Ilario Rossi ( 15/09/1911 - 11/10/1994 )
Ilario Rossi nasce a Bologna il 15 settembre 1911. Il padre Ferdinando è un noto e stimato artista-artigiano, intagliatore valente, presso il quale Ilario compie un significativo apprendistato.
“E’ stato lui il primo maestro - racconta il pittore -per i miei fratelli e per me; ci ha insegnato le belle forme del disegnare, ma anche l’aspetto sociale dell’arte, le abitudini di vita dei romani e degli egiziani scoperte attraverso le opere d’arte”.
La biografia di Rossi viene in aiuto con un dettaglio illuminante: il padre; che fu scultore in legno, ornatista, insegnante alla scuola d’arte. Curioso dei nuovi fatti figurativi francesi e tedeschi, spingeva il giovane a copiare Braque, Picasso, Toulouse-Lautrec, Cézanne; e quando nel ’31 venne Morandi all’Accademia di Bologna per insegnare incisione, Ilario Rossi si trovò avvantaggiato sui compagni imbevuti d’un vecchio insegnamento tutt’al più a indirizzo spadiniano. Avendo ereditato dal padre il tatto e da Morandi il tono, diede umori di terra e spessore di creta a un tocco pittorico raffinatamente gestuale.
Rossi confermerà in un’intervista quella sua condizione di privilegio: “Non ho potuto vedere dal vivo le opere di questi artisti, ma li ho scoperti attraverso le riproduzioni che venivano pubblicate su ‘L’artista moderno’, rivista d’arte a cui mio padre era abbonato”. Nel volumetto di memorie “Dieci Personaggi”, pubblicato nel 1983,l’artista aggiunge un importante riferimento ai suoi anni di formazione, ricordando il pittore Carlo Corsi e la sua particolarissima raccolta: “Nonostante fosse ricco, Corsi non sciupava mai una lira. Spendeva solo per i libri. La sua biblioteca personale era fornitissima, specialmente di testi che riguardavano i pittori d’oltre alpe. Su questi volumi, con Minguzzi e Mandelli ci beavamo, fin dai tempi in cui a Bologna imperava lo ‘spadinismo’ e lo stesso Morandi era quasi uno sconosciuto”.
I ricordi di Rossi ribadiscono il clima della sua formazione e i punti salienti: “Da ragazzo io lavoravo nella bottega di mio padre, che era un intagliatore di prim’ordine… Quando poi venne a mancare il lavoro… me ne andai prima al Liceo artistico poi all’Accademia, dove per due anni fui scolaro di Morandi…; [grazie a lui] ci ribellammo al dolciastro spadiniano e al novecentismo in nome di una pittura tonale; in nome del principio che il quadro non doveva essere una semplice veduta, ma una verità eterna.”
Rossi si diploma all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 1933 dopo aver ricevuto un segno davvero raro di stima dal suo maestro di incisione Giorgio Morandi, il quale annota in una sua relazione didattica a metà degli anni Trenta: “Il corso di incisione, nella Regia Accademia Di Belle Arti di Bologna, fu istituito il 1º gennaio 1929. Ebbe l’incarico dell’insegnamento il prof. Augusto Majani che lo tenne fino alla mia nomina a titolare della cattedra, il 1º febbraio 1930. Dato che la scuola funziona da pochi anni, non posso parlare di artisti di valore che in essa si siano formati ma semplicemente di allievi che danno bene a sperare. Essi sono: Bandieri Giorgio, Bartoli Giuseppe, Chiappelli Aldo, Mascellani Norma, Natali Giuseppe e Rossi Ilario.”
In dialettica fra goliardia, impegno ad apprendere, e infine ammirazione, quel tempo ricorre ancora nella memoria di Rossi: “…non tutti all’Accademia apprezzavano Giorgio Morandi, lo si criticava dicendo ‘Sempre quelle sue bottiglie’ e addirittura un anno, per carnevale, costruimmo un carro allegorico su di lui… poi ho capito la sua ricchezza, nella precisione del segno, nell’intimità della visione, in una pittura che è poesia”. Dal Maestro trae lezione autentica e profonda insieme ad una eredità significativa, che insiste non tanto nella somiglianza di caratteri, quanto nell’affinità spirituale e consonanza morale. Né Rossi si asterrà, più avanti, dall’ampliare il suo pensiero sul genio del Maestro con chiose storico-critiche affatto singolari: “Insomma per Morandi c’era solo Morandi. Se era sollecitato a parlare, dava un po’ di credito a Cèzanne ed a Seurat e, tra gli antichi, a Piero Della Francesca e a Masaccio e alle incisioni di Rembrandt." Eppure, almeno nella sua fase giovanile, conosceva bene Picabia. Il pittore dadaista – come è noto - aveva già costruito una scatola con un vero uovo appeso a un filo, un insieme, a tutto rilievo, che a quei tempi sembrava eclatante. Ebbene Morandi captò quell’idea interpretandola in uno dei suoi primi quadri metafisici, come del resto notò Arcangeli.
Ilario Rossi compì dunque la prima parte del suo cammino artistico “fedele in tutto”, come annota C. Spadoni (Il Carlino, 10-12-’94), che poi chiarisce: “anche e soprattutto, nel modo di intendere, di interpretare, di vivere, la pittura, avendo ben fermi quei principi di rigore e quei legami al proprio retroterra culturale che Francesco Arcangeli avrebbe chiamato ‘tramandi’”. Il richiamo ad Arcangeli, era appropriato ed inevitabile, poiché il grande critico aveva avvertito come allora, “la misura della vita storica , filtrata dall’angolo visuale, potesse essere ancora ricondotta entro binari d’un esistere consapevole di vecchia verità, di onesto mestiere, di accettabili riconoscimenti…”. Spadoni così fissa, in sintesi, la situazione operativa dell’artista in pieno clima novecentista, negli anni ’30, quando Rossi mosse i primi passi consapevoli nella pittura: “gli esempi ai quali si accennava furono certo fondamentali per evitare di essere risucchiato dalla retorica dei miti autarchici e di perdere non solo il filo conduttore delle verità storiche, ma anche l’attenzione al presente. Non c’è dubbio che allora e fino al decennio successivo Morandi soprattutto sia stato una guida attraverso cui le ‘vecchie verità’ assumevano nuova vita e moderno spessore. Intendere Morandi significava intendere anche quel passaggio quasi obbligato alla modernità che fu Cèzanne. Ma il temperamento di Rossi inclinava verso suggestioni che parevano estranee alla sua Bologna. Si avvertiva, sempre più chiaramente, qualcosa di aspro, di acceso, di inquieto, nella sua pittura. Qualcosa che suscitava ricordi ancora palpitanti di scuola romana, ma come ricomposti in una disciplina tonale di già ammirevole misura”.
In questo periodo ottiene l’importante riconoscimento del Premio internazionale Curlandese di Decorazione all’Accademia di Bologna (1931).
Rossi si trova ad orientarsi ed intervenire in un contesto che Luigi Carluccio, 1975 ha così ben interpretato, come attesta il passo che segue: “Mentre gli altri centri della cultura italiana tra le due guerre sono percossi e agitati da un rovello, che non riguarda soltanto i problemi del linguaggio dell’arte ma accorpora altre e diverse ansietà, il clima di Bologna sembra quello di una città tranquilla, indifferente; di una città non toccata dall’inquietudine, densa di interrogativi, che smuove le acque altrove. Di una città, quindi di una società che si rinchiude in sè stessa, nel rigoroso quadrato della sua struttura urbanistica, sopra il proprio silenzio.
La polemica di Bologna, dei suoi uomini di cultura, nei confronti dei tanti aspetti inaccettabili del tempo, consiste (…) in un proposito di fermo rifiuto collettivo; nell’assenza di una volontà polemica scoperta, come condizioni necessarie per condurre avanti realisticamente una somma di energie che sono vive, intense ma quiete, e si manifestano senza sussulti maggiori. La quiete di Bologna in quegli anni ha soprattutto uno spessore, nei cui strati profondi le idee e le passioni percorrono itinerari segreti, per affiorare, a volte, nel ritmo di un verso, nel filo di un disegno, nella struttura di un racconto, nelle architetture di un saggio: di Raimondi, per esempio, che in quegli anni è l’altra faccia di Morandi, la faccia che mantiene un dialogo con il pubblico. Itinerari che lasciano impronte leggere. Gli stessi itinerari di cultura, di passione, di presa di coscienza che devono percorrere, per averli intuiti, i giovani che si affacciano in quegli anni sulla scena di Bologna; i giovani universitari che seguono le lezioni di Roberto Longhi all’Università tra i quali spicca già la figura di Francesco Arcangeli e i giovani usciti dall’Accademia di Belle Arti, dalle lezioni di Guidi e di Morandi; Ilario Rossi, sul quale poggia il nostro discorso, è uno di quelli, insieme con Ciangottini, Mandelli, Minguzzi, Corazza, Poggeschi”.
Pier Giovanni Castagnoli (1994), su questa lunghezza d’onda, entra nel dettaglio dei confronti e dei riferimenti: “(…) Tra quelli che aveva avvicinato e umanamente stimato negli anni di Liceo e dell’Accademia, nessuno poteva soddisfare la richiesta di nuovo di un giovane pieno di talento come Rossi e sicuro nella propria capacità di selezione: non Giovanni Romagnoli con la sua materia ottimista e opulenta grondante di umori spadiniani; non Protti con il suo virtuosismo spadaccino e i suoi bitumi alla Zuloaga; meno ancora Giacomelli con la difesa oltranzista del mestiere e la rincorsa del sogno inattuale della “grande maniera”; neppure Pizzirani, pittore dal tocco sapiente e di paste raffinate, ma troppo cariche di echi ottocenteschi. Nessuno di costoro aveva in serbo attrattive che potessero interessare Rossi; nemmeno Guidi, che nel ’35 si trasferiva nelle aule dell’Accademia di Bologna, recandovi testimonianza vissuta di un ‘Novecento’ problematico e inquieto e che aveva subito ammaliato, con la sua eloquenza eccitata e febbrile vitalità intellettuale, tanti giovani coetanei di Rossi, riuscì a distrarre il pittore dal cammino che aveva intrapreso”.
Ribadisce ancora Castagnoli, 1994: “Sono modelli che hanno lasciato traccia durevole e certa nella sua pittura di quel tempo: paesaggi di rigore morandiano, d’un impasto denso, d’impianto formale compatto e bloccato in solidi spessori come d‘un Cézanne però intriso di più vividi umori; angoli di mondo (come‘Scuola di paese’, 1935), nature morte e figure vengono pervase di una vena intimistica che stempera il codice severo di Morandi in chiave di sentimentale empatia”.
In Rossi nascono così le immagini degli orti al limitare della città, delle case, dei muri rustici sui rilievi della prima collina ondulata in dolci profili, che suggeriscono ad Arcangeli l’accostamento con la "vena sensuale, abbandonata entro gli argini di vasti e liberi schemi metrici, che fu nei ‘Poemi lirici’ del giovane Bacchelli" e inducono Cavalli a riconoscervi una "voce lenta, quasi mormorata e pigra, in una sorta di bucolica accorata e severa". In tal modo, continua Carluccio, 1975: “Ilario Rossi emerge con pochi altri da quella fascia di mezzo della vita italiana, la fascia complessa e inquieta tra le due guerre, che dentro le mura di Bologna ed in genere nei territori dell’Emilia Romagna si rivela sperimentata su un tono apparentemente provinciale, se tale si intende la consuetudine a rivolgere lo sguardo interiore, come per un controllo continuativo della giustezza delle proprie posizioni, alle linee più profonde della tradizione; ricercando nel loro naturale processo storico le motivazioni e le cadenze del tempo presente”.
Anche nel clima di ‘Corrente’ della Milano dei primi anni Quaranta, del resto in sintonia con la scuola romana, Rossi trova intese con figure come Morlotti, il quale, in linea con il bolognese, è pure capace di elaborare in chiave personale motivi morandiani fra il 1941 e il '44; diversi per temperamento, inquieto l’uno, lirico e raccolto l’altro, tuttavia legati da qualche segreta sintonia.
“Pittore di materia solida e assorbente (…) – è ancora Castagnoli, 1994, a ribadire la consistenza di tali rapporti - nel crogiuolo fervido di idee e di passioni della Milano dei primi anni ’40, tra quanti a ‘Corrente’ s’erano accostati prendendo parte per un tratto alla sua avventura, un artista con cui Rossi aveva potuto stringere qualche intesa, fu Morlotti: anch’egli, come il bolognese, dedicatosi per un’intera stagione creativa, negli anni tra il 1941 e il ’44, a rinnovare la propria visione sulle orme di Morandi”.
E’ però opinione di M. Calvesi, 1959, che “le ragioni intrinseche alla pittura di Ilario Rossi si diramino di più, semmai, verso il centro Italia: lungo l’arco del più qualificato ‘tonalismo’ nostrano, che collega la Bologna di Morandi alla Roma di Mafai, di Scipione e di Melli (dopo quello di Morandi sono nomi infatti, anche questi, non del tutto irrelativi al percorso iniziale di Rossi)”.
P. G. Castagnoli, 1994, conferma questo nesso: “Avvenne a Rossi di incontrare sul proprio cammino la pittura di Mafai, anch’essa passata, nel biennio 1931-’32, attraverso una meditazione della lezione morandiana”.
Nella presentazione ad una mostra fiorentina, 1950, se ne avvide Giancarlo Cavalli, che evocava per la prima volta, a proposito di Rossi, il nome del pittore delle ‘Fantasie’, pur mettendolo in secondo piano, dopo Scipione: “Nella fondamentale esperienza del tono – scriveva in quell’occasione il critico bolognese - il colore e la luce sono spinti a possibilità estreme e si caricano di patetiche risonanze, ove talora parrà vibrare qualche traccia dell’affocato mondo di Scipione attraverso il più accordato modulare mafaiano”.
“Sono questi i modelli che hanno lasciato traccia nella pittura di Rossi – sostiene ancora Castagnoli, 1994 - dagli esordi alla fine degli anni ’40. Non le novità che ’Corrente’ aveva propugnato da Milano e neppure i fermenti antinovecentisti che i ‘Sei’ avevano diffuso da Torino”.
Si può infine concludere con R. Tassi, 1960, che quello di Rossi è un “lavoro pittorico che si svolge un poco appartato, tutto riflesso nella soggettività, nell’intima persuasione di una voce appena solitaria e tranquillamente cosciente del proprio nucleo poetico; non quindi fuori del mondo, ma in ‘quella’ parte del mondo, dove ha radici e legami profondi e della cui essenza più segreta si nutre e di cui quindi sa esprimere l’amorosa vita e il divenire quotidiano”. Una indole permanente e pur mutata nel tempo in modi diversi.
E infine Calvesi tocca felicemente l’idea del rapporto reciproco fra Rossi e la pittura definendo Ilario “un bolognese confesso che non ha voluto barattare la fedeltà al proprio mondo con qualche spicciolo dell’attualità”.
Anche Venturoli, 1964, ricostruisce il percorso del nostro artista, in sintonia con le lettura proposte: “Si può dire che Ilario Rossi, uno degli allievi più sensibili e autonomi di Morandi, abbia cominciato antinovecentista fin dai suoi primi passi al Liceo Artistico e all’Accademia ereditando dal Maestro la grande lezione di probità umana ed artistica, già respirando – fuori e al di sopra degli ultimi clamori novecenteschi – nella ‘provincia’, un clima pittorico europeo: intimismo, tonalismo, lentezza e languore di paesaggi cromatici, misura piccola e quasi dimessa delle tele, soggetti ‘purchessia’, una casalinga, composizione di nature morte, il padre e la madre seduti a tavola, primavere appena accese dai geli e dalle nebbie emiliane in gialli vecchi, in temi sbocci di impasto, questi i limiti, le peculiarità di quella pittura di ‘scolari’, patiti del maestro; eppure, vicino a questi limiti, quanta diversità di accenti, da quelli intrisi di vaghe e mal digerite istanze fauves, o espressioniste, o, peggio, surrealiste, di alcuni altri giovani dell’antinovecento, spersi nei centri minori, annaspanti in un velleitarismo tutto verboso! Gli schemi pittorici di Ilario Rossi allievo di Morandi negli anni ‘30 vengono da una tradizione che ha radice in Cézanne; e se – come accennavo in altre parole – i modi dei ‘Giocatori’, rivissuti nel più lirico e atmosferico impaginato morandiano, diventano scena familiare, dei genitori seduti a tavola, in quelle luci affettuose di evocazione è già la premessa di un’arte domani più avveduta delle esperienze astratte: proprio perché quelle esperienze nascono da lì, da Cèzanne e da Morandi (per una delle molteplici vie dell’avanguardia storica, cui Morandi appartiene come l’artista italiano più importante, insieme col De Chirico metafisico e col Modigliani)”.
Con bella sintesi, anche C. Spadoni, 1982, offre la sua ricostruzione: “Eppure, in qualche provincia, raccolta da una riservatezza non disdicevole, in pudori culturali confessabili, in una fisionomia non autarchica, alcuni uomini, alcuni artisti, hanno continuato a confrontarsi prima di tutto con le proprie inquietudini, le proprie ossessioni, senza pretendere che fossero universali. E hanno continuato, in un silenzio umile, e anzi, sovente umiliato (in un silenzio che non era assenza), a utilizzare strumenti espressivi ben conosciuti, forse ‘obsoleti’, se considerati nel quadro generale di un ‘divenire’ sempre più mentale e sempre meno ‘poetico’ (anche nell’accezione etimologica del termine). Ilario Rossi, bolognese… confesso, è stato ed è uno di questi artisti. (…) Il nome di Bologna, dunque torna d’obbligo, della città natale ancora una volta utile, se non indispensabile chiave di lettura per un suo artista. La Bologna, appunto, di Morandi, di Guidi docente d’Accademia, di Longhi maestro di conoscenza, di Arcangeli suo geniale erede, ma anche di Romagnoli, di Corsi, per non citare che pochi”. “Misura della vita storica, filtrata dall’angolo visuale di Bologna”. Era questa, secondo il dettato di Arcangeli una misura provinciale? In questa misura, assurta coscientemente a valore, privilegiato e difeso senza presunzioni da pochi – poiché appariva una difesa dall’esito segnato – ha preso corpo la pittura di Ilario Rossi e di qualche altro uomo ‘di provincia’. Fin dalle prime opere, d’un impasto denso, di un impatto formale ancora compatto e bloccato in solidi spessori, ma già intriso di umori vividi, segnato perfino da qualche accenno di smagliatura.
La lezione morandiana, e in qualche misura anche quella di Guidi, seppure determinanti, apparivano subito di troppo arduo svolgimento. Più sanguigna e inquieta, complicata per riflesso dalle fosche lacerazioni scipioniane, l’opera di Mafai portava forse stimoli più ‘nuovi’. Era già un modo per stare dentro una tradizione pittorica senza rimanere succubi; di sentire ‘moderno’, e di coglierne per intero l’ansia e il fascino, all’interno di una gabbia formale in qualche modo rassicurante.
L’atmosfera di Bologna, “provincia” del mondo, trapela dai dipinti di Rossi quasi riflettendo quella magistralmente evocata da Francesco Arcangeli nelle sue “Estati Bolognesi”, racconto del luglio 1943, che l’artista ebbe poi la felice possibilità di illustrare nella pubblicazione del 1982. Ci si affidi alle sensazioni di un breve passo: “A Bologna c’è una strada gitana; una lunga strada ciottolosa che soffoca contro la collina verde cupa. A guardarla da monte si va spianando come un torrente, inalveata fra una grande muraglia e una fila oscillante di case irregolari, zingaresche.
(…) L’ombra di un portico di via Galliera, d’una casa che conosco, mi turba soltanto perché ricordo il colore rosso stinto, sotto il sole, dell’intonaco che fu recente ai tempi della dominazione pontificia.”
Del resto, lo stesso Arcangeli, presentando Rossi, aveva indicato certe consonanze fra pittura e letteratura nell’opera dell’artista, avvertendo in particolare che: “ Rossi ha sentito la poesia di tutto questo; e nel suo senso paesistico pare esser rimasto qualche cosa della vena sensuale, abbandonata entro gli argini di vasti e liberi schemi metrici, che fu nei ‘Poemi lirici’ del giovane Bacchelli: ‘Improvvisa la fantasia mi ha portato lungo le strade – rettilinee del bolognese, bordate di rami, - toccate dall’ottobre…’. Oppure: ‘ Il Reno si stacca dai monti con incantevoli – indugi, e prende spazio in pianura…’”.
Confermerà Rossi questa sua vena lirica, ricordando in ‘Dieci Personaggi’: “Mi sono accostato più volte alla poesia di Montale, specialmente da giovane. Mi piacevano molto quelle sue colorite e intense poesie de ‘Gli ossi di seppia’ che lo dovevano subito rendere celebre, da ‘Meriggiare pallido e assorto’ a ‘Portami il girasole’”.
Va qui segnalata la bellissima rilettura relativa ai personaggi ritrattati da Rossi, ed in particolare i poeti, per il singolare rapporto poesia-pittura nell’opera di Rossi, affrontata da Franco Basile in ‘Ilario Rossi…Canto/Controcanto’, 2000; opera alla quale si farà più avanti riferimento.
“In un distretto culturale come quello di Bologna, - interviene G. C. Cavalli, 1958 - tagliato completamente fuori dagli impulsi e dai ‘movimenti’ che congiungevano, senza sosta intermedia, Nord e Sud d’Italia, se non fu agevole per i pittori della generazione di mezzo raggiungere intorno al ’40 una sufficiente autonomia di lavoro, certo fu ben più drammatica l’alternativa che il dopoguerra veniva loro ponendo nel dar libero corso all’ultima storia di una pittura che aveva rinnovato il rapporto fra i segni e l’immagine, quanto dire il processo medesimo del suo costituirsi.
Pittore autentico, educatosi a regolare la propria emozione, la propria inclinazione al paesaggio, con la gamma dei toni e con la norma strutturale d’eredità morandiana, Ilario Rossi rinunciava con meditata consapevolezza alle posizioni d’avanguardia più o meno intellettualistiche del picassismo e dell’‘astratto’, fermo com’era su quella sua poetica della natura da lui prediletta, la natura dei colli emiliani, grevi e melanconici, vicino ai quali era nato e vive tuttora, delle vecchie case e degli orti di periferia: una bucolica, si disse, accorata e severa”; e prima che intervengano le condizioni di un “incontro che la sua pittura sembra riflettere (e in accezione, appunto, centro-italiana) delle problematiche dell’astratto-concreto e del neo-naturalismo”, come chiosa M. Calvesi, 1959.
Riprende lo spunto C. Spadoni, 1982, ripensandolo così: “Forse c’è stato un momento di passaggio in cui la pittura di Rossi poteva sembrare sulla lunghezza d’onda dell’‘astratto-concreto’ (…) per un persistere d’ordito – magari agitato e intriso di umori malati - di lontana e complicata ascendenza cézanniana. Ma la formula del Venturi – colui che propose la definizione dell’ astratto-concreto - era così ambigua, e così particolare la storia del pittore bolognese, da rendere infruttuoso ogni sforzo per trovare più precise consonanze.
Quelle buttate di colore, quelle dissolvenze, quelle visioni riplasmate e restituite in fiotti di luce, od ovattate in mezzi toni elegiaci, sapevano, in effetti, di un fare elegante, direi quasi francese. Ma a Bologna, non si dimentichi, lavorava un artista qual Corsi, oscurato oltre il lecito dal mito di Morandi, ma la cui presenza è stata senza dubbio salutare per molti. (…) Ma i tempi incalzavano. L’oscura, turbinosa marea che la genericità delle classificazioni critiche ha definito ‘Informale’, senza essere nella sostanza una nuova avanguardia (e nemmeno pretendendolo, da un piedistallo storico di cui non ha mai avvertito l’esigenza) veniva a sconvolgere schemi ormai avvizziti, o formule recenti troppo ambigue. E soprattutto, specie in un’Italia attardata, metteva a nudo una scolasticità ingenua, per quanto generosa e convinta, dell’alternativa astrattismo-realismo. Bologna, allora, non fu provincia. O meglio, fu una ‘provincia del mondo’, come aveva ben capito Arcangeli”.
Il 29 settembre 1937 Ilario si sposa con Alessandrina Frabboni, Sandra, una ragazza di famiglia benestante, pianista, con la quale ha vissuto fino alla morte e dalla quale ha avuto un figlio, Antonio.
Fra partecipazioni a mostre e riconoscimenti del periodo, si ricordano:
Premio nazionale di pittura Cincinnato Baruzzi (1935 e ‘38), collettiva alla II Quadriennale Nazionale di Roma (1935), alla XX Biennale di Venezia (1936 e ‘40) e alla III Quadriennale Nazionale di Roma (1939), Premio Brera di Milano e Premio per l’esecuzione per un concorso di un affresco alla Biennale di Venezia (1940).
“(…) Eravamo molto amici io e lui. Quasi coetanei. Anzi… coetanei proprio. Lui dell’ ’11 e io del ’12. Amici fin dalle origini. Dalla mostra del ’42 e poi ‘Cronache’ nel ’46 insieme a Borgonzoni, Minguzzi, Corsi. Avevamo in un certo senso la stessa visione dell’arte e della sua funzione. In quegli anni si discuteva, certo. Borgonzoni aveva una visione più vicina a Guttuso, al realismo. Minguzzi idem. Io e Ilario no (…) I dibattiti erano accesi ma mai litigiosi. A Rossi piaceva ironizzare, scherzare; (…) non partecipava con la foga degli altri a queste discussioni; era il suo carattere.” Così P. Mandelli, 1994, ricordava l’amico appena scomparso.
“Il tempo di Cronache non fu, né poteva esserlo, tempo di rivoluzione - argomenta Spadoni, Il Carlino, 10-12-’94 - Rossi fece parte del gruppo bolognese di ‘Cronache’ che se non fu avanguardia nel senso dell’innovazione e meno che mai della rottura col passato, significò per lui una presa di coscienza, più precisa di un destino pittorico diversamente orientato, ormai, rispetto alla lezione morandiana. Certi paesaggi della seconda metà degli anni ’40, come mossi da interni sussulti, attraversati da luci inquiete, sono la premessa a quanto maturerà compiutamente nel decennio successivo, quando la materia si addensa, si estende in tacche, zone cromatiche quasi eccitate, in un ordito formale che poteva risultare non molto lontano, all’apparenza, al cosiddetto ‘astratto-concreto’ di Venturi”.
Centrale per autorevolezza critica e collocazione cronologica, è la lettura di Arcangeli, 1958: “In una città come Bologna la nascita degli artisti più dotati fu lenta nel dolce incontro con le cose, e, lontana dagli assilli della più angustiante modernità, quasi convalidata dall’autorità solenne altrettanto che familiare di Morandi; quanto peraltro, sempre al rischio di soffocare entro il respiro breve delle polemiche cittadine: Bologna, decisamente autarchica, riproduceva in metro minore la condizione italiana, senza le rivolte che furono a Milano e a Roma. La stessa singolare misura di Morandi dava appiglio alle scontentezze: contro la sua pittura la nascita di ‘Corrente’ sarebbe stata assai meno agevole. In quegli anni prima del ’40, del resto, il maestro bolognese stava giocando le sue carte forse più segrete, affascinanti: da inebriare tranquillamente di sé chi avesse forza per intenderlo. Fu il caso di Rossi, pittore di vere doti native; ma le sue pitture morandiane non furono pedisseque; e se il loro senso non poteva essere altrettanto alto, fu però fresco, fiorito, diretto”.
Castagnoli riprenderà questo commento nell’antologica da lui curata nel 1994, osservando che Arcangeli “(…) avvertiva ancora l’utilità di rammentare l’apprendistato morandiano dell’autore e il debito contratto in gioventù con la pittura dell’inquilino di via Fondazza”.
“C’era la guerra (…) arrivarono i tedeschi e scappammo insieme – testimonia per Rossi di quel tempo Enzo Biagi, 1976 - Non sono, come si dice, un addetto ai lavori, ma il mio affetto e la mia stima risalgono a tempi lontani. Ricordo Morandi con la ‘nazionale’ penzolante fra le labbra che gioca a scacchi al Caffè Borsa; Alfonso Gatto, magro e un poco allucinato, che viene a insegnare Lettere all’Accademia; ero un giovane cronista e Giorgio Vecchietti mi pubblicava qualche breve racconto su ‘Primato’. (…) Mi è sempre piaciuta la tua umiltà, ho ammirato non solo la fantasia ma il mestiere, una dote che diventa ancora più rara. La capacità di lavorare, la mano che sa eseguire l’idea, che obbedisce. (…) Mi hai mostrato i tuoi nudi di donna; io li trovo splendidi”. Il giudizio di Biagi, sia pur cronologicamente successivo, può ben risalire anche alle opere di questo periodo, nel bellissimo rapporto corpo-paesaggio istituito dal famoso scrittore. Il quale prosegue: “Corpi che hanno la morbidezza sensuale delle colline che tu dipingi, come donne forti, in quelle luci verdi, rosa, blu, che si lasciano contemplare o si abbandonano alla meditazione. Hanno, dietro di sé, un mistero e una favola da raccontare: si sente che sono nate per vivere, e che sono cresciute dalle nostre parti. (…) Morbide, ma non hanno nulla dell’odalisca, non denunciano la pigrizia dell’harem; ti offrono consolazione e abbandono, ma sono pronte a combattere con te. Hanno i colori accesi della gioia, o gli spenti bagliori che lasciano intuire la rassegnazione e il tramonto. (…) Le guardi, e ti fanno compagnia.”
In merito ai disegni, nella bella monografia redatta in tema, 1971, M. Bentivoglio conferma: “Nacquero con scioltezza disegni, disancorati dal modello a compenso di una consuetudine didattica: l’artista li tracciò a memoria, dopo averne disegnati a decine dal vero all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove diresse il corso del nudo, dal ’45 al ’50. Li realizzò a inchiostro, con interventi d’acquarello viola o seppia; o con colore a olio, spazzato, sfregato direttamente sulla carta; magro, non corposo, per evitare l’alone di unto”.
“L’equilibrio compositivo classico e metafisico in Morandi – scrive Carluccio dell’evoluzione stilistica di Rossi legata a questo periodo - è sopraffatto dalla materia pulsante, dal fluire di un segno ondulato, con un gusto nuovo dello spessore e dei giochi di luce sugli itinerari netti e duri del pennello. La stesura dei verdi saporosi e delle terre si infittisce di succhi pesanti”.
In una situazione che risente dei sommovimenti artistici introdotti da ‘Corrente’ - come si è detto - Ilario Rossi è tra i fondatori, nel primo dopoguerra, della Galleria ‘Cronache’, che svolge un fondamentale ruolo di aggiornamento della cultura bolognese. Accanto a lui sono gli amici con i quali dal 1942 partecipa alla redazione di alcune riviste culturali e alle mostre della Galleria Ciangottini: Aldo Borgonzoni, lo stesso Giovanni Ciangottini, Pompilio Mandelli, Luciano Minguzzi e il più anziano Carlo Corsi. Insieme formano un gruppo di iniziativa e sviluppano la loro attività tramite la galleria e l’omonima rivista, ‘Cronache’, fondata e diretta da Enzo Biagi negli stessi anni 1946-‘47, che la sostiene con viva intensità.
“Nel gruppo di Cronache – testimonia ancora Carluccio, 1976 - la pittura di Ilario Rossi è quella meno sensibile alle suggestioni dilaganti del post-picassismo e dell’espressionismo. E’ quella che rivela una piena e costante fiducia nella realtà; nella fermezza e nella solidità delle cose naturali; nella logica razionale delle strutture, anche se la razionalità non annulla mai del tutto la pressione delle emozioni e la capacità di riflettere attraverso la selezione delle forme e del colore gli incanti autentici del creato, le stimolazioni attive ch’essi provocano sulla sensibilità dell’artista. (…)
Basta andar ancora un poco indietro nel tempo per riconoscere che la materia pittorica di Ilario Rossi raggiunge valori densi, quasi aggettanti, proprio in due dipinti scelti tra tanti perché il loro tema fa immediatamente pensare ad un aspetto della natura arioso, leggero, schiumante: ‘Primavera’, 1942 e ‘Primavera buia’, 1947. Due splendide masse cromatiche, nel senso che la pasta e il colore formano una cosa sola, fluente e al tempo stesso fiammeggiante, fatta di crepitii, di scaglie, e di lamelle trascinate nello stesso modo fluente e continuo: tanto che l’immagine, anzi le sue figure, i tronchi degli alberi, i ventagli dei rami fioriti, le linee dei tetti e delle colline, sembra che arrivino evocate attraverso la coltre della materia, che se ne distacchino con uno strappo lento e dolente; o che invece, ne siano risucchiate, quasi cedendo ad un misterioso istinto a rientrare nella propria couche lontana.
Tra questi due dipinti si consuma una parte dell’avventura materica di Ilario Rossi. Avventura che ha un carattere ben definito fin dalle sue prime opere: ‘Il burattino’ 1934 per esempio, con l’evidente riferimento alle materie guizzanti e tenere della Scuola romana, cui non manca tuttavia il segno della conoscenza della pittura di Roberto Melli e dei valori plastici sui quali si fondava. Questo ‘carattere’ della pittura di Ilario Rossi è formato, da una parte, dalla sua onestà e dalla sua sincerità nei riguardi del mestiere e degli strumenti del mestiere; dall’altra, dal suo rispetto delle ragioni organiche, si potrebbe dire anche biologiche, della realtà cui si ispira: un paesaggio, nove volte su dieci. Un luogo di vita e di morte, di gemme che si aprono, di foglie e di frutti che avvizziscono; dove l’aria stessa che separa le parcelle catastali è una quantità e domanda uno spessore”.
E’ interessante notare, in termini di impegno artistico e politico, l’impresa commemorativa dedicata all’eccidio nazista di Marzabotto ( nel quale l’artista è pure implicato emotivamente per avervi perso tre congiunti). Ai cartoni preparatori dell’affresco ‘L’eccidio di Marzabotto’, allestiti nel 1946 e ora restaurati, intelaiati e conservati presso il Comune di Monzuno, dedica una bella riflessione P. Deggiovanni, 1995: “E’ l’unica opera di grandi dimensioni in controtendenza rispetto al generale clima neorealista degli anni Quaranta. Infatti i riferimenti iconografici e stilistici compendiati nell’affresco volgono lo sguardo alla tradizione pittorica del nostro Quattrocento trascurando in parte quando si andava elaborando e teorizzando attorno a Guttuso. (…) Resta il fatto che l’affresco di Ilario Rossi è l’unica opera di grandi dimensioni che coniugando l’espressionismo al gusto novecentista, narri di eventi dedicati alla Resistenza. (…) Oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, l’affresco di Rossi ha il potere di rimemorare il passato con l’incanto con cui si guarda la rappresentazione di una battaglia antica”.
Attualmente il grande affresco - che fu realizzato sulla parete di una scuola del parco pubblico ‘La Montagnola’ di Bologna a testimonianza delle sofferenze patite dagli italiani nel periodo della guerra e della Resistenza – è alquanto deteriorato a causa dell’incuria e del mancato restauro dei committenti.
Vale ripetere quanto Arcangeli affermava:: “Bologna, decisamente autarchica, riproduceva in metro minore la condizione italiana, senza le rivolte che furono a Milano e a Roma. (…) In quegli anni prima del ’40, del resto, il maestro bolognese stava giocando le sue carte forse più segrete, affascinanti: da inebriare tranquillamente di sé chi avesse forza per intenderlo.” Ferma tale premessa, il critico aggiunge: “(…) Poi, per lunghi anni, egli allargò il suo registro di paesaggio, di figura, di natura morta, in un fare più vasto. (…) Rossi ha lavorato e lavora in un luogo mirabile, dove, anche se la città avanza con la sua crescita periferica, sembra battere il cuore della più grave, potente campagna bolognese: qui è la prima distesa dei campi verdi, bruni, severi e dolcissimi, sorpresi dalle stagioni; qui è il frastagliato robusto delle case contadine contro la pendice del colle di San Luca; qui, accanto al colore fresco dei solfati, è quello antico e compatto dei muri rustici. Rossi ha sentito la poesia di tutto questo; e nel suo senso paesistico pare esser rimasto qualche cosa della vena sensuale, abbandonata entro gli argini di vasti e liberi schemi metrici”.
Come non pensare, nel rapporto pittura-poesia, (entrambe in fare largo) allo spaziar visivo di Alfonso Gatto, che Rossi stesso cita nei suoi ‘Dieci personaggi’.
Ricorre ancora la fondamentale lettura dello stesso Arcangeli: “Chi più degli altri scopre legami con l’opera morandiana è Ilario Rossi, soprattutto nelle sue pitture di alcuni anni fa’; ma la lezione di Morandi, che volge naturalmente chi se ne faccia ascoltatore a meditare su di una elaborazione lenta e accordata dei toni, è qui intesa unicamente come suggerimento a ridurre gli estremi della scala cromatica. Giacchè, componendo il colore con un fresco e deciso accento, Rossi si esercita poi, entro i limiti di quella riduzione, a impadronirsi personalmente del mondo. Sia che lo commuovano le lamiere d’una periferia bolognese, o che lo tocchi il macularsi dell’ombra e della luce sui cartocci delle tinte, è sempre avvertibile in lui un rapido piglio, un talento e una baldanza giovanile. (…) Rossi fu pronto nell’intendere il tono morandiano in modo fresco, personale, diretto, sì che in paesi e in figure il visibile era come un’umida, rapida impronta; (…) Rossi accendeva di fuochi vasti, di riverberi densi spaziose e quasi slogate architetture (…) Rossi elaborò via via un suo postcubismo, spesso con ampiezza di ‘fauve’, e mai staccato da un libero rapporto con la natura; senza cadere, insomma, in quel compromesso più o meno elevato che in Italia ebbe il nome di ‘astratto-concreto’. (…) Ilario Rossi intona la sua vasta, forte elegia formale e cromatica. Mai dimentico del gran padre Cèzanne, in lui il ritorno ai modi del maestro di Arles (verificatosi, per analogia, col postcubismo) è, nei suoi momenti felici, e son frequenti, rapito quasi da una ventata interiore a una intensa, vibrante presenza, al limite del visionario; senza combinazioni o stanchezze” (Arcangeli, selezione dai testi del 1942 e del 1968)
Fra partecipazioni a mostre e riconoscimenti del periodo, si ricordano:
Premio Fumagalli (Premio Brera), Milano (1941), II Premio Verona e IV Quadriennale Nazionale di Roma (1943).
L’opera di Rossi si apre a salienti evoluzioni: “(…) La sua ancor pacata e sensuosa rappresentazione si va ora stringendo in una sintesi non prima raggiunta, - ne coglie bene la cifra G. C. Cavalli, 1950 - ove il colore ripiega su di un tonalismo quasi elementare, di sostanza interna. La natura del paesaggio ch’egli predilige si ordina per dati essenziali e si riassume lungo le curve grevi e malinconiche dei colli emiliani, lungo i profili d’ombra delle case e degli orti, nelle gamme ormai schiarite del colore; e si leva la sua voce lenta, quasi mormorata e pigra, in una sorta di bucolica accorata e severa”.
“E’ stata detta, la sua, una bucolica tenera e severa – riprende il tema Duilio Courir (1960) – In realtà questo Melafumo della pittura bolognese (N.d.r.: da LUIGI PASQUINI, ‘Il pittore dei pagliai’, in Il Resto del Carlino, 10 aprile 1972, “All'ombra dei suoi pagliai, per chi sa vederle, si aggirano le ‘salutifere angiolone ricciolone’ di Antonio Baldini, l'indimenticabile Melafumo, ‘vere figlie dell'estate romagnola e di Melozzo da Forlì’, e sono le belle ortolane e vendemmiatrici e pigiatrici, ‘disposta masserizia di borgo e campagna’, che, per nostro conforto l'asfalto cittadino non ha ingoiato del tutto”.) ha portato a compimento per suo conto una delle operazioni più ardue e radicali che siano state tentate al di fuori del programmatico intellettualismo picassiano: ha riportato nel gioco della cultura figurativa contemporanea un sentimento di natura (già logorato e reso inerte dagli schemi della poetica romantica e postromantica), facendo collimare la sostanza umana dal suo patrimonio poetico con la libertà di un moderno contesto formale”.
Sempre in merito alla maturità stilistica del Rossi di questo periodo, Castagnoli scriverà nel ‘94: “Sono pensieri e immagini come quelli citati a tenere occupata la ricerca di Rossi per oltre un decennio; fino a quando, negli anni che seguono la fine della guerra - il tempo in cui l’artista prende parte attiva alla vicenda di ‘Cronache’ - Rossi non adotta, lentamente, meditatamente, com’è nella sua pittura, una gestualità più immediata e diretta che accentua progressivamente il risalto delle impalcature culturali. (…) Matura così, per gradi, conseguentemente – aggiunge Castagnoli tracciando una prospettiva di sviluppi futuri - il trapasso ai dipinti del biennio 1954-’56, che segnano un affondo ulteriore nel rinnovamento della visione dell’autore ed inaugurano la felice stagione di quel naturalismo ‘di partecipazione’ che prolunga i suoi effetti sino alla fine del decennio”.
“Proprio Bologna, nell’immediato dopoguerra, è teatro di un evento destinato a ripercuotersi con effetti di straordinario rilievo sulla vicenda delle arti figurative in Italia. Nell’autunno del 1948, organizzata dall’Alleanza della Cultura, si tiene nel Salone del Podestà di Palazzo Re Enzo la ‘Prima mostra nazionale d’arte contemporanea’.
Appena trascorso il fantasma della guerra, il clima di rinnovamento sociale, culturale, artistico è vivissimo. Intenti comuni vengono affiancati nel nome del progressismo, superando persino certe differenze ideologiche di fondo. E’ il caso, restando all’avanguardia artistica, del ‘Fronte nuovo delle arti’, fondato nel ’46, che raccoglie artisti di estrazione e tendenze diverse, realisti accanto ad astrattisti. I suoi componenti partecipano, pressoché compatti, alla rassegna bolognese: sono Birolli, Corpora, Guttuso, Morlotti, Pizzinato, Santomaso, Vedova, pittori, e gli scultori Fazzini, Leonardi, Viani. Sono presenti anche (ugualmente uniti dall’idea del rinnovamento dopo autarchie e costrizioni, del ‘nuovo’, del ‘fronte’, dell’‘alleanza’, parafrasando alcuni termini estremamente significativi che ricorrono qui sopra) alcune figure importanti, destinate a ruoli di rilievo nell’arte del dopoguerra: Afro, Cagli, Cassinari, Chighigne, Francese, Mandelli, Martina, Meloni, Omiccioli, Pancaldi, Peverelli, Romiti, ecc.
Un esordio così promettente ed intenzionato (‘Prima mostra d’arte contemporanea’ alludeva necessariamente ad una virtuale continuità sulla linea proposta) avrebbe dovuto avere più di un consenso, più di un sostegno, rivolto com’era il programma del ‘Fronte’ alla ricerca di valori e solidarietà umane e sociali prima ancora che artistico-culturali; un programma che riprendeva, del resto, quello di ‘Corrente’ e avrebbe in parte informato anche quello di ‘Cronache’ a Bologna. Invece bastò una voce contraria per far naufragare l’ipotesi del ‘frontismo artistico’ come già era successo a quello politico, della sinistra, nelle elezioni della primavera precedente. Una recensione alla mostra, comparsa su ‘Rinascita’, si scagliava con estrema durezza contro l’ala ‘astratta’ del gruppo. L’articolo era siglato ‘r’, iniziale di Roderigo di Castiglia, e sotto l’altisonante pseudonimo – uno dei tanti – si nascondeva niente meno che la firma e l’identità di Palmiro Togliatti.
Si trattò di un richiamo all’ordine inappellabile, sicuramente intempestivo e privo di argomenti validi, che spaccò il ‘Fronte’ creando un’insanabile lacerazione nel programma, sostanzialmente comune, di proporre l’arte come un documento rivolto al contesto sociale. L’equivoco ideologico così ingenerato (con l’abiura greve e sommaria della corrente astratta) si radicalizzò in conflitto di tendenza – questo sì già latente – contrapponendo in una polemica feroce astrattismo e realismo. Il ‘Fronte’ si divise in due tronconi: il ‘Movimento realista’, che rispose al richiamo di Togliatti, e il ‘Gruppo degli Otto’ che, praticando il compromesso stilistico dell’astratto-concreto, tentò di ricomporre, con una soluzione alternativa, i motivi di dissidio che avevano portato alla rottura; ma su un piano che rimase, inevitabilmente, ‘interno’ al lavoro.
Non fu naturalmente questo solo l’effetto sortito dallo scioglimento del ‘Fronte’. Tutti gli artisti coinvolti nella polemica, in via diretta o indiretta, reagirono di conseguenza; e così pure fu a Bologna.” (A. Baccilieri, 1987); così pure avvenne ad Ilario Rossi.
Dal 1952 è insegnante titolare presso il Liceo Artistico di Bologna.
Fra partecipazioni a mostre e riconoscimenti del periodo, si ricordano:
personale alla Galleria di Cronache di Bologna e alla Galleria Annunciata di Milano (1946), al Circolo Artistico di Bologna, alla Galleria La Strozzina di Firenze e alla Galleria La Saletta di Modena (1949), V e VI Quadriennale Nazionale di Roma (1947, 1951), XXIV e XXV Biennale di Venezia (1948, 1950); vinto il concorso per bozzetti sulla Via Crucis indetto dal Ministero della Pubblica Istruzione (1949), il Premio Golfo della Spezia e il Premio Città di Messina (1951), il Premio Cesenatico (1952), varie edizioni del Premio Michetti (1952-‘53-‘56-‘57-’62), e varie del Fiorino di Firenze (1953-‘59-’65) e i Premi Fondazione Burano di Venezia e Fondazione Cesenatico di Forlì (1953).
Nel corso degli anni Cinquanta Rossi elabora una forma di astrattismo contigua all’Informale dimostrando di avere recepito tempestivamente le più innovative suggestioni internazionali; si può dire che la sua vicenda corra parallela, con qualche distanza, a quella degli ‘Ultimi Naturalisti’ e la qualità dei dipinti di questi anni induce Francesco Arcangeli a compierne un’accurata e sottile lettura: è l’illustre critico a cogliere in Rossi la conciliazione tra “l’espansione di ricchi strati di sensibilità” e “le gamme chiare accompagnate dall’eleganza quasi francese di sottili grafie”, come si evince dal brano riportato successivamente per esteso.
Il biennio 1954-‘56 segna un affondo ulteriore nel rinnovamento della visione dell'autore ed inaugura la felice stagione di quel naturalismo "di partecipazione" che prolunga i suoi effetti sino alla fine del decennio.
Arcangeli raccoglie propizio nel ’54 attorno alla definizione di ‘Ultimo Naturalismo’ un gruppo di pittori apparentati, nella sua lettura, da una comunione di intenti e tutti, sia pure con diverse inclinazioni e sensibilità, impegnati ad esplorare le possibilità di un inedito, rinnovato rapporto con la visione naturale. "Il loro quadro – avverte Arcangeli - si sente prima di capirlo, vi macchia l’occhio, tocca le regioni del vostro cuore, prima di avere raggiunto il cervello che medita e seleziona: sono soprattutto dei paesaggi, il cui effetto è improvviso, anche quando è stato a lungo meditato”. Il naturalismo di cui il critico parla si configura come un ultimo approdo del secolare rapporto intrattenuto dalla pittura con la visione naturale, un'estrema possibilità, affidata al tramite dell'emozione invece che al controllo della mente. E’ un'intuizione affascinante e tempestiva di quanto andasse germogliando, sul terreno della giovane ricerca artistica italiana, in sintonia con le esperienze dell’‘Informale europeo’ ed internazionale; ed è, al tempo stesso, un modo per trovare una risoluzione non ideologica dell'antagonismo tra formalismo e realismo, che aveva irrigidito il dibattito critico italiano negli anni dell'immediato dopoguerra e già conosciuto un primo, insufficiente tentativo di conciliazione nella formula dell’‘astratto-concreto’teorizzata da Lionello Venturi.
Nel saggio scritto da Arcangeli nell’estate del ’54 “anche la pittura di Rossi, che quell’anno esponeva alla biennale assieme a Morlotti, a Mandelli e a Romiti, trovava spazio di citazione - scrive Castagnoli, 1994 - ma in una posizione più marginale rispetto a quella assegnata ad artisti come Morlotti, Mandelli o Bendini, che il critico sentiva a sé più affini e più vocati a interpretare in modo solidale, nel lavoro, il significato della propria proposta critica.
Quel riconoscimento, sia pur con la riserva con cui veniva espresso, dovette comunque suonar gradito a Rossi e fargli sentire d’essere anch’egli parte attiva in quel rinnovamento espressivo, che Arcangeli andava interpretando e sostenendo con autorità e con passione. Dovette, in ogni caso, infondergli ottimismo e linfa fresca d’entusiasmo e stimoli di che nutrire la propria immaginazione”.
Rossi appare “(…) affiancato alle voci dell’ ‘ultimo naturalismo’” secondo l’opinione di L. Bertacchini, da ‘I martedì’, luglio-agosto 1994, che aggiunge: “Stagione fertile, intensa, vicina alle ricerche informali e, per Rossi, caratterizzata da un’insopprimibile autenticità di sensazioni”.
Luigi Carluccio ci propone una bellissima lettura, quasi a contatto di pelle o persino interna alla pittura di Rossi di quegli anni: “In altri dipinti (…) la struttura dell’opera appare più convulsa e lo spettacolo quasi improvvisato come una tumultuosa convergenza di larghi masselli colorati su diversi punti focali, di tessere e tacche di colore, ora brillanti perché espongono i loro solchi e le loro creste ai risentimenti della luce che le sfiora, ora invece opache, come fossero rientrate nelle zone d’ombra. Il loro alternarsi quasi a treccia, a scacchiera, provoca l’illusione della profondità in uno spazio, che invece è stato prepotentemente proiettato in primo piano e quivi si assiepa, si contrae, gronda e spiove, scoprendo l’ordito minuto della materia pittorica, la vivacità intrinseca delle tinte (una vivacità assoluta, cioè dissociata dai suoi attuali valori cromatici, che infatti svariano nelle scale dei bruni, dei fulvi, dei verdi marciti, dei bianchi fumosi o ghiacciati, nelle scale insomma degli autunni e degli inverni); scoprendo l’incastro di tasselli, scalari o incrociati in un innesto continuativo, che ricalca la logica delle forme naturali, ed ha consentito di definire Rossi un ‘De Staël emiliano’. In un senso che appare giustificato anche dalla crepitazione sensuale delle sue immagini, dalle preziose smaltature della sua pasta pittorica. (…)
L’esperienza informale, in realtà si realizza molto più sulle evidenti suggestioni di un naturalismo astratto, che il clima di quegli anni sospinge verso esiti che in altri artisti sono espressionistici, nella misura in cui la manifestazione concreta dell’immagine pittorica appare guidata da motivi esistenziali, cioè da angosce ineffabili e da oscuri interrogativi morali, che nella opera di Ilario Rossi restano invece ai margini dell’immagine o rappresentano una breve quasi inafferrabile frangia dell’azione nel suo processo gestuale, è una esperienza che incide profondamente sullo sviluppo della storia della sua pittura, prospettandosi come momento di forte determinazione tra le prove degli inizi e quelle dei suoi esiti ultimi.
E’ una stagione, io credo - continua Carluccio, nel testo del ’76 - che Ilario Rossi oggi riguarda con occhio dubitoso, ch’egli probabilmente ama un po’ meno; forse perché ora può riconoscere che fu una stagione di crisi, nel senso attivo della parola; di una crisi risolutiva. E’ infatti il momento in cui la materia assume decisamente il ruolo di protagonista e concentra nella fisicità delle sue strutture tutti i valori dell’espressione: individuandoli come spessore, che vuole alludere alla intensità della percezione della realtà naturale ed alla forza dei sentimenti che l’accolgono; come supporto di una gamma di colori, che, attraverso una scala cromatica tutta giuocata sulle ottave più basse, su dominanti brune o fulve, suggeriscono allo sguardo e allo spirito dello spettatore un’interpretazione bruta, grave dell’opera; come, infine, elemento naturale di una aggregazione tettonica degli elementi compositivi, che ha la forma di una gabbia, di un traliccio, di un ordito, di una trama sulla quale i singoli elementi della figurazione possono essere mossi come le pedine di un giuoco e così alludere alla vitalità organica del dipinto, al senso della sua possibile crescita, della sua espansione e quindi anche, attraverso l’opportunità che l’immagine ha di estendersi in uno spazio senza limiti, sottolineare che anch’essa non è altro che un particolare del tutto: un particolare che ha attratto l’attenzione del pittore e che ha acquisito valore di simbolo.
Attraverso l’esasperazione delle qualità fisiche della materia, attuata nella stagione informale, Ilario Rossi si libera del peso e della soggezione della materia. In un secondo tempo si libera anche della quantità di vero che la materia trascina sempre con se. Si libera, è meglio dire, di quella corposità, che la materia porta sempre come residuo anche nelle sue finzioni pittoriche più libere ed inventive”.
Come si evince dalla lettura del forte brano riportato, intende bene Carluccio certi ‘precorrimenti’ o ‘premonizioni’ informali; e specifica ancora: “Nei paesaggi invernali e nelle molte nevicate dei primissimi anni Cinquanta questa corposità è ancora vistosa. Nella ‘Nevicata’ 1950 della collezione Bortolotti, la corposità materica si presenta addirittura come grumi sabbiosi che rendono irritata la superficie dell’opera. Nella ‘Nevicata verdastra’ 1949 è il disegno stesso delle cose che incorpora la forma fisica delle forme naturali, esaltando lo spessore delle linee di distinzione dei diversi piani della veduta, il tetto, la strada, le linee gibbose dei colli, quasi con i valori di uno sfumato. E siamo già ad un limite estremo, rispetto ad altre anteriori testimonianze del profondo in volgimento della pittura di Ilario Rossi dentro il peso della materia pittorica; che è poi anche un cedimento alle possibilità di fascinazione di una sensibilità pronta a reagire alla presenza effettiva degli oggetti, ed al fatto stesso del loro essere oggetti, cioè cose che possono e forse devono essere indicate anche come quantità e misura”.
Anche M. Azzolini, 1967, interviene ad interpretare questo topico momento evolutivo dell’artista: “(…) Che Ilario Rossi non sia stato disattento, ad un certo momento, alla problematica informale, non è certamente una novità; così come non è una novità il fatto che egli abbia avuto, dal 1955 in poi, una certa inclinazione verso l’astrazione, non come concezione evasiva della pittura o disimpegno (…) ma semmai come possibilità di coltivare certe emozioni segrete, attraverso, ancora e sempre, le occasioni della natura, nella dimensione però più intima possibile, nella quale gli elementi di riconoscibilità visiva a volte non fossero più di segni per una convenzione di lettura oppure una struttura che permettesse, essendo portante, di leggere nell’interno le più segrete emotività della natura stessa”.
E così Spadoni, 1982: “Ilario Rossi ha trovato, allora, la forza di scardinare un impianto pittorico di provata solidità, o meglio, di stabilire con la pittura e col mondo di realtà, di sentimenti, di sensazioni, di impatti visivi, di cui la pittura si faceva tramite, un rapporto più immediato, più stringente, di più diretto coinvolgimento. Senza, con questo, rinnegare la propria storia, bensì raggrumandola entro una materia e una visione ravvicinata che tutto tendevano ad assorbire: schemi compositivi abituali e sussulti inusitati, dolcezze di tono consuete e asprezze nuove. L’immagine di natura era divenuta l’immagine di una materia a tratti calda e avvampante, a tratti rabbrividita fino ad avvilire, ove ogni segno era ormai graffio”.
In una sorta di indiretto confronto e dibattito in tema, si può ridare la parola a Cavalli, 1958, e ad altri in sequenza, chè, nell’incrocio dei flash-back e delle proiezioni in avanti, il nucleo del nostro argomento appare sollecitato come merita: “Così operando nei termini di una indiscutibile moralità, Rossi salvava intero il patrimonio della sua pittura, quello poetico, mentre lo trasferiva negli anacoluti e nei chiasmi della metrica pluridimensionale, difficile e indubbiamente più aggressiva e drammatica di quella ‘romantica’. Il nuovo traliccio spaziale in cui si annullano tutte le dimensioni storiche della antica visibilità, resta tuttavia struttura viva, scheletro delle cose: e vi trovano l’incastro, il giusto rapporto, la relazione emotiva, le tacche contigue del colore che s’accende in clamori improvvisi o s’abbassa in profonde cupezze. La stessa consumata eleganza, or dolce or severa, che un tempo scandiva il canto dell’elegia, oggi governa i contrappunti secchi del colore in questo più aggressivo, avventuroso possesso della natura, matrice incancellabile dell’ispirazione. Rossi ‘naturalista’, oggi come ieri. Non sono ancora gli alti argini verdebruni, i tronchi rinsecchiti degli olmi, i bianchi assurdi delle nevi sui colli, i prati teneri di primavera, le case vecchie e nuove della cinta cittadina, i fantasmi che ricompaiono, testimoni incalzanti delle nostre giornate, d’una storia segreta d’affetti antichi che non vuole morire sopraffatta per sempre? Oggetti e sentimenti antichi che si rinnovano – oggi forse meno dolci e privati - che prendono altro sangue e perentoria quasi dura presenza”.
Ora De Paola, 1968: “Svincolatosi per gradi dagli irrigidimenti dogmatici di una logora precettistica figurale, Rossi si riapre ad un proficuo contatto con le esperienze e gli esiti delle scritture postimpressioniste e rivela una nativa, prevalente vocazione per la pittura di paesaggio. Un lucido gioco di protensioni e ritensioni lo investe della fervida tematica del naturalismo astratto e dalla originaria fedeltà agli schemi della percezione lo spinge fino alle soglie della proposta informale. Ma il rapporto ormai solidamente instaurato con la partitura di ispirazione tradizionale – nel suo plenum triadico di paesaggio, figura e natura morta – non gli consente di varcare quelle soglie”.
Per finire con un’efficace chiosa: “E’ la splendida stagione delle assonanze con gli ultimi naturalisti con le puntuali annotazioni di Francesco Arcangeli” (F. Basile, Il Carlino, 22/05/1994).
La partecipazione alla XXVII Biennale di Venezia, 1954, si investe, per quanto esposto, di un significato particolare.
In questa occasione e in tale contesto, Rossi incontra per la prima volta e comincia ad apprezzare De Staël. Il pittore russo De Staël era infatti un artista di forte e singolare impronta: il suo cromatismo romantico e tuttavia sempre emotivamente controllato, il suo talento nell’impasto materico e nel tocco lievissimo lo facevano un pittore di grande energia, ma mai esplosiva, anzi sempre contenutissima e perfettamente dominata da uno spirito in qualche modo ascetico.
Pittore dai molti formati, De Staël è un maestro del colore, col quale consegue una sua profondissima conquista della superficie pittorica, cui sa conferire quel volume e quell’espressività che ne sono il segno distintivo.
“I suoi nutrimenti più sostanziosi, - ben avverte Castagnoli, 1994 - i suoi stimoli più decisivi Rossi li riceveva fuori d’Italia: dall’esperienza di un pittore russo morto suicida a Parigi, dopo aver lungamente contemplato, sopra la linea d’orizzonte, nel cielo immenso di Honfleur, il volo dei gabbiani e la deriva del suo sogno di fare immobile e assoluto il moto interiore della vita. De Staël, che Rossi aveva una prima volta incontrato alla Biennale di Venezia del ’54 e che, più a fondo, ebbe occasione di conoscere e studiare, nella tarda primavera del ’60, alla retrospettiva organizzata alla Galleria d’Arte Moderna di Torino: il grande, inarrivabile De Staël fu l’artista più amato da Rossi in questo tempo”.
E, ancora, conviene intrecciare le testimonianze in sequenza diacronica, così da esaltare l’evidenza di quella ricerca di proiezione informelnel lavoro di Rossi: “Così, verso il ’55 (Bentivolglio, 1969) quella sua iniziale, controllata distribuzione delle masse è rotta da un diverso e più spericolato ritmo, affidato al gesto: la scansione geometrica si concentra nella condotta a spatola che affianca densi riquadri. Intorno al ’57 il riquadro è scavato nell’amalgama pittorico con la faccia piatta d’un legno; e quel mettere a nudo strati profondi è il gesto stesso dell’aratore: il pittore bolognese ara il colore come si fa con la terra, ne cava umori nascosti, spia nei segreti della materia per rivelarne la consistenza tonale”.
Accelerata anche dall’incontro con De Staël, e di una vocazione consolidata alla pittura di materia, la soglia di quell’affondo che Rossi compirà in pieno clima informale è prossima, come intuiscono due critici, quali Arcangeli e Cavalli, i cui testi introducono mirabilmente quella stagione di Ilario Rossi.
“L’astratto schema formale di tanta pittura italiana si riscatta finalmente nell’aperta, generosa ricerca che Rossi sta conducendo entro il tessuto della sua pittura ricondotta alla originaria finalità espressiva. La pennellata più o meno larga e ispessita, la materia condotta a spatola oppure a densa grafia ma sempre preziosa, architetta e qualifica in una sorta di chiasmo tonale l’oggetto della visione, nel tentativo di raggiungere una rinnovata continuità di struttura e superficie ‘naturale’. Solo così quanto va perduto della grammatica astratta gioverà al recupero d’una più fonda partecipazione umana della quale oggi Ilario Rossi ci sembra uno dei pochi a sostenere apertamente la legittimità in termini di vera pittura.” (Cavalli, 1958)
“La difficoltà maggiore per Rossi, uomo vivo e tutt’altro che insensibile al moderno corso dei problemi – ribadisce Arcangeli, 1958 - fu quella di avviare in nuova direzione le sue possibilità, senza tradirle. Questi tentativi di rinnovamento volsero, con alterna fortuna, in due direzioni: verso l’espansione di ricchi e potenti strati di sensibilità; o verso le gamme chiare, accompagnate dall’eleganza quasi francese di sottili grafie. Non sarebbero certo mancati a Rossi, pittore nato, i mezzi tecnici e di stile, per giocare queste sue possibilità in astratto. Ma l’astrattismo non sarà mai, probabilmente la sua vocazione; anche per quel suo bisogno innato di ancorare l’opera a una struttura profondamente sentita e sostanzialmente reale. Pensate ad una sensibilità così fatta, ponetela a contatto con gli avviamenti talvolta crudamente intellettualistici, talaltra unilateralmente e profondamente immediati, anarchici, dell’attuale pittura: capirete come Rossi non abbia potuto risolvere presto, entro di sé, il dilemma fra il suo primo e amatissimo mondo e le novità ultime. Ma, da qualche tempo, egli lotta con rinnovato entusiasmo in questa situazione di trapasso drammatico fra vecchia e nuova cultura. Le strutture moderne, di traslata eredità cézanniana, le alternative e le sperimentazioni tecniche della pittura di materia, o di quella che glia americani chiamano ‘pittura d’azione’, fanno ormai corpo con le doti provate di Rossi: basterebbe vedere con quale padronanza, con quale golosa ma trattenuta dolcezza egli stenda con la spatola gli strati del suo colore, nutrendone gli accordi lungo una gamma talvolta piacevole, talvolta semplice e austera: spesso rara. In questo impasto non facile è presente la vita: un poco come è viva la lotta, la violenza con cui, là nella bellissima periferia, le nuove, crude costruzioni assalgono l’antica gravità della civiltà rustica bolognese. Così, grigioverdi abbandoni, bianchi di calce o d’avorio dolce, squilli di note franche, bruni di parete, neri e oliva di vegetazione autunnale, qualche cosa di vero, di diretto, di intimamente e sensibilmente mescolato si gradua e vive in rilassatezze bellissime o in controlli severi, e quasi sempre si assesta entro una macchina strutturale che è, ormai, incorporata al timbro cromatico; e non, come accade in molti artisti anche noti, prefabbricata come vano stilismo sintattico. Può essere singolare, a questo punto, notare che Rossi, bolognese, e portato da sempre al tono naturale e alla visione diretta, non abbia ceduto, come poteva, alle legittime tentazioni del cosiddetto ‘ultimo naturalismo’. Senza straniarsene, ha reagito a suo modo. E’ questo il segno più vivo d’una sua esperienza personale, e di quel bisogno, che lo accompagnò fin dagli inizi, di sposare la doti d’istinto pittorico con quelle di meditazione strutturale”
Fra partecipazioni a mostre e riconoscimenti del periodo, si ricordano:
Primo premio alla Mostra d’Arte Sacra dell’Antoniano di Bologna, Premio Comiso e Premio Città di Spoleto, mostre collettive alla XXVII Biennale di Venezia e alla Galleria La Bussola di Torino ‘Dieci pittori bolognesi’ (1954), la mostra di Arte Italiana Contemporanea a Johannesburg, la VII Quadriennale Nazionale di Roma, il premio Nazionale di Gallarate vinto (1955), la mostra della Main Street Gallery di Chicago, la collettiva presso la Galleria Il fiore di Firenze, il premio Resistenza di Bologna vinto (1956).
Ci introduce al centro della ‘seduzione informel’, recepita e trasmessa da I. Rossi, un perfetto commento di M. Calvesi, 1959, il quale coglie la chiave della singolare e personale evoluzione stilistica intervenuta: “Colpo su colpo di spatola, a placche più squillanti o più opache, d’immediata risonanza, l’assetto della pagina si configura per erte strutture, slogate e quasi improvvise, malgrado l’obbedienza a certo ordine post-cubistico, perché apprese da una scelta istintiva dell’occhio. Del resto l’intrisa scansione dei colori va oltre il senso costruttivo (che, pur intensamente suggerito, resta appunto slittante, come in un rapido excursus) per incidere più sostanzialmente sulla qualità saporosa del tono e dell’impasto, sulla fragranza, e flagranza, della notazione naturalistica (‘Qualche cosa di vero, di diretto – ha già scritto Arcangeli – di intimamente e sensibilmente mescolato si gradua e vive in rilassatezze bellissime o in controlli severi, e quasi sempre s’arresta entro una macchina strutturale che è, ormai incorporata al timbro cromatico’).
Tant’è vero – sino ad ora parlavamo della produzione del ’58 – che negli ultimi dipinti la struttura tende a riassumersi, aggrappandosi alle poche zone vive di un telaio prospettico ulteriormente contratto, e trasposte, quasi di salto, sul primo piano. L’orizzonte (non più uno sfocio lirico, ma un’intuizione dimensionalmente attiva nell’ambito di una visione pur sempre naturale) pende invisibile oltre lo sbarrato di vivi assiepamenti, che la spatola intesse ora più fitti, od oltre la semina sparsa e grumosa del pennello. Cioè, al di là dell’indugio dolce e di ‘bucolica’, che era insito nella sua antica pittura di tono, questo gravitare sulla superficie, questo prossimo depositarsi e crepitare del colore, allude ad una forte imminenza dei sensi, ad un calore più aspro e svelato. La pittura di Rossi vi ha straordinariamente potenziato le sue qualità più pregnanti, quasi direi olfattive, per quella sua macchia che sente di zolla, o d’erba e di fresco, o di sterpi e di riarso, per quel suo amalgama di paste che profuma di diverse stagioni” .
Importanti testimonianze vengono dall’Europa ‘informel’, dove i critici hanno meno remore e condizionamenti nel giudicare la ‘cifra’ informale di Rossi, rispetto a quanto consenta il retaggio della tradizione, quasi una zavorra mentale, in Italia.
Così Bilke, 1958: “Ilario Rossi (Galerie Mistral, Bruxelles), hèritier indirect de Cèzanne, est un vrai peintre. Son «action painting», sensuelle et costruite à la fois, est vivante et agréable. Le rapport entre les couleurs, les tâches la couche et le ryhtme nous emeut directement, tandit que ses «paysages italiens abstraits» nous proposent un nouvel espace, une autre visibilitè, une structure intèrieure que seul un vrai maître peut obtenir”.
Così Franc, 1958: “…Non si può dire che è pittura astratta: la tavolozza di Ilario Rossi, estremamente ricca e costantemente rinnovata, ci introduce in paesaggi luminosi, pieni di calore e di sole, e in altri ove la luce si attenua nei temi d’autunno e d’inverno. Ciò che sorprende in questo pittore, ciò che seduce è una strana impressione di bonaccia, di piacere benefico. Le opere che il pittore bolognese presenta, ci fanno penetrare in un mondo di serenità, lontano dal tumulto delle città, lontano da ciò che è fittizio e artificiale. Qui la materia si stende pura e come felice, a pieni strati di colore denso e spesso. E’ come socchiudere gli occhi al suo paesaggio emiliano.
Una tecnica perfetta, ottenuta dopo anni di lavoro, suggella questo risultato: un insieme d’opere che si sincronizzano, che mai si urtano, ma che appartengono allo stesso mondo, visto nei differenti aspetti, sotto la luna o sotto il sole, non importa.
Vi è molto da attingere in un quadro di Rossi: basta lasciare che i suoi colori ci vengano incontro e ascoltarli cantare. Ma non dimentichiamolo: a giusto titolo Ilario Rossi è ritenuto uno dei migliori nomi della pittura italiana d’oggi…”
Così ancora Coraine, 1958: “…sa peinture dégage un double parfum dérourant: l’imprévu et la réflextion. On ne devine pas très bien ce qui l’emporte dans le coeur et la manière de l’artiste. Et c’est tant mieux. Mais ce qu’on arrive encore à aimer la plus dans cette peinture, ce sont ces sortes de paysages lontaines évoqués. La couleur joue un rôle important dans cette peinture faussement sage, puisqu’en réalité, elle serait romantique. C’est en effet la rousseur de telle toile qui determine l’Automne, tandis que telle autre serait vouée à la neige, à cause des bleus et des gris qui s’y marient…”
A dettare l’importanza dei giudizi suddetti, interverrà Bentivoglio, 1969, ribadendo che: “Il colore di Rossi diviene spazio per le sue intrinseche qualità tonali: questa vibrazione spaziale-cromatica riconduce alle grandi stesure a zone sovrapposte dell’americano Rothko. Francesco Arcangeli e Maurits Bilcke hanno individuato per primi la componente action painting della gamme rossiane. Ma nel contempo le stratificazioni della sua materia pongono Rossi sulla via percorsa da Fautrier. Nel pittore bolognese si compie l’incontro tra l’espressionismo astratto e le hautes pâtes informali legate a una tradizione europea di concretezza. Rimandano al maestro francese i torsi e manichini rossiani del ’67, chiusi all’interno della loro densità infrangibile”.
Il 1957, per quanto attestano gli scritti citati, segna in Rossi la data di passaggio dal figurativo all’astratto e rappresenta la conquista lenta, ma sicura, della sua formazione stilistica, nello scrutare dentro la sua emotiva interiorità. Nelle sue pitture, ara il colore come si fa con la terra, ne cava umori nascosti, spia nei segreti della materia per rivelarne la consistenza tonale.
Nei suoi paesaggi l’impasto si fa sempre più erto, tagliuzzato anche dal sottile fianco di un’assicella (vedi i paesaggi ’58-59) si rizza in rilievi ispidi e allineati; asciugandosi, il mare di colore congela il gesto, lo solidifica in brevi frangenti e schiume. Man mano l’istanza rappresentativa si affievolisce e si palesa uno spostamento della messa a fuoco, dal fattore compositivo-cromatico al materico-tonale. I titoli alludono al punto di partenza naturalistico di una pittura che ormai è pura accensione lirica: ‘Albero bianco’, ‘Paesaggio Autunnale’, ‘Periferia’, ‘Albero fiorito’. Ma ciò che resta rappresentato è solo lo spazio, nella sua corposità e l’amplificazione di questa spazialità divorante la forma è data dalla continua sfaccettatura di strati-toni.
Nel 1958 espone inoltre alla XXIX Biennale di Venezia, con sala personale.
Proprio per quella presenza alla Biennale, Cavalli scrive in catalogo: "Il nuovo traliccio spaziale in cui si annullano tutte le dimensioni dell’antica visibilità, resta ancora struttura viva, scheletro delle cose... La stessa consumata eleganza che un tempo scandiva il canto dell'elegia oggi governa i contrappunti del colore in questo più aggressivo possesso della natura, matrice incancellabile dell'ispirazione". E’ questo il modo in cui Rossi si accosta alle ricerche dell'informale italiano: senza interpretare ruoli estremi, senza praticare scelte radicali, rimanendo coerente fino in fondo alla matrice della propria visione; ma consegnando alla storia di quel tempo le immagini tenaci e resistenti, nella loro qualità, di alti argini e spalti vertiginosi, innalzati mattone su mattone, nell'accordo mirabile dei piani di colore. Un colore variato senza tregua sul pedale dell'emozione: bianchi e grigi che s'intingono d'azzurro, bruni che trapassano in viola, verdi che affondano nell'ombra per arrestarsi sulla soglia del nero; e neri e grigi e bianchi”.
Più tardi, 1994, anche Castagnoli nel testo scritto per la grande antologica di Rossi, rilegge quello stesso spartito, concludendo: “Così la sua pittura si addensò di materia più robusta, si nutrì di gesti più sfogati, si consegnò palpitante all’emozione; ma mantenne ben salda la propria impalcatura strutturale e le sue attribuzioni ordinatrici: dei ritmi, delle pause, dei pesi, dei valori.”
Anche Valsecchi, in precedenza, 1960, aveva ben colto quei motivi nella nuova pittura di Rossi: “Quel risalire vertiginoso di piano verso un orizzonte quasi sospeso allo zenit, non è un artificio per ribaltare l’immagine schiacciata nei suoi rilievi, in un metodo scorciato di neo-cubismo; ma un ripido affacciarsi dell’immagine stessa nella distesa analisi delle sue componenti; ed è su questa più libera spazialità che anche il fuoco del colore, con l’impeto quieto dell’insorgere emotivo, apre i suoi crateri, i fulgori bianchi attorno ai quali si raggruma una materia d’ombre limpide, spessori sottili di geologie messe a nudo per una necessità sempre vigile di non cedere alla confusione, di tener concreto il nodo remoto dei sentimenti naturali nella concretezza di una forma individuata più che artificiosamente scandita”.
Si apre una prospettiva di lavoro “che dal nutrito itinerario degli anni ’58-’60 – per dirla con le parole di Bertacchini, da ‘I martedì’, luglio-agosto 1994 - dalle ‘periferie’, dai ‘paesaggi’ del ’62 va alle grandi ‘composizioni’, ai ‘torsi’ essenziali, al ‘Grigio e azzurro’ di un ciclo conclusivo. (…) Poi, un succedersi di tappe operative e, anche nelle strutture di grandi dimensioni, l’apporto di grondanti, dense zone di bianchi calcinati, di profondi verdi terrosi, di dorate ocre, di note squillanti, appartenenti ad un consapevole, mai dimenticato colloquio con spontanei, urgenti incontri di vita quotidiana. Gli incisivi profili, i graffianti spartiti, le ombrose nostalgie dei colli accanto a casa (motivo constante il moto ondoso del colle di San Luca) le ramificate, spoglie vegetazioni affioranti da musicali dissolvenze di piani ed orizzonti; (…) il rinnovarsi di sensitive indagini ed il mutevole fluire di luci, nebbie, spessori nevrosi, eccitate fioriture campestri, ricordi marini, alberi bruciati dalla salsedine; (…) quel ritorno costante ad un’emotività che, anche se trascorsi momenti di più vicina astrazione, rimane il supporto indelebile di cadenzati, corposi elementi (…) di una comunicativa, poetica natura”
Nel 1958 gli viene assegnato il primo Premio Bologna di pittura. Fra il ’58 e il ’59 tiene importanti personali a Modena alla Galleria La Saletta, Bruxelles alla Galleria Mistral e Roma alla Galleria La Medusa.
I tempi che scorrono rapidi a portare nuove folate di un cosmopolitismo sempre più inevitabile, l’incalzare di più serrate analisi, di nuove fioriture ideologiche, di conseguenti ipotesi metodologiche, l’inclemente protervia delle ragioni del ‘teorico’; tutto quanto accade dagli anni Sessanta in poi, tocca sicuramente questo artista già carico di una storia operativa trentennale. Ma non ne rimette in discussione le scelte. Anzi, forse proprio queste vie della ricerca artistica così lontane dal suo orizzonte, rafforzano la tenacia di resistere all’interno del proprio spazio, per spendere qui, fino in fondo, la fedeltà a certi convincimenti, a certi valori irrinunciabili. Un atteggiamento di vita che si fa cultura e si fa pittura nell’intensificazione di ciò che si definisce ‘privato’, di ciò che perviene all’individuo, non può che coincidere con una mediazione prolungata e silenziosa, per il tramite della visione e della coscienza, sulla natura, sul proprio orizzonte naturale, infine sulla propria storia.
Così, con respiro più disteso, con un fare più sciolto, e ritmi più dolci e morbidi, l’immagine torna a distanziarsi dall’occhio, affidata ad una materia più pacata.
Nella tarda primavera del '60, alla retrospettiva organizzata dalla Galleria d'Arte Moderna di Torino, ha modo di approfondire, come si è anticipato, l’opera di De Staël. Quanto la sua pittura conti nella ricerca dell'artista bolognese, lo si vedrà a breve.
Duilio Courir, 1960, in ‘Le Arti’ è tempestivo nell’avvertire l’inclinazione di Rossi: “Ha riportato nel gioco della cultura figurativa contemporanea un sentimento di natura (già logorato e reso inerte dagli schemi della poetica romantica e postromantica), facendo collimare la sostanza umana del suo patrimonio poetico con la libertà di un moderno contesto formale. Quel fatto importante e fondamentale, interiore ed esteriore insieme, che è il rapporto tra l’artista e il mondo, tra l’uomo e le cose, è rimasto a definire la qualità della pittura di Ilario Rossi ed a salvarla dal vizio di un dolce estetismo”.
Gli fa eco Cavalli, 1960, nel saggio introduttivo per una cartella di incisioni, Edizioni del Milione, Milano: “La pennellata più o meno larga e ispessita, la materia condotta a spatola oppure a densa grafia ma sempre preziosa, architetta e qualifica in una sorta di chiasmo tonale l’oggetto della visione nel tentativo di raggiungere una rinnovata continuità di struttura e di superficie «naturale»” da Introduzione per cartella,
Fra partecipazioni a mostre e riconoscimenti del periodo, si ricordano:
Premio Marche di Ancona (1960), Premio Marzabotto di Bologna, vince il Concorso dell’Autostrada del Sole, vinto, 1961, il Premio Ancona, il Premio Città di Marino di Roma, il Premio Fondazione Michetti di Francavilla Mare (CH) e il IV Premio di Pittura Esso di Roma (1962); le personali alla Galleria Il Milione di Milano, alla Galleria La Loggia di Bologna, alla Galleria del Girasole di Udine (1960), alla Sala della cultura presso il Palazzo dei Musei di Modena (1961) e alla Galleria La Riva di Rimini (1962).
Interviene puntualmente la rilettura di Castagnoli, 1994, su quel ciclo d’opere toccate per cenni in precedenti testimonianze, che ne introducevano, rifacendosi a De Staël. Quanto il grande pittore russo abbia contato nella ricerca dell’artista bolognese “lo danno chiaramente a vedere i grandi dipinti di interno e figura realizzati da Rossi intorno al 1963: di cui uno, ‘Grigio e azzurro’ (anche il titolo suona omaggio al pittore incantato dalla luce di Agrigento) si dichiara come un pensiero decisamente derivato, seppure interiormente filtrato, dal ‘Nudo in piedi’ del ’53, presente alla mostra di De Staël a Torino nel ‘60. Ma le tele del ’63, che Rossi espose l’anno seguente alla Biennale, segnano anche la conclusione di un ciclo e l’esaurirsi di una stagione”.
Così ricorda Marcello Venturoli, 1964, in uno scritto che precede la XXXII Biennale veneziana, la sua ricognizione sui dipinti che Rossi vi esporrà: “Ero andato a visitare lo studio del pittore con una certa trepidazione, perché diversi amici, Arcangeli per primo, che tiene il polso della pittura bolognese come un giovane padre, Efrem Tavoni, uno dei collezionisti e patiti di pittura moderna più appassionati e schietti che abbia l’Emilia, Maurizio Calvesi, anche lui ‘bolognese’, dicono, per passato prossimo sovraintendenziale e ‘tenerezza’ biennalina, il pittore Nanni, il pittore e gallerista Ciangottini, m’avevan detto che Ilario Rossi aveva dei ‘gran quadri’, a cominciare dalle misure, allargando a una base di quasi due metri per due di altezza, la misura ‘minore’ e consueta del quadro di cavalletto, cara agli artisti della generazione formatasi tra le due guerre che non abbiano sposato senza riserve la causa astratta; (…) ed ecco che la medesima impressione confortante dinnanzi alla ‘misura massima’ delle tele di Ilario Rossi, niente affatto ‘dilatate’, appunto, niente affatto versioni massime del mondo medio e minimo dell’Ilario Rossi nella natura; (…) i naturalisti astratti di oggi, tra cui pongo, e in una posizione assai aperta e consapevole, Ilario Rossi, operano tenendo presente istanze formali ora vivissime in tutto il mondo: dalla riproposta figurale, a quella liberty, dal modo col quale far punto con l’informale senza il passaggio obbligato e masochistico nel neo-costruttivismo o nel neo-dada, o peggio, nella pop art; (…) In nobili e decoranti architetture neo-liberty Ilario Rossi inserisce oggetti e figure elaborati con una aggressione di pennellate ricche, mosse e accese nella luce-colore; gli esterni entrano nello studio, nella casa del pittore, e la casa del pittore ‘moralizza’ in una sorte di cornice mentale, astratta, questo mondo di natura ancora una volta presente allo sguardo e al cuore dell’artista”.
A questo proposito, lo stesso Venturoli osserverà nel 1964, catalogo della XXXII Biennale veneziana, che “(…) la ‘natura’ di Rossi, senza perdere di concretezza, mi par proprio che abbia acquistato in solennità, in larghezza. Se si tratta di sensazioni in un teatro di decorazioni, ebbene queste sensazioni decorate possono essere cugine di quelle del De Staël delle ‘paste alte’, nel periodo appunto, tutto astratto, anche se il tocco e la tavolozza di quest’ultimo e felice Ilario Rossi richiamano di più il De Staël ‘figurativo’”.
Ma occorre ancora richiamare la pregnante testimonianza di Venturoli, 1964, per il ciclo d’opere della Biennale veneziana di quell’anno, viste in fase di preparazione: “Nulla di meramente descrittivo e compromissorio in questi interni-esterni dove l’Informale e il Liberty si danno la mano senza contraddirsi a vicenda (…).
Le passate architetture sensibili di Ilario Rossi ancor legate alla lezione di Morandi, non per una puntuale sudditanza stilistica, ma per la grande suggestione di rigore che opera il Maestro a Bologna, sono oggi arricchite e rese come dialettiche da una pressante varietà di pensieri pittorici: plein air e oggetti-simboli dentro lo studio in un accozzo di forme ora rilevate nell’impasto, ora campite, oggetti-personaggi che una luce accende e colloca fuori dallo spazio fisico, decorazioni dell’art nouveau che assumono dignità di ribalta per la vicinanza della umana figura, recuperata non nella gerarchia umanistica di grafie e chiaroscuri, ma, anch’essa, nella carne della pittura ‘dopo Cèzanne’. (…) In Ilario Rossi l’elemento liberty è sempre d’appoggio; magari determinante, ma mai sentito come unico personaggio, o protagonista, della scena. Anzi è la scena su cui figure e immagini neo liberty si atteggiano in tutta la loro carnale e luministica evidenza”.
L’artista stesso riflette, 1968, qualche tempo dopo, sulla ricerca sviluppata in questo periodo: “Anche nelle opere ove il vero trascende e tende, per fantasia o emozione evocativa, verso l’astratto, è sempre il rapporto tonale, di estrazione bolognese più che morandiana, che ne è il mediatore.
La lettura poi delle testimonianze dei critici (…) possono convalidare il convincimento ormai diffuso della solitaria formazione della mia pittura che, pur muovendosi fra gli ‘ismi’ più vari, dal postimpressionismo francese ai rinnovamenti del novecento italiano, dal picassismo all’informale alla pop-art, non ne è rimasta intaccata ma semmai incoraggiata negli sconfinamenti di un moderno possibilismo e nei limiti di personali avventure.
Per ciò che riguarda gli intendimenti artistici più recenti, che seguono il naturalismo astratto dei miei paesaggi dal 1957 al 1963, una sorta di scapigliata ‘metafisica’ unita a una ripresa figurativa di apparente ‘liberty’ è al centro di nuovi interessi(…). Non è che intenda riproporre, negli ultimi quadri, un ambiente di ricco ‘liberty’ (alla Matisse per esempio) o di povero ‘liberty’ (alla Vuillard) o di granaio o di baraccone, ma di tutto questo vorrei cogliere il pretesto essenziale alla poesia e all’inserimento vitale fuggente, in termini imprevisti o di riflessione”.
I titoli rinunciano a proporre qualcosa di esterno alle facoltà della materia e alla sua interiore poetica: ‘Liberty’, ‘Come affresco’, ‘Spirituals’, ‘Miscellanea’, ‘Grigio e Azzurro’, alludono ormai soltanto alla qualità del rapporto tra l’artista e la tela. Quest’ultima ha un ruolo particolarissimo nel procedimento rossiano. Tanto possessiva è infatti la visione dell’artista che il supporto ne viene assimilato: sia il cartone, rosso, verde o violaceo, sia il foglio marezzato, sia il tessuto bianco, grigio, color sacco o rigato: come nel ‘Torso’ del ’64, dove viene utilizzato un indumento femminile. Il supporto suggerisce quindi il tono dominante. La pittura esalta solamente se stessa e il segno assolve tale funzione, incidendone il denso impasto, o, in profondità, facendosi spessore.
Nel 1964 Rossi allestisce la sua importante sala personale alla XXXII Biennale di Venezia,
In questa occasione espone le tele elaborate nell’arco del '63 , che segnano anche la conclusione di un ciclo e l’esaurirsi di una stagione. Sono prevalentemente, ma non solo, paesaggi: campi, alberi e case sovrastati dal profilo protettivo e materno della collina, internati nella memoria e nel cuore. Sono luci e colori d'autunno, inverni ammantati di neve, fioriture di primavere: ancora e sempre le stagioni, che scandiscono il tempo dell'esistenza, a dare voce nuovamente al tono dell'elegia. Quei paesaggi, costruiti a larghi gesti, in una nuova sintesi di forma e di colore, sono le opere che hanno decretato il successo dell'artista e maggiormente concorso a diffonderne la notorietà.
Non solo paesaggi: anche opere di taglio grande che esprimono un’immagine di natura emancipata dal paesismo e dal naturalismo precedenti. Nobili e mentali architetture neo-liberty. Una poltrona, un burattino, un vecchio mobile o un soffitto affrescato, il corpo nudo di una donna, gli oggetti dello studio, si presentano nello spazio mentale della tela in architetture di forme sospese, dove la luce batte come su una brace.
Per la personale alla Galleria La Steccata di Parma, 1965, Roberto Tassi commenta in catalogo: “(…) Nelle opere qui esposte una ispirazione felice, turgida, stillante, ha saputo trovare i termini di un linguaggio duttile, liberamente evidente. La stesura tonale, di ascendenza morandiana e, come è stato anche detto, romana, che era sempre apparsa uno degli elementi più precisi dello stile di Rossi, si è infitta di materia, addensata di luce e nella spaziatura più liberamente assortita, ha lasciato trapelare colori vividi, freschi, immediatamente rispondenti al sentimento: verdi tenerissimi, gialli luminosi, rossi appena balenati. Il tonalismo è rimasto come l’amalgama che ricopre le giunture formali e crea l’atmosfera dell’opera, ora in un bianco-grigio diffondersi di neve sporca, ora in un pulviscolo mielato di luce pomeridiana, ora in un acquoso chiarore mattinale”.
Fra partecipazioni a mostre e riconoscimenti del periodo, si ricordano:
Premio I.N.P.S. di Roma, il Premio Cinisello Balsamo (1963, collettiva alla LX Quadriennale Nazionale di Roma a Villa San Giovanni di Pescara, Mostra del Disegno italiano contemporaneo presso la Società Amici dell’Arte di Faenza e Mostra dell’arte italiana a Zagabria, Associazione Likum (1965); il premio Città di Modigliana vinto, e la nomina alla cattedra di decorazione vinta per concorso presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna (1965).
Inizia il suo magistero all’Accademia.
Nella pittura di Rossi del periodo affiorano allusioni geometriche: in ‘Rose e ideogrammi’ e ‘Seggiolone e liuto’le linee nella realtà fisica sono solchi dentro lo spazio, e lo spazio è talmente presente nella realtà tattile del pittore che gli oggetti immersi in esso sembrano ferite. I suoi rossi sono bagliori espressionisti, sicuramente non di provenienza morandiana.
Così Spadoni, 1982, interpreta la conversione attuata da Rossi: “Certo, il ‘dolce indugio’ di cui parlava Calvesi nel ’59, vale a dire la tentazione a fare ‘bella pittura’, che ha sovente risucchiato Rossi verso l’idillio tonale, ne fa uno dei pittori più dolcemente melanconici, e, sia pure, accattivanti, dell’area bolognese. Ma questo era ed è il suo mondo; anzi, il suo modo di vedere, di sentire il suo mondo, e di restituirne come dietro un velo dalle trasparenze delicatissime, il mutare dei colori, della luce, delle stagioni. E dalla fase che definire informale potrebbe essere una forzatura di termini, il passaggio ad una visione, sempre concisa e avviluppata come un bozzolo o in una placenta luminosa, ma meno contratta e ravvicinata, e di respiro più disteso, non ha costituito in nulla una svolta traumatica. Piuttosto, un graduale e naturale processo di riflessione sulla pittura e, ancora una volta, sulla propria storia”.
In contemporanea con quella conversione, se tale è stata, come l’ha intesa Spadoni, scorre la testimonianza di M. Azzolini, 1967: “Ora questa pittura di Ilario Rossi si è fatta più risonante, in un certo senso, ma anche più profonda, più saldamente tenuta su una corda sonoramente chiusa, piena di echi interni. Non più tralicci di supporto delle immagini, appena venate di echi lontani, modulati e franti, raccolti da echi struggenti di pateticità, di stagioni meste, di ore sconsolate, a volte già lontane e recuperate attraverso pungenti ricordi, di sofferte malinconie. Ora è la tenuta delle cose che si impone nelle sue immagini, della loro sostanza, soprattutto, non soltanto fisica, ma riversata nei sentimenti che da esse vengono spinti e coltivati, perciò perduranti, carichi di presagi, ma anche di fiduciose, buone certezze. Allora certi rossi bruni o taluni gialli, anziché scarnire la sentimentalità, ne fanno pregnanza ed estendono non più l’eco di nevrotiche emozioni, repentine e secche come folgorazioni, ma danno solido impasto ad una emozione che s’è fatta ora persino più piena e soprattutto perdurante, con un blocco saldamente tenuto dell’immagine”.
Anche Gorini, 1970 ne dà attendibile lettura: “… con Ilario Rossi la pittura si inserisce in un’area figurale-astratta di complessa strutturazione ma di personalissimo gusto e definizione. Rossi entra cioè in quella forma di ‘astrattismo naturale’ che ha sempre aspirato a rendere gli aspetti e le forme varie della natura nella veste della pura immagine lirica. Ma al mondo naturale, Rossi vi aggiunge anche quello ‘ambientale’ (manichini, torsi nudi, burattini, mobili, oggetti di studio ecc.) recuperando la realtà e non per le vie del ‘combinismo’ americano o del ‘collagismo’ internazionale ma con gli elementi che sono propri della pittura. Con pennellata larga e mossa, che sembra talora calata in atmosfera rovente o in un bagno di luce e di colori, in queste sue tele di grandi dimensioni, egli scandisce appieno il suo mondo sensitivo ed umano e senza urti con libera fantasia e con uso sapiente dello stesso ‘liberty’ stabilisce una nuova istanza formale, che pur essendo ancora di derivazione informale, va oltre questo limite…”.
Nella monografia a lui dedicata nel 1968 Luciana Leonelli conclude: “(…) Le tele di Ilario Rossi non sono di lettura immediata. Il gusto del colore e della composizione, l’eccezionale abilità tecnica, costituiscono i più semplici motivi di ammirazione; ma rappresentano, d’altra parte, i mezzi con i quali sensibilmente egli si nasconde al pubblico, o meglio si lascia intravedere, trascina ma non esibisce, offre ma non impone. (…) Siamo convinti immediatamente dalla realtà che l’opera ci propone, ma quell’immagine rappresenta l’artista. Il rapporto magico non è evanescente, poiché l’uomo lo sostiene: lo comprovano le pennellate sicure, la padronanza delle grandi tele, la riluttanza a nascondersi dietro la timida facciata dei grigi, l’amore per il colore. Ilario Rossi è padrone del colore, lo sente, lo domina, lo dispiega con piacere quasi sensuale. Dai toni bruni, ai marci, ai rapidi accorti dei toni caldi, la gamma si dispiega lungo i sensibili richiami di uno stato d’animo, come nei paesaggi; si armonizza sullo schermo di fantasiose trasparenze per circoscrivere un pensiero, come nei manichini; gioca su poetiche allusioni come in certe composizioni di fiori. Ed anche quando il dialogo tende a farsi monologo, quando la parola si affida all’astrazione, il colore permane caldo, reale, avvincente”.
E, ancora alla fine di questo plesso cronologico, due salienti interventi, dovuti ai poeti Gorini e Buzzati, fissano la soglia operativa di Rossi: “Ma se la poetica del paesaggio ha costituito fino a pochi anni fa la sua fonte ispirativa più schietta, vi sono certi temi e motivi, specialmente nelle opere di oggi, che benché siano concepiti e svolti in chiave più astratta che figurativa, rappresentano i punti più alti del magistero di questo artista. Vogliamo alludere a quelli incentrati principalmente sull’uomo nella sua relazione con la realtà vivente. I suoi manichini, i vecchi mobili di casa, gli interni di studio, i drappi floreali, le danzatrici, i giocolieri e particolarmente i suoi vigorosi ‘torsi’ di pugili, di cavalcanti, di donne, gli offrono una provvista di immagini, di accordi segreti e richiami simbolici, per commentare, sorprendere, trasfigurare la molteplicità fenomenica delle forme, salde e possenti a volte come sculture” (Gorini, 1970)
“Ne ha fatta, di strada, Ilario Rossi da quando, poco più che ventenne, andava a scuola da Morandi. Il lungo cammino eccolo qui, steso davanti a noi.
I suoi campi di grano sono sempre campi, la sua neve, neve, i suoi nudi, nudi, anche se limitati, sconvolti, essenzializzati dalla fantasia. E si tratta di un’operazione in apparenza di scatto immediato, sgorgata dalla natura, senza tanto pensarci su. Invece ci si accorge restando un po’ di tempo davanti a questi quadri, che il lavoro deve essere stato assai meno istintivo, rapido e facile. Lo si deduce dal modo con cui i quadri si comportano con noi. Non ci prendono per una spalla mentre noi passiamo davanti, non ci strizzano l’occhio, non ci spalancano le braccia. Anzi molti se ne restano là con il muso impalato senza un sorriso. Allora sediamoci di fronte, e aspettiamo un momento. Ricordi, per caso, di Fautrier, di Cassinari, di Meloni, di Morlotti, di Moreni? Presto dileguano. Con una certa circospezione, con una certa lentezza, viene fuori lui, Ilario Rossi. Ecco: il vento muove le foglie, il torso respira, le cosce si divincolano, la signora si alza dalla sedia. E’ la luce, la verità, la vita. E’ la luce, la verità, la vita. E allora si afferrano il significato e la forza di questo pittore che è pittore fino al midollo delle ossa” (Buzzati, 1970)
Nel 1970 è nominato direttore dell’Accademia di Belle Arti di Bologna.
Fra partecipazioni a mostre e riconoscimenti del periodo, si ricordano:
personale al Centro d’Arte Botti di Cremona, collettiva ‘Pittori e scultori di Cronache’, presso lo Studio di Arte Grafica Contemporanea di Bologna, Mostra nazionale d’arte figurativa di Pescasseroli (1966), Mostra presso la galleria Palette Bleu di Parigi; il Premio Vignola e il Premio Cento di Ferrara vinti entrambi (1967), personali alla Galleria Mantellini di Forlì, Il Gotico di Piacenza, A 10 di Padova e Il Campanile di Bari; l’importante rassegna Artisti di Cronache, presso il Museo Civico di Bologna (1968); personali alla Galleria Il Sileno di Palermo e Benedetti di Legnago (1969), Galleria A10 di Padova, Georgia di Lugano e Cortina di Milano (1970).
Si può riprendere l’excursus sulla vita e l’opera di Rossi, affidando questo plesso cronologico all’efficace sintesi di un critico acuto qual è stato F. Menna, 1971: “Ilario Rossi. L’artista ha ormai alle spalle una lunga attività, costellata di risultati da annoverare tra le cose più interessanti della pittura italiana del dopoguerra. E intendo la pittura-pittura, la fedeltà a strumenti antichi di espressione ma impiegati con intelligenza tutta moderna. Soprattutto a partire dalla stagione ‘informale’ o, meglio, dall’incontro con l’arte informale che l’artista ha sentito come un evento decisivo per la sua evoluzione stilistica.
Da quegli anni le forme discrete e finite delle apparenze fenomeniche si sono trasformate nella sua pittura in grumi e macchie dense di materia-colore, in spessori cromatici che ci fanno sentire, direi tattilmente, la superficie, la pelle della natura.
(…) Giungendo a un rapporto col mondo naturale contrassegnato da un più marcato accento contemplativo. Le stesure dense del colore, che invadevano l’intera superficie pittorica, hanno ceduto a una impaginazione più controllata razionalmente, più costruita: sicchè il paesaggio e la figura appaiono ora sorretti da una gabbia spaziale oltre la quale il colore continua a recitare la sua parte di incantamento lirico, di struggente partecipazione”
“Non s’incontrano nudi nella produzione pittorica dell’artista – aggiunge Bentivoglio, 1971 - se non i più tardi ‘Torsi’ (grandi oli che, pur riecheggiando filtrata una origine novecentesca, sembrano vagamente apparentarsi ai matrici ‘Ostaggi’ di Fautrier; infatti il primo seme, degli uni e degli altri, è da rintracciarsi negli stessi fecondi, drammatici anni). Pur rimaneggiando a distanza di tempo l’esperienza grafica del primo dopoguerra, i torsi rossiani saranno privi di testa, di braccia e di gambe: l’inclusione dei dettagli anatomici denoterebbe un’attenzione per la struttura, là soverchiata dalla golosa densità della pasta pittorica”
Ilario Rossi non è estraneo ai contatti col mondo esterno, ma non ne è attratto e non s’allontana da quello che gli ha dato il suo primo nutrimento. Una scelta che egli stesso pare suggerire simbolicamente con l’immagine insistita del colle di San Luca, alla cui sommità le architetture essenzializzate del suo paesaggio assumono quasi la forma di un capezzolo: come in ‘Paesaggio verde’, del ’73, ‘Neve a San Luca’, del ’75, ‘Neve e alberi bruciati’, ’76, fino al ‘Paesaggio grigio rosato’ del 1982.
Nel 1971 gli è conferita la cattedra di pittura presso l’Accademia di Brera, a Milano.
Nel 1975 porta a termine i lavori di costruzione della casa di Monzuno, sull’Appennino bolognese, dove, da questo momento in poi, Rossi si ritirerà per sei mesi all’anno circa.
Durante il quadriennio espone in una serie di personali: alla Galleria Diagramma 32 di Napoli, all’Università del Tempo Libero di Modena e alla Galleria La Barcaccia/Circolo degli 11 di Reggio Emilia e all’Università del Tempo Libero di Modena (1971), alla Square Gallery di Milano (1973), alla Galleria Ciruzzi di Padova, alla Galleria Il Fauno di Verona e alla Galleria Michelangelo di Bergamo (1974); alla Galleria Il Centro di Valdagno e alla Galleria Lo Spazio di Napoli (1975); alla Galleria Palmieri di Milano e al Centro d’Arte Il Cubo di Lanciano (1976).
Le ultime fasi del suo lavoro si manifestano come una rinnovata elaborazione dei temi che da sempre gli sono cari, ancora nel segno della composizione, e dell’uso virtuosistico del colore, che risolve in equilibri armonici l’azzardo di tinte a volte innaturali.
“Si presenta Ilario Rossi, quale pittore di architetture semplici e incantate – scrive M. Fumagalli in occasione della mostra alla Montrasio di Monza, 1979 - seguace di certe magie sceniche, come d’una cronaca che apparendo si eclissa: e conosce certi profili esitanti e pudichi, instaura dei ritmi, delle scansioni simili a linee o a fuscelli in navigazione sopra una plenitudine canora, disposti a farsi sommergere dall’oceano colorato. Cerca spazi grumosi e attigui l’artista, quasi u trillo d’una pittura d’affresco, la pelle scabra d’un muro sopra il quale è corsa una storia e un dipinto.
Fa notizia estiva o invernale, e magari cronaca di città: ma è paesistico sempre, sprofondato o diffuso nel colore, luministico anche, forse in cerca d’aria o di luce, disposto a rarefarsi, ad accogliere nella pelle le frecce vibrate della parola.
La fabbrica, la neve, l’autunno, paesaggi urbani e campestri, una vasta notizia del mondo, ma in forma essenziale e veloce, all’angolo aguzzo d’una sintesi, due corde di strumento che vibrano, che diffondono nel paesaggio una nota, una storia discreta e silente, ritmi verdi o di rosa, fruscianti nel grigio o disposti verso la morbida chiarità delle nevi.
Rossi vive così. E prima irrompeva più sordo e opaco all’informale, metteva una gran siepe davanti al figurativo, cercava il confine d’un muro affrescato. Poi tornava a sedurlo l’immagine. E l’artista si faceva più respirato e più dolce. Alzava il sorriso delle nevi e delle campagne, viveva la nota verde o rossigna, arpeggiava lungo la traccia breve del segno, trovava spazi campestri e similitudini urbane: e una definitiva notizia terrestre, l’avviso d’una nuova fantasia mondana, d’un paragrafo che intinge la punta della parola nello spessore colorato d’una cronaca di città” .
Per una piccola ma intensa personale allo Studio d’Arte Otesia di Sant’Agata Bolognese, 1980, in catalogo A. Baccilieri scrive:
“(…) Rossi cerca nella natura l’emozione; ma subito – nella pittura - questa si fa ‘taglio’, composizione, invenzione (nel senso etimologico) del soggetto, o, se si preferisce, sigla. Così i suoi paesaggi, prima di essere un angolo specifico del territorio, sono l’idea, la memoria indelebile, filtrata attraverso l’occhio e il cuore, che l’artista bolognese ha della sua terra. La ‘veduta’, per essere stata rivisitata a più riprese nel tempo, si è fatta ormai immagine nella mente. E’ questa la ‘sigla’ che Rossi riproietta sulla tela quando compone un paesaggio, quasi una figura della memoria, rispetto alla quale la visione diretta si presenta come puro pretesto”
Sembra riprendere il tema Spadoni, 1982: “Così, (…) con respiro più disteso, con un fare più sciolto, e ritmi più dolci e morbidi (certe linee d’orizzonte, o profili di colline hanno la grazia di un seno di donna) l’immagine torna a distanziarsi dall’occhio, affidata ad una materia più pacata.
Ma è un’immagine che dalla realtà naturale rimanda sempre più agli affioramenti della memoria. Ecco, i fantasmi della memoria, la malinconia della memoria, sono ormai il filtro che distilla la pittura di Rossi, e la rapisce verso le soglie del ‘vizio di un dolce estetismo’ come ebbe a scrivere il Courir”.
E così lo chiosa Castagnoli, 1994: “Furono luci e colori d’autunno, inverni ammantati di neve, fioriture di primavere: ancora e sempre le stagioni, che scandiscono sempre il tempo dell’esistenza, a dar voce nuovamente al tono dell’elegia. Quei paesaggi, costruiti a larghi gesti, in una nuova sintesi di forma e colore, sono le opere che hanno decretato il successo dell’artista e maggiormente concorso a diffonderne la notorietà. (…) Egli ha versato stupefacenti qualità di pittura e una sincerità di sentimento e di emozioni che chiede solo d’essere riconosciuta per ciò che è stata e ha voluto essere: il tramite per dare figura e moderna sostanza di poesia a un ‘paesaggio dell’anima’”.
Fra partecipazioni a mostre e riconoscimenti del periodo, si ricordano:
personali alla Saletta Galaverni di Reggio Emilia (1977 e 1980), al Centro d’Arte Il Cubo di Lanciano, allo Studio 5 di Bologna, alla Galleria Montrasio di Monza (1978) e Ca’ Vegia di Salice Terme (1979); la collettiva L’acquarello in Italia, Reggio Emilia (1977), la mostra itinerante ‘Presenza grafica bolognese nel dopoguerra’ e il premio ‘Città Eterna’ per la pittura vinto a Roma (1979).
Nel 1976 viene pubblicata la bella monografia a cura di Luigi Carluccio: ‘Ilario Rossi’, Edizioni Due Torri, Bologna.
Si ricordano ancora: personali alla Galaverni di Reggio Emilia e Ponte Rosso di Milano; la collettiva ‘Naturalismo. Memoria e presenza’, presso il Laboratorio di Arte Contemporanea di Goro, 1982;
nel 1983: la grande rassegna ‘L’informale in Italia’, presso la Galleria Comunale di Arte Moderna di Bologna.
L’ultimo decennio di vita ed arte continua ad essere segnato, in Rossi, dalla dedizione costante alla sua opera.
Ricordava l’artista: “Lavoro molto, come un operaio: mi alzo tutte le mattine alle sei e dipingo fino a mezzogiorno; poi uno spuntino, un sonnellino e di nuovo al cavalletto.”
Volendo ripensare, in sintesi, il suo ‘adagio’ operativo, si può ricorrere alla lettura di Beatrice Buscaroli, in ‘Ilario Rossi – La continuità della pittura’, 2004 : “E’ un modo esteriore solo in apparenza, nella realtà intimamente meditativo e privato. La sua natura lo mantenne e lo guidò sempre in una sorta di zona privilegiata, senza eccessi o scelte radicali, consentendogli di raggiungere la coerenza serena propria solo dei grandi artisti, quei privilegiati che attraversano i periodi della vita scandendoli con le necessità della loro anima.
Non è un azzardo affermare che le opere di Ilario Rossi sono una sequenza di meditazioni sul paesaggio, più che una sua rappresentazione. (…)
Questo patrimonio giunge a Rossi sedimentato, assimilato e trasformato in un qualcosa di assolutamente originale e personale per essere passato dall’interno, alimentato da una necessità reale, da un’autentica urgenza artistica. (…)
E’ un ansare quieto, come di fondo. Uno sfogliare, una pagina dopo l’altra, una storia.”
Si può ancora, dilatando l’ottica dal ‘soggetto’ alla ‘situazione’, ricorrere, oltre quella offerta dalla Buscaroli, alla lettura di Claudio Spadoni, 1982: “E’ forse per una singolare dannazione che certi artisti del nostro tempo si trovano spesso a scontare le proprie radici culturali e geografiche. Radici che sentono di non poter recidere senza far violenza ad un modo di essere uomini e artisti che non mi sembra solo inteso come atteggiamento morale, come pratica di vita, ma più oscuramente avvertito, o patito, appunto, come destino. Ben difficile destino, se solo si pensa quanto ha messo in atto la cultura contemporanea per annichilire le plaghe provinciali, irridere alle loro storiche peculiarità, disperderne la memoria, i ‘tramandi’. L’aspirazione cosmopolita è apparsa come l’unica, legittima possibilità dell’intellettuale, dell’artista, di non apparire un sopravvissuto, e così entrare nel gran coro delle voci del ‘moderno’, del ‘nuovo’, dell’attuale. Coro che troppo spesso è risultato composto di voci anonime, impersonali, più o meno intonate, ma incapaci, comunque, anche di ‘steccare’ autonomamente; non dico di assurgere al livello di solista, privilegio di pochi.
Con la consueta lucidità, Maurizio Calvesi, in un recente intervento – continua Spadoni - scriveva che ‘le etichette che hanno fagocitato le personalità degli artisti, i quali esistono, se esistono, solo in funzione del loro inquadramento in burocratiche e mercantili caselle, inventate (non dagli artisti, succubi tuttavia di buon grado) ai fini dello smercio. Del resto non si parla più di movimenti, ma di tendenze. L’arte non si muove, almeno da una quindicina d’anni, ma tende a mete che si dissolvono prima di essere toccate, così come qualsiasi cosa nel mondo attuale (in primis l’economia e la politica) in realtà non si muove ma tende, perennemente irrisolta, ad alternative che non si danno. Prima in attesa del grande rivolgimento o rivoluzione che non è venuta, oggi nella catastrofe, che però non viene neanch’essa’.
Questo passo sintetizza efficacemente l’immagine della cultura dominante del nostro tempo, l’ideologia che la sottende, le ragioni e le ossessioni che l’accompagnano e la orientano.
Di fronte alle grandi tensioni, alle pretese di universalità delle ideologie (la cui astrattezza è tanto sfuggente da passare indenne anche attraverso i cataclismi della storia); di fronte alla pretesa visione da ‘sguardo dal fuori’, dove la terra nella sua globalità è ormai considerata per quel che può apparire ad un occhio tecnologico, come possono sostenersi e sopravvivere un’idea individua e valori individui, che, in quanto tali, si autodefiniscono anche in un ambito geografico e storico tanto circoscritto da risultare ‘insignificante’?
E’ però curioso come la coscienza (e l’angoscia) del limite che ancora ci imprigiona, abbiano trovato sfogo e compensazione nella pretesa logocentrica di dettare ‘regole’ universali, modelli di comportamento uniformanti. C’è da credere che il clima instauratosi in questi ultimi anni, al di là di ogni frivolezza salottiera, di ogni scaltra manipolazione, di ogni astuta cialtroneria manageriale, abbia messo a nudo proprio e soprattutto le misere presunzioni di scaltrezze teoriche, di sottigliezze e ambiguità speculative, di infatuazioni ideologiche, tutte aspiranti al mito della certezza risolutiva. Tanto da poter facilmente recidere quel cordone ombelicale con la storia (e con la geografia) che ancora poteva apparire una briglia indesiderata, un legame aggrovigliato con una condizione da liquidare senza remore.”
Come si vede, è una bellissima ‘nicchia’, da artista resistente, quella che Spadoni consegna a Rossi e al suo impegno.
La città di Bologna volle attribuire a Rossi, 23 maggio 1994, il prestigioso Nettuno d’oro. Concetto Pozzati, al tempo anche assessore alla Cultura, così rivolge, ma nel suo ruolo ufficiale da pittore a pittore, il suo segno di stima all’artista: “La differenza generazionale tra il Maestro Rossi e la mia è stata la stessa differenza (non distanza culturale) che Rossi ha avuto con Morandi, Corsi e mio padre al quale era legato da amicizia. (…) Rossi per noi giovani di allora era un riferimento come uomo, come amico, come artista. (…) Quanti incroci umani, culturali e generazionali esistevano. Che differenza e civiltà rispetto ad oggi dove gruppi trincerati e rigide omologazioni non permettono più di dialogare e di confrontarsi.
Leggo la motivazione che ho proposto per l’assegnazione del Nettuno d’Oro al Maestro, in concomitanza con la mostra antologica che la Galleria d’Arte Moderna ha dedicato al pittore; essa vuole essere non solo un ulteriore tributo reso al magistero che egli ha saputo conquistare in più di sessant’anni di vita artistica, ma la testimonianza affettuosa e solidale che quei costumi civilissimi e discreti, che Rossi ha osservato, rappresentano valori ancora riconosciuti ed apprezzati dalla comunità a cui l’artista appartiene.”
Ci si può infine affidare davvero all’elegia, letterale e traslata, per trascorrere l’ultimo tempo di Ilario Rossi: scrive F. Basile in ‘Canto/Controcanto’, 2000, riassumendo il senso del rapporto pittura e poesia in Rossi: “Pagina dopo pagina il racconto si dipana sulla duplice intelaiatura immagine-parola. (…)
Echi di parole, ricordi e segni lontani si univano alla sua fantasia come un sottofondo destinato ad accompagnare l’atto del dipingere. (…)
L’artista aveva lasciato da poco Monzuno, quieto rifugio sull’Appennino dove era possibile rifornirsi di luce e di colori. Rossi ne faceva una grande scorta assieme a un rosario di scorci di alture e di valli, soprattutto di quegli effetti luminosi che rendevano inedito quanto era stato inquadrato poco prima. (…)”
Ilario Rossi diceva dei suoi paesaggi: “Diversi dei miei quadri rappresentano paesaggi bruciati dal sole e quasi da questo calcinati e trasfigurati in roghi e braceri bianchi o gialli. Sono questi i soggetti che mi entusiasmano.”
Riprende Basile: “L’opera di cui si diceva è un paesaggio, modulato riflesso di una delle tante visioni d’estate, o forse un brano interpretato sull’onda di un motivo poetico. (…)
Un colle appena marcato nello stacco fra concreto e astratto, indizi di realtà, parvenze vegetali che sembrava volessero far confluire il loro verde in un sogno d’oltrecielo montaliano. Posato sul cavalletto, sotto una lampada riparata da un foglio di carta stagnola, la visione di quel dipinto torna alla mente come sospinta dal passo di una poesia. (…)
Un altro dipinto ci colpì in quel giorno di settembre. Un algido paesaggio che il pittore aveva eseguito molti inverni prima, e al quale sembrava tenere moltissimo. ‘Questo non deve uscire dallo studio’, diceva con tono cospiratorio. Si guardava intorno ed era chiaro che la raccomandazione era più rivolta a se stesso che ad altri, visto che era lui a decidere quali opere dovevano uscire dallo studio. (…) Lo abbiamo collegato a un passo montaliano, con quei toni chiari e quelle scansioni che offrono varchi su mondi autentici, parole e colori per un dialogo che traluce presagi di più effusive discorsività, schede che eludono il mistero grazie a un cifrario che si identifica con l’evidenza delle cose: ovvero, con la verità.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
S’abbandonano e sembrano vicine
A tradire il loro ultimo segreto,
talora ci aspetta
di scoprire uno sbaglio di natura
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità.
(Da ‘Ossi di Seppia’)
(…) Difficile trasferire certe sensazioni con l’elemento verbale. ‘Anche con i colori non è facile’, aggiungeva Rossi, che, prendendo atto dell’indeterminatezza di quegli istanti, annotava mentalmente la stesura della notte per trattarla a modo suo, magari il giorno dopo, in un cielo non oscurato, con la luna trasformata in una virgola luminescente dietro la culla rigonfia di un colle. (…)
A Rossi succedeva spesso di esplorare la notte. La luce è più chiara quando si conosce la profondità del nero.
Era attratto dal mutare dei colori, alle ore dava scansioni personali che i dipinti ricordano nel fluire di segni. (…)
Il tempo delle cose si è fermato nei quadri, consolidato nelle pennellate di grigio e da accensioni lievemente azzurrate. Il pittore rimaneva a lungo nello studio, smetteva solo quando la luce non dialogava più con i modelli delle nature morte, oggetti-amuleti, avrebbe detto Montale, metafore d’arte rafforzate dall’immaginazione. Anche il tempo di Rossi si è fermato nei quadri, (…) con il sole che chiamava continuamente a raccolta le coordinate della luce fino a tingersi di vermiglio in maestosi tramonti, con le notti portatrici di un mistero che si sarebbe concluso, forse, nel sonno.”
E’ ancora F. Basile a trovare accenti toccanti e accorati per descrivere l’estrema stagione di Rossi nell’articolo di saluto all’artista scomparso ne ‘Il Resto del Carlino’, 19-11-’94 e in ‘Rossi, L’ultima estate’, 1995: “L’ultimo periodo a Monzuno è stato particolarmente proficuo. Lontano dalla torrida estate bolognese ha dipinto molto, tra le suggestioni del ricordo e la perentorietà di un confronto diretto con le cose e con le natura, con quei moduli collinari trascritti come un pallido presagio di una nuova aurora o come momenti attraversati dal senso elusivo di un sogno. Rossi ha lasciato Monzuno pochi giorni prima della morte. Si era portato dietro tutto ciò che aveva fatto lassù: un fascio di note colorate erano così finite nello studio di Bologna, pagine di una lunga estate messe a confronto con i colori di tutta una vita, in un vecchio garage dove l’ultimo istante è racchiuso in un incompiuto vaso di fiori.”
“(…) nella mente instancabile
un limpido tracciato
di universi quotidiani
fatto di complessità. (…)”
Così si fissa nei versi di Gabriella Padoan, la memoria ultima dell’artista.
Per concludere nuovamente con Basile: “Dei giorni passati sulle alture Rossi ha lasciato una parabola intensa e accorata, forse un inconscio riepilogo della vita, un affrettarsi sulla tela prima della fine. Il repertorio di questo capitolo si compone di una quarantina di lavori, tra paesaggi, fiori e nature morte.
Scorrono così le immagini dell’ultima estate: un cielo che si perde dietro l’apparizione di una linea, una collina che si sviluppa come un’onda, colori come luci che ruotano attorno all’astro della memoria. Immagini come un sunto di vita che annoda esperienze e ricordi, un lucido riepilogo simile alla totale rappresentazione che scorre dinanzi agli occhi di chi sta per andarsene: tutta l’esistenza rivissuta in un lampo.
Rossi si alzava molto presto al mattino e come d’abitudine scendeva subito nello studio. E’ morto davanti al cavalletto, appena aveva delineato un mazzo di fiori. (…) La tela è rimasta là, sul cavalletto, circondata da una miriade di tubetti e pennelli, fra i segni di una vita intera. Se Rossi avesse dovuto scegliere il modo di morire, certamente avrebbe scelto questo. E’ stato come un lampo che l’ha preso fra le sue cose.” (Basile, 1995)
Fra partecipazioni a mostre e riconoscimenti del periodo, si ricordano, oltre al titolo di Accademico clementino e membro del Comitato italiano arti figurative aderente all’UNESCO: personale alla Loggia di Bologna e molte rassegne: ‘Motivi Dominanti’, presso la Galleria Ponte Rosso di Milano; ‘Artisti Italiani per Federico Garcia Lorca’, Reggio Emilia; XXIX Biennale Nazionale d’Arte Città di Milano; tutte nel 1985
L’anno successivo (1986) due personali alla Sala Comunale di Monzuno (Bologna) e alla Sala d’Ercole del Palazzo Comunale di Bologna.
Tra le collettive: ‘Arti figurative sui temi della Resistenza’, Comune di San Giorgio di Piano e ‘Dialogo Arte-Pace’, Palazzo Re Enzo di Bologna (1986).
Segue la XXX Biennale Nazionale d’Arte Città di Milano presso il Palazzo La Permanente di Milano, 1987; e, di particolare rilievo, nel 1988, la rassegna ‘L’Accademia di Bologna. Figure del Novecento’, presso l’Accademia. E ancora: ‘Panorama - Arte a Bologna: la generazione anni Dieci’ tenutasi a Monzuno e collettiva ‘Padania: tra Cronache e Ultimi Naturalisti’, presso il Centro Culturale 555 di Roma.
Nel 1990, la VI Triennale dell’Incisione Palazzo della Permanente di Milano (1990)
Nel 1991, personale alla Galleria Marescalchi di Cortina D’Ampezzo.
Nel 1993, ‘Pittura e realtà’, Palazzo dei Diamanti di Ferrara e XXXII Biennale Nazionale d’Arte Città di Milano, Palazzo La Permanente di Milano
Nel 1994, l’ampia antologica alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna e la partecipazione a ‘Bologna New York – Sessantartisti’, New York e alla Paolo Nanni di Bologna;
infine, ancora nel 1994, il Comune di Bologna gli assegna il Nettuno D’Oro.
Nel 1995, personale alla Guelfi di Verona e presso il Comune di Monzuno.
Nel 1999, una importante rassegna antologica dedicata alle sole incisioni, parte saliente del lavoro di Rossi, si tiene presso la Pinacoteca di Bologna, Sale Belle Arti, nel 1999, in occasione delle manifestazioni di Bologna 2000 - Città Europea della Cultura; la documenta una bella monografia, ‘Rossi incisore’, con testi di Basile, Baccilieri, Mandelli, Mascalchi e Fava.
Nel 2004, personale presso il Comune e Pro Loco di Monzuno, con catalogo a cura di Beatrice B. Buscaroli, ‘Ilario Rossi, la continuità della pittura’.
Nel 2005, personale alla Galleria Comunale di Sasso Marconi.
Nel 2007, rassegna dedicata agli artisti di ‘Cronache’, Circolo Artistico di Bologna, dove si tiene anche la personale ‘Ilario Rossi - La seduzione informel’, a cura di A. Baccilieri, preliminare della presente pubblicazione.
estratto dalla stesura di Flavia ‘Valentina’ Branca per il volume la seduzione informel