprie visioni con equilibrate modulazioni nello spazio di un frammento, in particolare quando sentiva di dover appuntare con immediatezza qualcosa che il tempo avrebbe potuto cancellare. Da una parte c’è la realtà, dall’altra la bellezza, diceva Virginia Wolf. Il pittore ha sempre avvertito quanto si cela oltre il vero, doveva solo soppesare i tempi per captarlo e stabilire la misura narrativa con cui dare voce all’intuizione. Proprio come si deve fare con un tratto di elegìa, dove semplicità e purezza si accordano fino a stabilire una duttile musicalità.
Sono lontani i giorni in cui Rossi ha incontrato i dieci personaggi del libro. Deve aver preso nota di tutto come si fa in un diario dove vengono segnati gli avvenimenti più importanti. Nel volumetto i ritratti e le parole viaggiano insieme, testimonianza di un rapporto con la poesia che in Rossi si è manifestao anche nell’illustrare una raccolta di liriche di Catullo. Il tempo delle cose si è fermato nei quadri, consolidato da pennellate di grigio e da accensioni lievemente azzurrate. Il pittore rimaneva a lungo nello studio, smetteva solo quando la luce non dialogava più con i modelli delle nature morte, oggetti-amuleti, avrebbe detto Montale, metafore d’arte rafforzate dall’immaginazione Anche il tempo di Rossi si è fermato nei quadri, dopo aver a lungo studiato il cielo di quell’estate sull’Appennino, con il sole che chiamava continuamente a raccolta le coordinate della luce fino a tingersi di vermiglio in maestosi tramonti, con le notti portatrici di un mistero che si sarebbe concluso, forse, nel sonno.
Dormono le cime dei monti
E le vallate intorno,
i declivi e i burroni... (Quasimodo - Lirici greci)
ILARIO ROSSI, Grafis Edizioni, Casalecchio di Reno (Bologna) 1992
Franco Basile
Il segno di Ilario Rossi è un filo che attraversa la memoria, una linea che attinge agli umori di una geografia ideale per un viaggio che negli ultimi tempi pare inoltrarsi sempre più nella soffice palude del silenzio. Ed è un fare colto questo modo di tratteggiare situazioni fra archeologie fantastiche e invenzione: è la risultanza di un ampio lessico innestato nella semplicità di una struttura tipica, personalissima, esito di uno sguardo esercitato alla lettura e alla trascrizione continuata di intime espressioni. Si avvicendano così visioni di misurata eleganza e improvvisi materici, scansioni luminose e indugi descrittivi, quelle esperienze evocate dall'interazione di colori contrapposti, aeree metafore di stati emotivi come ciondoli di ricordi appesi a un cielo ricreato in un garage. Perché è in un box sottocasa che Rossi compone molte opere, in un ambiente dove gli odori delle vernici si mescolano a quello dell'auto e dove passato e presente si fanno cogliere da balzi di luce trascolorata dalla polvere. La realtà è fuori, lontana; gli eventi della vita sono schegge impazzite che tagliano l’aria, a volte l’esistenza ha un significato sfuggente, fatto di palpiti còlti a distanza che subito si confondono con i brani della memoria.
Come un laboratorio stellare, la "cabina dei pensieri" è al centro del locale, fra barattoli, pennelli, tubetti, e spatole. Il cavalletto è la plancia con i comandi incorporati nei depositi degli olî aggrumati nel legno. L'artista si muove in un'aura un po' criptica, forse per lo svolgimento di una penombra che pare incisa sul rovescio delle cose. Fuori, lungo la strada che corre ai piedi della collina, passano solo auto. C'è molto verde attorno, in certi momenti il gioco delle assenze crea spazi deserti dove premonizioni ed echi si uniscono alla pratica fantastico-onirica. Sono momenti in cui i fatti tendono al sogno, ma sono spazi troppo ristretti per unirsi al mito, troppo limitati per intraprendere, sicuri, un viaggio nel passato. La realtà è un angolo impietrito sotto i riflessi di una lampada alogena; meglio la "cabina dei pensieri", meglio la penombra del garagedove è semplice farsi prendere dalla seduzione dei ricordi e dove si possono immaginare anelli galattici che descrivono mondi infiniti, qualcosa che la mente accomuna alle esperienze già vissute e che permette di raccontare, alla luce di nuove esperienze, gli stessi fatti; ovvero, qualcosa che può dare un senso a tutto quanto è destinato ad essere bruciato dal calore bianco del distacco.
Nella sua lunga esperienza estetica Ilario Rossi ha sempre dato rilievo alla ricerca cromatica articolando l’indagine nella specificità di un segno esemplare, come dimostrano le luminose tessiture delle sezioni. Esemplari anche i passaggi da un ciclo compositivo all'altro, e quel suo apparire in linea con i movimenti più avanzati, ancorché in grado di esprimersi in chiave autonoma. Così, fino alle ultime risultanze, a quei motivi che lo vedono ancora, forse più che mai, tenacemente rivolto a un'azione descrittiva in cui il ricordo fa da tramite alla poesia. È un confronto con quelle visioni che lo hanno accompagnato per quasi tutta la vita, è uno specchiarsi nel vero per poi traslare i termini naturali in un contesto che sulla tela assume una ben scandita impaginatura spaziale. Ancora una volta, dunque, il mondo circostante e l’esercizio dell'evocazione emergono in primo piano; un tema, se così possiamo definirlo, affrontato con la fedeltà di chi sa trarre dalle cose e dalla luce inesauribili motivi di traduzione cromatica. Certo, molti anni sono passati dai primi approcci con le sottigliezze descrittive di taluni francesi, come remoto appare l’interesse per la coloristica fauve o per l’espressionismo americano. Erano giorni intensi, di scoperte e di ansiosa partecipazione, senza però rinunciare alla propria indipendenza, al di là di ogni referente. I tempi delle figure, delle geometrizzazioni cézanniane e delle icastiche cromìe dei torsi paiono essersi persi in una nuova e più profonda dilatazione atmosferica, ma non è così: gli antichi segnali restano, larve magmatiche, virgole di sogni lontani che si uniscono ai moduli di immagini che hanno assunto una diversa compattezza, un evoluto deposito di piani plastici, una realizzazione succedanea, forse, al desiderio di concedere maggiore evidenza al passaggio della luce in un clima che oscilla tra la nordica essenza dei grigi e dei bruni e la solarità dei gialli, degli avori e dei rosa. E in queste ultime visioni, nella frontalità di un colle che si eleva simile a uno stupito marchio della solitudine, come nello sviluppo di una trama iscritta in un cielo senza margini, è facile intuire i trapassi di remote scritture, quei torsi e quei tratti di arcaica rilevanza che nell'azione sinergica di un accorto esercizio pittorico si sono tradotti in un unico riporto. Cosicché le trascorse esperienze si son fatte consecutio, vaghe citazioni per una serie di rimandi culturali, quindi nuove sintesi.
I giorni dell'arte sono tacche incise sulla lastra della creatività, o sono momenti di tenera illusione come ambigui riflessi nello specchio di un lago. E ogni traccia di colore, con la sua storia di vita conclusa, è l’azzardo di una favola che aiuta a evadere dal peso dell'angoscia. Il mondo di Rossi è una continua invenzione, proprio per quel suo estraniarsi dalla realtà manovrando la navicella dell'immaginario standosene fra le annerite pareti di un garage fatto studio. Un altro rifugio è sui colli, in una luminosa mansarda o tra i sentieri dei boschi che il pittore traveste coi colori delle stagioni che preferisce. Ma questo è un altro discorso, a parentesi sotto il vapore delle nubi che si stacca dall'arcana penombra che ricopre il quadrante della vita in città. Memore di particolari referenti e portatore di una accentuata cultura visiva che spazia dai Primitivi alle ultime avanguardie, Rossi resta un artista dai meditati accordi, per l’ordine razionale dei rapporti compositivi, per quella musicalità descrittiva fatta di abbandoni e di sospensioni, per quel modo di reinterpretare il passato attraverso i veli di un inappellabile sentimento metafisico. Il tempo, una miscela custodita nella scatola delle passioni, è un registro da sfogliare con mano lieve. Dagli anni dei torsi, dei riverberi morandiani e degli Ultimi naturalisti, sono trascorse cento esperienze. Già negli anni Sessanta veniva fatto rilevare come egli avesse un passato di grande spessore, con un elenco di date altamente significative fra cui quelle delle Biennali veneziane e delle Quadriennali romane. Allora, i temi di un'accorata quotidianità, partecipe di accademiche sollecitazioni, appartenevano ormai all'archeologia dell'apprendistato, come del resto talune suggestioni di maestri novecentisti. Ben altra attenzione a Cézanne e al tardo picassismo, all'astrattismo e alle tendenze più avanzate, secondo una regola comune agli artisti più vigili, ma pur sempre capaci di affrancarsi dai luoghi comuni e dalle mode mediante la riduzione personale di certi dettami. Non a caso si diceva degli Ultimi naturalisti del cosiddetto periodo arcangeliano, di quell'essere nell'universo, di esprimere la propria esistenza e la propria inquietudine attraverso i colori e gli umori dello svolgersi naturale, di seguire quel tracciato che il critico faceva partire da tanto lontano, di essere in un angolo della vita, "dans le petit coin de la nature". Una poetica fascinosa cui Rossi si è accostato, ma sempre con interpretazioni personali e dando ancora una volta prova di una scrittura dalle specifiche connotazioni.
La poetica della natura, un modo di farsi prendere dalla linea fosforescente di un fiume o dal dispiegarsi del sole tra le valli; un modo per rendersi partecipe di una vicenda cosmica, senza artifizi, errabondo tra gli elementi atmosferici, così, fino ai languidi crepuscoli che avvolgono di grigio l’ultima lingua del tramonto. Per anni Rossi ha lavorato in un casolare alla periferia di Bologna alternando le pose d'atelier ai fotogrammi en plein air. Poi, come successe a Morandi, nuovi edifici si pararono davanti ai suoi occhi, mattoni e cemento al posto dei campi, un catalettico sipario dinanzi a vecchie attenzioni e affetti, a quegli angoli che la calura avvolgeva a volte in una nebbiolina formicolante, a quei momenti in cui la pioggia rigava i vetri mentre l’orecchio era teso all'inquieto monologo del vento.
Delle sequenze girate fra le stesure della piana periferica sono rimaste trame sinuose, via via riprese e sviluppate nei raccordi della memoria. Il calendario si è fatto prendere sempre più dalla pesantezza degli anni: Ilario Rossi divide ora i suoi giorni fra Bologna e Monzuno, piccolo centro dell'Appennino che si è sostituito a quella che Arcangeli definiva la civiltà rustica della periferia bolognese, un paese sulla collina dove si perpetuano magìa e piccoli palpiti in un reticolo in cui si annodano fili colorati: quelle essenze di gamme cromatiche che si fanno scrittura, quei toni segreti evocati come materia pittorica, quei segni lievi come un sospiro, ricordava Luigi Carluccio, una pellicola impalpabile, opaca e trasparente insieme. Ed è proprio il piacere della scrittura una delle componenti dell'operare di Rossi, quel traslare graffiti della memoria, quei segni che si accorpano nella stesura di un testo complesso e al tempo stesso disarmante nella sua naturale tessitura. Complessità e flusso spontaneo, dunque, uniti alla rivisitazione delle cose in una ricerca tesa a dare alla storia un supplemento di verità; e ritrovare il passato dove la luce scivola a indicare tristezze, a scoprire tenui estensioni orografiche, a toccare, infine, i polsi del silenzio. Scorrono le pagine del registro, ecco le annotazioni di tanti anni trascorsi a tracciare il sentiero della creatività, e tra i cicli emergono il Periodo lirico, i singolari indugi come l’intervallo del respiro, il colore che sfuma nell'inespresso, le campiture pallide, sfrangiate, gli sfondi simili a un cielo ventilato e terso, la traslazione dei ricordi in forme colorate. E novelle, controllate concessioni all'afflato sentimentale fino alle più prossime architetture dagli accenti quasi vitrei, essenziali nella loro concezione spaziale; nature morte, soprattutto, dove i pensieri paiono pietrificarsi nelle pieghe di un sacchetto di carta, momenti che si alternano al significato sfuggente di fatti che si sbriciolano in frammenti esistenziali, accenni del tempo che si riflettono nei telai, tracce di ricordi, intermittenti segnali nel mare dell'oblìo. È così che la materia si fa impasto mnemonico, come quella linea che dall'arco di un monte segue per un tratto il vertice, per poi incurvarsi leggermente quasi a simboleggiare una cuspide, logo di un antico voto, un accento così intimo e visionario per un elusivo abbandono, che è sostanza di poesia.
I1 velo del passato suggerisce contorni fantastici, o indica il presente sotto una luce circospetta. Così la realtà si può affrontare con silenziosa pazienza mentre l’occhio della consuetudine distingue appena la valenza delle cose. Chissà, forse per questo Rossi tende a rendere il tempo un allusivo e retrattile poema colorato, quasi una nuova entità riconosciuta solo dagli accenti della memoria, dai ricordi che vanno e vengono, da quei pensieri che si fanno prendere dai toni radenti di un lungo, interminabile sussurro che pare uscire dalla conchiglia di un futuro senza storia. Le visioni partono da orizzonti lontani per proiettarsi sugli schermi gelatinosi di un'attesa tra il verde e l’azzurro; e l’invenzione, arricchita da mille sguardi, improvvisa adagi dolenti e tessuti armoniosi, enunciazioni di un universo feriale, cantabili trionfanti come fiori incisi nel carminio, quindi immagini che da mescolanze timbriche cariche di intima malinconia passano al brio colorito dei frizzi materici. In questo modo un monte si può tradurre in un arco lamellato di apostrofi, così, come l’ondulata sequenza dei crinali può essere annodata da un accenno di sentiero, un tratto di tensione che vuole traguardare palpiti captati a distanza. La pittura è un'immensa raccolta di norme marginate dai sussulti dell'immaginario, una scatola magica che Rossi schiude naturalmente per rapportarsi ai tocchi della vita. È una vicenda che si perde nel tempo delle prime scritture sulla granulosa carta dei disegni; o sono brani conchiusi nella vaghezza di momenti trascorsi in quel casolare della periferia bolognese, tra i muri spessi, a correre con l’occhio sulle grigie fatture dell'umidità, solo, nella penombra di una camera ad ascoltare, nella lontananza, i cupi richiami di un tuono. Iniziarono in questo modo le suggestioni del tempo, e quell'alternarsi di controlli e di abbandoni che volevano dire attimi alternativi a qualsiasi avvenimento, invenzioni tra sguardo e pensiero, il mondo trasfigurato nella misura di una privata meditazione.
Dagli anni Trenta a oggi, dalla mutevole fantasmagoria delle passioni giovanili alle invenzioni degli ultimi tempi, alle attuali "fantasie" che paiono adagiate sull'aura criptica di una chimera. Ricordiamo Alberi della memoria, opera emblematica dell'ultima produzione, sintesi esemplare di un linguaggio affinato proprio dal persistere dell'evocazione. È un melodiare di verdi, con l’onda delle colline che si rifrange contro un orizzonte a portata di ricordo: i piani si succedono in una scala di rara compostezza, le piante sono simboli di luce, il senso atmosferico è dato dall'intercalare dei toni che mai assumono l’iperbole del gridato. Molti lavori degli anni più recenti sono stati concepiti nell'augustia del garage, molti sono idee rielaborate nel silenzio, altri si rifanno alle piccole cose dello studio. Pensiamo che pochi pittori abbiano saputo dire tanto su così poco. Diverso il discorso monzunese, dove l’artista vive a più diretto contatto con il reale arrivando anche a raccogliere appunti sul paesaggio en plein air. Ma si tratta di visioni che l’artista preferisce far decantare in un recesso della mente, per poi trascriverle fra i sommessi umori dell'atelier.
Anche il capitolo dell'Appennino è denso di pagine, perché è da tanto che Rossi frequenta queste contrade. Trascorre diversi mesi nella villa che ha voluto in un punto defilato, tranquillo e circondato dal verde. Molti alberi sono cresciuti attorno alla casa, e ora svettano oltre i tetti in un fitto dialogo con le antenne della televisione. Lo studio è sotto i tetti, perfettamente ordinato, quasi un laboratorio per intrecci compositivi: l’opposto di quello bolognese. Libri allineati negli scaffali, fiori secchi bene in posa nei vasetti, pennelli inquadrati nello scacchiere delle operazioni creative. Rossi si muove con fare circospetto in questa precisione; dipendesse da lui, ridurrebbe tutto alla copia esatta del garage cittadino. Ma gli indugi e la soggezione che sorgono al cospetto di tanto ordine si dissolvono presto: anche perché l’azione di riporto non ha bisogno di specifiche condizioni ambientali, se non un tavolo, un cavalletto, e il silenzio indispensabile per socchiudere gli occhi e soffiare sul calendario di un universo fatto di intime relazioni con la luce e coi colori. E dunque, pure qui Rossi dipinge nell'alternanza di immagini e parole, sicché l’attenzione oscilla sempre tra memoria e possibilità di sublimare in bellezza i pensieri raccolti nel teatro dell’essere. Un fiore, giallo e corposo, è forse una stella avvolta nella seta; un giorno d'estate, mascherato di grigio, è una nuvola capovolta che ammanta un tratto di cielo diventato lago. Pagine senza date, momenti qualsiasi che potrebbero appartenere a qualsiasi libro di viaggi nella natura, se non fosse per qualche trapasso liricamente sospeso fra gli spazi lasciati liberi dagli abeti attorno alla casa. Rossi considera quest'angolo un rifugio dove registrare suggestioni e poetici suggerimenti. Insiste sul valore interpretativo e sui rapporti tonali, su quel modo di osservare le cose che conduce a una sorta di felicità contemplativa, ma anche a un senso di provvisorietà e di attesa che solo la traslazione artistica riesce ad allineare alla consequenzialità degli eventi, fino ai sottili tratteggi di un colle, a quei simboli che dalle arcaiche matrici di un relitto di sogno si trasformano in emblemi di vita, in un desiderio di ripercorrere il passato osservando la realtà dagli alberi della memoria.
ROSSI l'ultima estate, Re Enzo Editrice, Bologna 1995
Franco Basile
Sembrava che l’estate non dovesse aver fine. I giorni si succedevano come se il tempo non avesse regole stagionali. Lassù, tra le balze dell'Appennino, la luce metteva a fuoco le cose solo quando la brezza dissipava la caligine che rendeva l’orizzonte una linea indefinita. Ilario Rossi aveva trascorso un periodo molto intenso in città, come non gli succedeva da anni. Gli era stato assegnato il "Nettuno d'oro", un premio con cui Bologna aveva inteso ricordarne la lunga attività. C'era stata anche l’antologia alla Galleria d'arte moderna e tutto un insieme di episodi che lo avevano fatto tornare indietro nel tempo, quando mostre e pubblicazioni erano una costante, quando Venezia lo accoglieva nelle sale della Biennale e quando doveva fare la spola tra Milano e Bologna, nel periodo dell'insegnamento a Brera. Solo che allora la fatica non si faceva sentire e l’affanno non gli impediva l’esercizio quotidiano della pittura.
Rossi non poteva stare senza dipingere, i colori erano un prolungamento del respiro. È sempre stato così sin da quando era bambino. Il nonno lo aveva abituato a svolgere un compito giornaliero che consisteva in un acquerello al mattino e uno al pomeriggio. Mettersi al cavalletto significava mantener viva la mente: segni e materia gli permettevano di ripercorrere tanti momenti, dipingere era una felice consegna, una sollecitazione rigenerante che dalla perentorietà dei confronti con la realtà Io portava ai grandi temi della memoria.
Un'estate davvero ricca di palpiti e di umori stranianti quella vissuta per l’ultima volta lassù, tra bianchi venati di rosa morbido, come toni staccati da un presagio d'aurora; giorni passati tra sfumature di verde e case unite in borghi sassosi, tra elementi naturali il cui valore espressivo si univa, nei suoi pensieri, a momenti attraversati dal sogno.
Il caldo aveva giocato d'anticipo, vivere in città era un'affocata condanna sicché i fine settimana a Monzuno si erano trasformati in periodi sempre più lunghi, fino al rituale insediamento di ogni anno, nella casa piantata in una balza verdeggiante. Sull'Appennino aveva trovato una postazione da cui osservare meglio la rincorsa delle alture, e da cui era possibile limare quei ricordi che sulla tela si traducevano in scampoli di poesia, in voci che trasmigravano lontano fino ad annullare ogni valore conoscitivo e razionale. A poco a poco le scorie degli ultimi affanni si andavano stemperando, i fatti della città avevano riporti filtrati dalla distanza e da uno svolgimento quotidiano improntato a una sorta di abbandono tra le cose e all'esercizio pittorico.
Dei giorni passati sulle alture Rossi ha lasciato una parabola intensa e accorata, forse un inconscio riepilogo della vita, un affrettarsi sulla tela prima della fine. Il repertorio di questo capitolo si compone di una quarantina di lavori, tra paesaggi, fiori e nature morte. Soprattutto visioni della natura, espressioni sottilmente intense alternate ad altre dai vividi contrasti. Scorrono così le immagini dell'ultima estate: un cielo che si perde dietro l’apparizione di una linea, una collina che si sviluppa come un'onda, colori come luci che ruotano attorno all'astro della memoria. Immagini come un sunto di vita che annoda esperienze e ricordi, un lucido riepilogo simile alla totale rappresentazione che scorre dinanzi agli occhi di chi sta per andarsene: tutta l’esistenza rivissuta in un lampo.
Quaranta immagini, soprattutto paesaggi suggeriti dal reale ma anche dal ricordo. Rossi aveva ben in mente le suggestioni di un tratto luminoso che scendendo tra gli alberi si faceva prendere in un'accecante ragnatela. Lassù, aveva in mente anche distese marine o addirittura il tempo della neve, visioni del passato che si sviluppavano nei dipinti ora in liquide distese d'azzurro, ora in tratti imbiancati con gli alberi illuminati dal gelo: volute di neve sognata e posata nell'ordito della tela in un torrido giorno d'agosto. Questi segnali, e questi toni raccolti alla periferia dell'orizzonte, portano lontano, al ricordo di un racconto che si è protratto inesausto, come un viaggio nell'indefinito, tappa dopo tappa, tra la notte e il giorno, tra le virgole della vita e lo stupore di un tempo che la mente vagheggiava in una nuova realtà. Quelle cose, e quelle visioni della natura, quelle immagini che fanno tornare alla mente le parole di Gian Carlo Cavalli, il critico, come disse Francesco Arcangeli, che forse non più costante amore ebbe a seguire la sua vicenda e che seppe riassumerne la migliore essenza con parole difficilmente sostituibili: Cavalli aveva ricordato la predilezione di Rossi per la natura del paesaggio, ordinato per dati essenziali e che, nella traslazione poetica, doveva riassumersi "lungo curve grevi e malinconiche dei colli emiliani, lungo i profili d'ombra delle case e degli orti, nelle gamme ormai schiarite del colore". E la voce doveva levarsi "lenta, quasi mormorata e pigra, in una sorta di bucolica accorata e severa".
La parabola di quell'estate indica dunque le componenti di uno spezzone di vita che l’artista ha elencato con note sottilmente elegiache, ancorché dettate dall'urgenza di un sentimento che doveva pesargli come un aspro presagio. L'intensità del flusso compositivo era pari all'ansia di un compito da svolgere il più presto possibile. C'era da cogliere un tratto d'esistenza e fermarlo per sempre, con qualche segno e qualche cuspide da colorare sulla sommità di un colla. Dipingere voleva dire afferrare angoli della memoria e trasferirli sulla tela in modo netto, ultimativo. Ma quello che ai suoi occhi sembrava contare di più, era raccogliere elementi di natura che prima non conosceva. Quello che più contava in quei giorni di assolata solitudine, era afferrare segnali remoti e trasmigrarli nella tavolozza fino ad aggrumarli in una nuova sintesi. Dalle colline la luce seguiva il copione di sempre. Eppure tutto si annunciava diverso, soprattutto ai suoi occhi, perché non voleva che i pensieri che gli attraversavano la mente appartenessero a un esercizio superficiale, come una semplice constatazione dello svolgersi del tempo o del meccanico trascolorare delle cose. E mentre la luce andava e veniva rendendo l’orizzonte una fantasia sospesa tra i boschi, appariva felice e inebriato di perdersi al di là delle alture, e di farsi prendere dalla quiete di un tramonto. Ma erano attimi: un indefinibile senso di abbandono e di ansia lo prendeva nuovamente, e la felicità era solo un accenno luminoso. E non bastava lo scintillìo di una stella a rischiarare notti d'angoscia. Presto si sarebbe accorto che la felicità era racchiusa in un libro misterioso, in pagine che non avrebbe avuto il tempo di leggere. La quiete se ne andava anche se il movimento della luce in cielo palpitava ancora. Si poteva cogliere quello scintillìo e fermarlo per sempre? Il buio era una coltre insostenibile, era come se la notte segnasse la scadenza del tempo e annunciasse le ore come una sinistra parodia dell'esistenza.
In un volumetto edito nel 1983 Rossi riunì dieci personaggi della poesia e dell'arte. Per ognuno eseguì un doppio ritratto: uno con le parole, l’altro con i pennelli. È un capitolo rilevante questo dei ritratti, un segmento di poetica che unito a quello delle nature morte e dei nudi si riallaccia agli esiti più significativi del percorso iniziale, quando il pulsare dell'emozione cominciava ad essere affidato al tono, quando i riflessi della cosiddetta "scuola romana" si stemperavano tra le linee di una personale scrittura, a un'espressione che era comunque traslazione del visto e del sentito secondo un insegnamento al quale mai sarebbe venuto meno: quello di Giorgio Morandi. Nelle sue trascrizioni pittoriche gli indugi luminosi, i toni che evocano i1 pensiero, le cose raccolte in un'atemporale immobilità sono un costante riverbero del ricordo morandiano, anche quando gli accenti si spingono sino ai limiti dell'astrazione, anche negli anni arcangeliani, quando l’adesione all’"Ultimo naturalismo" è più che altro ideale, proprio per quel personalissimo modo di intendere la realtà. Il suo era un mondo fatto di alberi, di tenere modulazioni, di campi e di cose da traslare tono dopo tono per ricavarne elementi che, nella composizione, dovevano emergere dall'impianto materico come isole del silenzio, fina ai tratti di una pittura lirica. Uno svolgersi semplificato fatto di calibrate variazioni, per certi versi riconducibile alle tavole di un De Staël.
Fra i dieci personaggi raccolti nel volumetto, Morandi occupa un posto di primo piano. Appaiono anche Montale, Arcangeli, De Chirico. E c'è Ungaretti, da cui Rossi si sentiva particolarmente attratto, al punto da riportarne una poesia, quella dell'Angelo e de1 povero. Rossi conobbe Ungaretti molti anni fa a Formia durante un concorso di pittura. Lo incontrò nuovamente a Bologna e l’episodio è ricordato come un luminosoflash-back. "Era con me anche Morandi, il quale non usciva mai la sera. Ma in quella circostanza fece un'eccezione e disse: "Lo faccio solo perUngaretti". E insieme ascoltammo le sue stupende poesie, magistralmente strascicate dalla sua voce rauca ed ansimante". In quella serata il poeta lesse composizioni tratte dal "Sentimento del tempo" e dal "Dolore", tra cui quella dell’"Angelo e del povero", che - annotò Rossi - sembra sgorghi dalla sofferenza e dalla solitudine. "Ora che invade le oscurate menti / Più aspra pietà del sangue e della terra, / Ora che ci misura ad ogni palpito / Il silenzio di tante ingiuste morti, / Ora si sveli l’angelo del povero, / gentilezza suprema dell'anima... / Col gesto inestinguibile dei secoli / Discenda a capo del suo vecchio popolo, / In mezzo alle ombre...".
A Monzuno Rossi si faceva accompagnare dai ricordi. Le giornate trascorrevano senza trasalimenti e i gesti seguivano il più possibile il copione della quiete. Qualche incontro con gli amici, brevi passeggiate per ossigenare la mente e aggiungere nuova luce ai fatti emozionali, qualche fuga con la mente per la realizzazione di quello che definiva "il vero inventato": quindi l’abituale e sempre appassionante esercizio con i colori. Le notizie giungevano senza echi particolari, il distacco da Bologna faceva apparire tutto irrilevante, come se la città e il mondo intero appartenessero a una sfera aliena. Ma un fatto lo colpì crudamente e un'ombra greve gli si addensò nella mente. Fu quando seppe della scomparsa di Maria Teresa Morandi, l’ultimo filo diretto con la memoria del Maestro. Agosto era appena cominciato e in un giorno soffocante la notizia si diffuse come un refolo di disperazione. Maria Teresa era la più giovane della famiglia e sembrava la più fragile. E proprio a lei, a quella che sembrava la più esposta alle difficoltà della vita, toccò il compito più delicato, quello di perpetuare in modo tangibile la poetica del fratello. Quella mattina la trovarono priva di vita nella casa di Grizzana, dove trascorreva l’estate sola, tra i segni della memoria.
Se ne era andato l’ultimo concreto riferimento di una storia che Rossi conosceva bene, e che ora poteva rivivere soltanto attraverso le immagini e le pagine dei libri. Un altro spicchio di una grande vicenda umana e artistica si era staccato dal rotolo dell'esistenza. Maria Teresa aveva lasciato un mondo che aveva attraversato con sentimento lieve, con innata discrezione. E con discrezione se ne era andata, come un sussurro dietro un vetro, in quella casa davanti al borgo del Campiaro dove il fratello si era creato uno studio sul verde. Rossi pensava a tutto ciò, ripassando antichi ricordi sotto la luce calcinata di un'estate che ogni giorno metteva in scena affocate rappresentazioni. Il sole era implacabile, nelle ore più calde lo sguardo sembrava perdersi tra i vapori che salivano dalle valli come vele sfilacciate. La caligine si spingeva da una cima all'altra simile a una garza fluttuante. Sembrava un incantamento pronto a dissolversi all'imbrunire, quando ormai l’occhio ne aveva fatto una matassa da posare nella casella dei giorni scaduti.
Poi, lentamente, i pensieri ripresero il loro corso, anche se l’artista sapeva che quella casella mancante avrebbe inciso in modo bruciante sul lessico della sua memoria. Le voci e le notizie tornarono ad essere filtrate dal distacco e Monzuno riprese ad essere il vecchio rifugio dove era bello farsi prendere dalle distanze che separavano la realtà dalla fantasia.
Sull'Appennino la frequentazione artistica è fenomeno diffuso, come attestano gli esempi di Grizzana e di Monzuno. Nel centro che si erge tra il Setta e il Savena si è formata una specie di colonia di pittori. Tutto cominciò molto tempo fa, quando Nino Bertocchi si insediò all'Ospitale, un antico agglomerato un po' fuori del paese e che si raggiunge arrampicandosi lungo due erte sassose. Nei lavori di Bertocchi questi luoghi sono spesso rappresentati, così come sono ricordati nei suoi scritti. Luoghi di meditazione, ore e ore trascorse davanti alle infinite sfumature dei boschi e dei campi, ore e ore intento a mettere a posto gli elementi vivi di questo paesaggio, la gioia e lo stupore nell'ascoltare un linguaggio tra i più patetici e dimessi. Qui si sono soffermati anche Lea Colliva e Ferruccio Giacomelli e qui, proprio per la presenza di diversi artisti, si sono tenute iniziative che hanno finito per far conoscere un po' ovunque il paese.
Ora, il decano della piccola colonia è Giuseppe Gagliardi, che tra scorre molto tempo dell'anno in uno sbalzo vicino a Trasasso chiamato Montagnola. Quand'era giovane Gagliardi faceva il macchinista delle Ferrovie: il suo sogno era diventare musicista, ma anche la pittura gli piaceva maledettamente. Forse, per una reazione ai mille giorni passati a respirare il fumo della caldaia, si è scelto un punto particolarmente chiaro e arioso. Conosce a menadito le valli e ogni macchia di verde. In particolare, sa calcolare i momenti delle albe. È uno spettatore puntuale di ogni aurora, che dalla Montagnola accarezza coi pennelli per farne un diario tra il rosa e il giallo.
A Casette, sempre alle porte di Monzuno, lavora un altro artista. È Mario Giovanetti che alterna i pensieri tra scultura e pittura. Dal Ferrarese s'è trascinato un barcone che per un po' è rimasto "arenato" tra gli alberi. Poi l'ha segato in due per farne un richiamo plastico da inserire in una poetica fatta di legni, reperti ferrosi e sassi. Ma gli ultimi tempi li ha trascorsi a riversare su vecchie tavole i ricordi accumulati durante un soggiorno africano. Monzuno è luogo di meditazione e di lavoro anche per Paola Collina, pittrice attenta alle sfumature e ai compiacimenti dell'uomo. Ha la casa in un punto appartato, di fianco a un capannone dove ha passato mesi interi per realizzare un gigantesco pannello in cui ironia e amarezza si uniscono per rappresentare ciò che l’artista è riuscita ad estrapolare dalla vacuità di taluni sentimenti. L'opera raggruppa una miriade di personaggi, una grande distesa di teste e di sguardi che si confondono nel conformismo di una inaugurazione e che si riallaccia a gruppi di ensoriana memoria. Sempre a Monzuno, la Collina ha materializzato un'idea che le venne ripassando l’opera di Lee Masters. Camminando nei pressi del cimitero le tornarono alla mente le voci di Spoon River, storie concluse riassunte in un epitaffio, vicende da rievocare, da sovrapporre al presente e quindi da trascrivere sulla tela.
Si conoscono tutti a Monzuno, ma gli artisti si incontrano per lo più alle mostre. Ultimamente Rossi si era un po' ritirato; non è mai stato un presenzialista ma durante l’estate la sua ritrosia all'ufficialità si era accentuata. Forse doveva ancora smaltire le scorie accumulate in città, forse preferiva dedicare tutto il tempo a quello che sarebbe stato il suo ultimo racconto. Ha lasciato Monzuno molto tardi, quando la coda dell'estate cominciava a sfaldarsi tra le ombre d'ottobre. Per un po' ha fatto la spola tra la collina e la città, fino al definitivo rientro nella casa bolognese, dove riprese possesso dello studio ricavato in un garage. Col tempo il locale aveva assunto l’aspetto di un bazar della poesia, con telai, tele e foglietti sparsi qua e là, con le suppellettili imbrattate di colori, con pennelli e spatole di fianco a caraffe e a scatole di toscanelli, secondo un organizzato disordine che solo un artista poteva prevedere e intendere.
Rossi si alzava molto presto al mattino e come d'abitudine scendeva subito nello studio. È morto davanti al cavalletto, aveva appena delineato un mazzo di fiori. I primi tocchi di colore dovevano far rivivere l’essenza del modello: larghe colate di rosso e di verde per rigenerare il riflesso di una visione racchiusa in un vaso. La tela è rimasta là, sul cavalletto, circondata da una miriade di tubetti e di pennelli, fra i segni di una vita intera. Se Rossi avesse dovuto scegliere il modo di morire, certamente avrebbe scelto questo. È stato come un lampo che l’ha preso fra le sue cose. Il tempo di guardarsi attorno, di sentirsi smarrito in una distanza infinita. Rossi è morto un giorno d'ottobre. Faceva ancora caldo. Sembrava che l’estate non dovesse aver fine.