ILARIO ROSSI Catalogo generale delle opere, volume I, Edizioni Artjournal, Bologna, 2020
Claudio Spadoni
Aria di Bologna Quando nel 1931 Ilario Rossi riceve il Premio Internazionale Curlandese di Decorazione all'Accademia di Bologna, è appena ventenne. Aveva avuto come docente in quella stessa Accademia Giorgio Morandi che teneva la cattedra di incisione da un paio d'anni, e come ricorda Rossi, non era molto prodigo di informazioni sull'arte contemporanea. “Dava un po' di credito a Cézanne ed a Seurat e, tra gli antichi, a Piero della Francesca e a Masaccio e alle incisioni di Rembrandt.” Nomi certo ben comprensibili nel selettivo orizzonte dell'artista che già stava guadagnandosi un ruolo di preminenza a Bologna, e che nel volgere di pochi anni Roberto Longhi avrebbe consacrato in una memorabile prolusione al corso che inaugurava la sua docenza all'ateneo cittadino, come “uno dei migliori pittori viventi d'Italia”, quasi un “nuovo incamminato”. Era già il 'pittore delle bottiglie'- una qualifica non proprio esaltante- al punto da suggerire a Rossi, con altri scanzonati compagni d'Accademia in occasione della festa delle matricole del '31, un carro allegorico con una gigantesca natura morta, immortalato in una divertente foto, Certo, nel clima artistico di Bologna non si era del tutto dispersa la recente eredità trasmessa dal passaggio fra Otto e Novecento. “Il nostro secolo è nato a Bologna- ricordava Romeo Forni- con esuberanza di strepiti e di musiche: quello che l'aveva preceduto -il XIX- se n'era andato, invece, zitto zitto, tra le strade deserte, male illuminate e coperte di ghiaccio.” Longhi, nella citata prolusione, aveva infatti liquidato sbrigativamente l'Ottocento, molti anni prima dell'impietosa “buonanotte” data al “signor Fattori”, con una condanna quasi indiscriminata. “Taccio dell'ultimo secolo. Ma una gratitudine, per emozioni, sia pure tenui, ricevute, serbo tuttavia a quei modesti artieri che al solicello dell'800, nella Bologna papale, andavan dilatando, su per le chiese e i palazzi, gli ultimi inganni cordiali, le ultime quadrature. Non mi vergogno a dire che, più d'una volta mi sono smemorato volentieri davanti a una finzione chiaretta e annacquata del Guardassoni, del Samoggia, del Mastellari. Lì, e non altrove, mi par che brilli sincero e modesto l'ultimo focherello carraccesco in pieno ottocento.” “Smemorato”, scriveva non a caso Longhi per tre artisti non dei più celebrati, stendendo un velo non proprio pietoso su tutti gli altri. Forni scriverà con maggiore benevolenza, in un intento di ricostruzione del primo '900 decisamente più aperta, e sia pure con comprensibile spirito campanilistico, di una “Bologna sonnolenta” ancora negli anni Venti, nonostante presenze certo non trascurabili come Alfredo Protti, Carlo Corsi, Garzia Fioresi, Guglielmo Pizzirani, Lea Colliva, Giovanni Romagnoli, il critico-pittore Corrado Corazza, per dire di alcuni. E ricordando il quasi mitico, per Bologna, Caffé San Pietro, luogo di incontro già da prima della Grande Guerra, di letterati e artisti. Vi si ritrovavano Filippo de Pisis, il 'marchesino' con velleità di critico ancor prima che di pittore, Dino Campana, Giuseppe Raimondi, e Riccardo Bacchelli che leggeva agli amici passi del romanzo 'Il mulino del Po', come ancora ricorda Forni, “scritti a matita sui fogli di carta gialla da macellaio”. E ancora Ferruccio Giacomelli, con gli scultori Ercole Drei, Cleto Tomba, Venanzio Baccilieri, e le presenze più saltuarie di Protti, Corsi, Romagnoli, solo occasionalmente di Morandi. Non era propriamente la 'Bologna cruciale' di cui Carlo Ludovico Ragghianti avrebbe evocato gli anni 1913-18, con la ventata d'avanguardia di giovanili simpatie futuriste, tuttavia spente quasi sul nascere, nel ricordo della mitica mostra di un giorno nel sotterraneo dell'Hotel Baglioni: protagonisti Morandi, Osvaldo Licini, Severo Pozzati, Mario Bacchelli, Giacomo Vespignani, ai loro esordi. Del resto, anche a dare molto, magari anche troppo credito a quello spirito giovanilistico, come notava lo stesso Ragghianti, non solo a Bologna ma nell'intera Emilia “l'Ottocento aveva lasciato una traccia d'illustrazionismo storico-ambientale, di verismo episodico e di professionismo 'borghese'; la tradizione accademica restava ligia ai fasti dei fondatori, dai Carracci al Reni, al tardo, stanco e conformista Guercino (sic), che fu fatica dei nuovi studi recuperare nella giovinezza intemperante e dibattuta (ricordo ancora la repugnanza irrefrenabile di Morandi di fronte ai Carracci in mostra).” E qui Ragghianti si riferiva alla Prima Esposizione d'arte ferrarese che la 'Società Benvenuto Tisi da Garofalo' aveva promosso nella primavera del 1920. Ma ancora lo studioso ricordava la persistenza di “decorativisti di formula neorinascimentale e preraffaellita come Antonello Moroni (discepolo di Adolfo de Carolis affrescatore celebrativo del restaurato Palazzo Re Enzo), o di formula liberty come Sezanne e Francesco Nonni.” Non senza aggiungere: “Non è detto affatto che(...) mancassero ingegni e qualità, magari a tratti: l'ambiente artistico aveva però dominanti in largo senso 'secessioniste'”. Questo, dunque, a larghe linee, a giudizio quasi comune degli osservatori, il quadro della situazione artistica bolognese che precede gli esordi di Rossi, in “una città tranquilla, indifferente- avrebbe poi annotato Luigi Carluccio- una città non toccata dall'inquietudine densa di interrogativi, che smuove le acque altrove.” Insomma, anche agli occhi del critico torinese, un ambiente sostanzialmente chiuso in se stesso. In realtà, un esame più approfondito farebbe emergere una situazione più complessa fra un fronte accademico tenacemente arroccato nella salvaguardia di principi ritenuti inamovibili e di un'autorevolezza sempre più minacciata, e una nuova generazione presa da irrequietezze, aperta alle novità anche internazionali poco accettate dagli accademici. È significativa la lettera di Protti alla commissione del concorso per una cattedra all'Accademia di Perugia cui aveva partecipato con esito negativo: “Certamente non si può pretendere, in Accademia, l'ammirazione per Pablo Picasso! Ma non dovrebbe esservi ignoto che il nuovo movimento d'oggi, iniziato dai Francesi, è altrettanto grande quanto il nostro Rinascimento.” Era ancora il 1913; ma questo per dire come l'ambiente conservatore accademico non fosse poi tanto diverso anche lontano dalle Due Torri. Quanto al confronto, che poteva apparire poco pertinente, fra Cubismo e Rinascimento, basti dire che Longhi, giovanissimo docente in un liceo, proprio in quell'anno aveva azzardato in una sua dispensa un parallelo fra gli impressionisti e i grandi veneziani del primo '500. E per tornare a Protti, la figura più rappresentativa dei giovani pittori, la sua presenza a mostre di rilievo come la Secessione Romana, assieme ad altri bolognesi, ma anche a Parigi, Buenos Aires, negli Stati Uniti, viene a smentire una chiusura cittadina. Ciò che si può dire anche per altri della stessa generazione. L'orizzonte nazionale Ad offrire un quadro quanto mai ampio della situazione italiana, si era aperta nel 1931 la Prima Quadriennale di Roma, inaugurata di fatto da Mussolini due giorni prima dell'apertura ufficiale col re Vittorio Emanuele III e la regina Elena. Con la benedizione del segretario generale Cipriano Effiso Oppo, le scelte della commissione offrivano un panorama decisamente composito dell'arte del Paese, con circa cinquecento artisti e milletrecento opere, ma con assenze vistose come quelle di de Chirico, nonostante Margherita Sarfatti ne avesse perorato la presenza addirittura con una sala personale. Con lui, assente anche il fratello Savinio, e Rosai, per fare solo due nomi ben noti, oltre a più giovani come Birolli, Fontana, Melotti, ancora poco conosciuti, a fronte di presenze sorprendenti come quella del diciottenne Guttuso. Assente comprensibilmente anche Rossi, studente d'Accademia appena ventenne, ma presente poi nelle successive edizioni. La Quadriennale segnava in realtà la crisi del gruppo di Novecento, nonostante la presenza in commissione della Sarfatti che ne era stata mentore, ma che a sua volta stava vedendo scemare la sua autorevolezza dal momento che il duce aveva deciso la fine del loro rapporto. Il novecentismo, anche se dai sette pittori iniziali il gruppo si era dilatato al punto da superare il centinaio di adepti, e quanto più eterogenei, almeno nella sua versione monumentalistica celebrativa del regime, non aveva messo radici a Bologna. Quasi non si troverebbero tracce, insomma, neppure di quel “classicismo doloroso” - la definizione è di Elena Pontiggia - che da 'Valori Plastici' trapassa nel miglior 'Novecento', con Sironi in tal senso protagonista esemplare. Del resto, si diceva, nella città felsinea era ormai assurto a figura guida Morandi, con la sua pittura riservata, quasi francescana, interamente rivolta alla natura morta di oggetti e al paesaggio; quanto di più estraneo, dunque, ai motivi canonici della ripresa classicista con la figura umana riproposta in una nuova, austera, solenne centralità. Il 'solitario di via Fondazza' costituiva l'esempio artistico e insieme morale cui guardare: “Era un vessillo - lo ricordava poi Mandelli, allievo suo e di Guidi e amico di Rossi - un punto di riferimento che poteva indicare il limite giusto delle cose. Noi giovani lo seguivamo come un'entità 'tutelare', certi che il suo nome fosse destinato alla storia.” E ancora: “Si era formato un vero e proprio 'clima morandiano'. Partiva dagli ambienti universitari, toccava la Soprintendenza, passava dallo studio di Giuseppe Raimondi, arrivando fino all'Accademia di Belle Arti e alla galleria di Cronache.” Una vicenda, quella di 'Cronache', già più avanti negli anni, che riguarderà anche Rossi e su cui converrà ritornare. Accanto a Morandi, Virgilio Guidi, romano di nascita, veneziano d'elezione e titolare della cattedra di Pittura all'Accademia felsinea; poi Carlo Corsi, detto “il francese di Bologna” per la sua pittura di fragranze postimpressioniste, a fornire con la sua biblioteca la possibilità di un'informazione aggiornatissima ai più giovani attraverso le pubblicazioni che gli giungevano di prima mano. Poi, il magistero di Longhi, che avviato giusto a metà degli anni Trenta giungeva semmai a rafforzare la propensione a ripensare la storia bolognese nel segno di una profittevole continuità anche nel presente. Una situazione artistica, comunque, che appariva poco ricettiva di quanto avveniva nelle città maggiori: in particolare a Milano, dove al Futurismo aveva fatto seguito appunto 'Novecento', costituitosi nel '22, quindi il gruppo dei 'chiaristi' sostenuti criticamente da Edoardo Persico, e poi agli inizi degli anni '30 la compagine astratta della galleria 'Il Milione' con la partecipazione anche di Licini, di formazione bolognese. Quasi inascoltati per la peculiarità del clima culturale restavano anche gli echi delle vicende artistiche romane, quando dal 'realismo magico' sostenuto da Bontempelli stava prendendo corpo una ricerca del 'primordio', termine a dire il vero piuttosto ambiguo, protagonisti Melli, Cavalli, Cagli, Capogrossi, per i quali Waldemar George aveva speso per la prima volta la qualifica di 'École de Rome'. Da parte sua Roberto Longhi aveva già coniato la definizione generosa di 'Scuola di via Cavour' per Scipione, Mafai e Antonietta Raphael, figure fondamentali per quella che sarà chiamata, appunto, 'Scuola romana', con una definizione in seguito estesa, anche indebitamente, a troppi artisti accomunati in qualche modo da una pittura tonale. E tuttavia il riferimento soprattutto a Mafai e Scipione tornerà calzante per Ilario Rossi, per quanto le sue radici rimangano saldamente affondate in terra padana. Gli anni della formazione La formazione di Ilario Rossi, in quel passaggio fra gli anni '20 e '30, sarebbe rimasta forse sostanzialmente circoscritta al clima culturale bolognese se l'insegnamento del padre, stimato ebanista ma soprattutto aperto anche alla cultura visiva d'oltralpe, non avesse avviato il figlio fin dall'adolescenza, come egli stesso ha poi raccontato, a copiare riproduzioni di protagonisti della modernità europea come Cézanne, Toulouse-Lautrec, Picasso, Braque. Così che una volta iscritto all'Accademia poté valersi di un'informazione e di un gusto quasi impensabili per gli altri giovani allievi. Si potrebbe partire allora dall' Autoritratto giovanile (archivio n. 2902) del 1929, una prova del tempo dell'Accademia, dunque da ascrivere alla preistoria di Rossi, di un'impostazione ferma e di un tono riconducibili a Morandi, certo più che a 'Novecento'. Ed ecco qualche anno dopo, lasciata da poco l'Accademia, alcuni paesaggi di Castelmassa (3503) e una Scuola di paese (3504) decisamente nuovi, mossi, accesi. E ancora il poco usuale motivo agreste di una Mucca (3603) bianca che giganteggia sul fondo scuro, e un concitato Concerto (3507) che fa pensare a suggestioni espressioniste certo non familiari all'ambiente bolognese, ma ancor più lontane dai modelli di un 'Novecento' sempre più autarchico e retorico, per quanto ormai nella china di una crisi irreversibile. E' un processo lento di progressiva consapevolezza della propria natura di pittore di schietta vocazione e di temperamento tale da non cedere a seduzioni che potessero giungere da gruppi o 'scuole' acclarate ma sostanzialmente estranee alla sua sensibilità. Francesco Arcangeli, in uno sguardo retrospettivo di oltre trent'anni dopo, non aveva dubbi nel considerarlo “(...) fra il '34 il '36 il più assestato” tra i pittori della sua generazione. “Morandi lo calamitò, quasi per destinazione; ma egli non aderì alla terribile nascosta necessità di materia del Morandi di quegli anni(...)”. Pittore “fino al midollo” come lo definì Dino Buzzati, e con una vocazione 'figurale', per così dire, mai smentita neppure nei tempi suoi che furono definiti dell'informale, pur nella diversità delle interpretazioni che ne furono offerte, e delle quali sarà opportuno dar conto più avanti. Ma intanto, quell'esempio morandiano su cui la critica quasi unanimemente ha insistito, traspare da altre opere degli anni Trenta e Quaranta, pur se con significative variazioni di accenti e di tematiche che riguardano la figura umana. Assonanze di materia e tono, certo, magari più avvertibili nei paesaggi e in qualche natura morta. Ma qui Rossi ebbe la capacità di ricondurre la misura e il tono di Morandi ad una condizione “meno sublime”, e più rispondente al proprio più sensuale temperamento. In certi dipinti, come Il gioco (3809) del 1938, vincitore del Premio Baruzzi, o Casale con buoi (4020) del '40, Ritratto della madre (4201) del '42, si coglie un cauto ma progressivo distacco dalla lezione del maestro. “Tutte opere fortemente risentite per impianto cromatico, agitate o persino squassate nella forma, in declinazione di vibrato naturalismo espressionista”, scriveva Adriano Baccilieri accennando ai “precorrimenti” degli anni maturi di Rossi. Anche se per un ritratto come quello di Sandra (4301) del '43, Giovanni Castagnoli vedeva confermata molto più che un'eco morandiana”: “L'accordo mirabile dei toni (la terra d'ombra della blusa che si tinge di malva nelle pieghe), il trapasso lento della luce che si fa interna alla materia, la stessa conduzione, ogni tratto, insomma, della pittura rende omaggio alla lingua di Morandi e ne rinnova il magistero”. Non senza aggiungere comunque: “(...) ma di Rossi, solo suo è il sottile pensiero di quel rosso che accende, discreto, le gote della donna e le riscalda, riverberando un istante la sua luce sulla mano che sostiene il bel volto pensoso.” Ma soprattutto certi scorci naturalistici, caseggiati ravvicinati, presenze rurali, domestiche, di buoi o cavalli, alberi ormai spogli di un Paesaggio autunnale (4207) un po' oltre l'orizzonte cittadino, sono brani di una sensibilità, di un rapporto visivo ed emotivo insieme, del tutto peculiare. Motivi agresti che si direbbero impensabili, si comprende bene, per città come Milano, Roma, o Venezia, ma nei quali, in termini linguistici, Rossi già tende a distinguersi anche dall'abituale impaginazione morandiana, dalla sua sorvegliatissima misura. Come di “una voce lenta, mormorata e pigra, in una sorta di bucolica accorata e severa”, per riprendere un passo di una pagina ispirata quanto affettuosa di Gian Carlo Cavalli, il suo esegeta più fedele. E tuttavia se poi si considerano anche alcune nature morte coeve con cromie smaglianti - si pensi a dipinti come Fiori e oggetti (4323), o Vaso con fiori (4322), del '43- appare del tutto giustificato il riferimento anche ad un'area culturale non affatto bolognese o più estensivamente padana. Umori romani e amici bolognesi Sono semmai inflessioni di Scuola romana che si intravvedono non solo nelle nature morte; e per essere più precisi, sono suggestioni di quella 'Scuola di via Cavour' di memoria longhiana. Rossi sembra captare l'inquietudine espressa dai romani attraverso un colore ora acceso, ora sfinito, con certi rossi come di notturni affocati, nemmeno dirlo decisamente agli antipodi delle cromie trattenute, ecco da pittura murale, dell'ortodossia novecentista. E il riferimento è in particolar modo Mafai, più che il suo sodale Scipione scomparso a nemmeno trent'anni, preso da una tormentata visionarietà barocca, dibattuto fra l''Apocalisse' di Giovanni e 'Une saison à l'enfer' di Rimbaud. E' come se certi umori pittorici del Mafai dei paesaggi romani e delle sensibilissime nature morte filtrassero nelle più meditate e sapientemente dosate composizioni di ascendenza ancora morandiana di Rossi. Con buone ragioni Baccilieri sosteneva che in queste opere il pittore bolognese “attinge una sua prima, superba maturità”, accanto ad alcuni che lo affiancheranno a fine guerra in un sodalizio, magari di non eclatante notorietà eppure di non trascurabile importanza per la 'morandiana' Bologna. Fu il tempo di 'Cronache', col gruppo formato dallo stesso Rossi, e Mandelli, Minguzzi, Borgonzoni, Ciangottini, che faceva capo all'omonima galleria in Piazza della Mercanzia e ad un settimanale col medesimo titolo diretto da Enzo Biagi. Parlandone con molta onestà nel testo in catalogo che accompagnava la mostra al Museo Civico cittadino nel 1970, Francesco Arcangeli riconosceva che non era stata una vicenda paragonabile a quella dei milanesi di 'Corrente' o della 'Scuola romana' del dopo Scipione, con Mafai, Cagli, Capogrossi, il giovanissimo Guttuso. Non c'era, nei bolognesi, la forte motivazione ideologica, la determinazione innovativa di una neoavanguardia, e tantomeno un sostegno autorevole da far valere nei confronti delle città di maggior peso. “Tramite la galleria di 'Cronache'- vale la pena riportare anche qui un passo spesso citato di quel testo di Arcangeli- alcuni artisti bolognesi si iscrissero all'anagrafe dei movimenti di punta. 'Cronache' fu il loro gettone di presenza, la loro breve barricata in Bologna, non il loro trampolino di lancio.” E aggiungeva, infatti, che alla Biennale di Venezia del '48, la prima del dopoguerra, gli artisti di 'Cronache' parteciparono in ordine sparso, quasi confusi nella marea di nomi, fra invitati e ammessi, e non come gruppo. Per dire del mancato riconoscimento ufficiale di un sodalizio composto da artisti molto diversi fra loro, senza un valido sostegno critico e meno che mai il legame di una poetica comune. Insomma, nemmeno pensabile un raffronto, per dire, con il Fronte Nuovo delle Arti, ufficialmente riconosciuto su scala nazionale, composto da figure rappresentative delle città di maggiori credenziali culturali. Anche se ancora Arcangeli poteva sostenere che certe opere dei bolognesi avrebbero potuto ben reggere il confronto: per Rossi, ad esempio, citava “quel Ritratto della madre che, qualitativamente, non ha nulla da temere dal confronto con un Mafai o con un Birolli.” Al tempo di 'Cronache risale anche una cospicua produzione grafica, che per Rossi non nasceva generalmente con una funzione preparatoria ai dipinti ma come un'esigenza creativa autonoma. Ed è la figura femminile a costituire un motivo ricorrente, dove s'intende che vi si possa rintracciare ancora un lascito accademico, o forse meglio la memoria di quel recupero classicheggiante che s'era diffuso dagli anni Venti al decennio successivo, con il nudo femminile idealizzato in motivi mitologici o in interni d'atmosfere sospese, di suggestione metafisica. In ogni caso in Rossi l'opera disegnata nasce dalla piena consapevolezza di costituire un linguaggio compiuto, con il ricorso all'inchiostro, talora con acquarello di diverso colore, o la seppia, o l'utilizzo della carta carbone, puntando sulla specificità delle soluzioni tecniche. Fatti (e misfatti) postbellici La prima Biennale postbellica aveva portato una memorabile mostra dedicata agli impressionisti, proposta da Roberto Longhi e concorde tutta la commissione, compreso Lionello Venturi, rientrato dopo l'esilio. I due studiosi, non proprio in sintonia, si trovarono per un volta uniti, salvo le riserve, giustissime, di Longhi sulla presenza del tutto impropria di Gauguin e Van Gogh. Dopo quella salutare ventata internazionale, Bologna fu al centro di un caso clamoroso, pur se tutto di casa nostra, eppure più gravido di conseguenze: la mostra all''Alleanza della cultura' stroncata da Togliatti in una 'Segnalazione' su Rinascita siglata con una R, ovvero Roderigo (di Castiglia). Alla quale fece seguito una sofferta lettera di risposta degli artisti mitigata da Guttuso, e quindi una successiva 'Postilla' di Togliatti, se possibile ancora più caustica. Gli interventi del politico non erano intrusioni estemporanee in una materia per cui, comunque, non si rivelava versato. Erano conseguenti a tassative indicazioni dettate dal russo Zdanov per un 'realismo socialista' da praticare con finalità ideologiche. E l'episodio bolognese significò una lacerazione non più rimarginabile all'interno del 'Fronte'. Un trauma dalle vaste ripercussioni che tuttavia a Bologna, dove il 'Fronte' non aveva fatto proseliti, furono molto meno avvertite che altrove. Come meno sentito fu il richiamo del postcubismo, nel nome quasi venerato di Picasso, il Picasso di Guernica, eletto a bandiera dell'arte moderna impegnata, 'avancé', per dirla con i francesi, nella forma e nei contenuti. La sintassi picassiana si diffuse in Italia come un contagio portato dal vento dell'apertura europea, ma sfiorando Bologna solo con qualche temporaneo spiffero. Il solo Arcangeli, in occasione delle mostre dedicate al grande spagnolo a Roma e Milano nel '53, ebbe il coraggio di mettere in discussione che quel grande dipinto picassiano fosse “l'opera d'arte più terribilmente morale della storia”. Senza sapere, molto probabilmente, degli appunti lapidari sul grande spagnolo che Longhi, con un malcelato fastidio per quel talento quasi stregonesco, anni prima aveva lasciato nel cassetto senza pubblicarli. Una prudenza (?) per lui davvero insolita, fors'anche motivata da qualche dubbio, ma rivelatasi poi opportuna poiché nel dopoguerra lo studioso avrebbe mutato in positivo e non di poco il suo giudizio. Certo, il postcubismo significò per tanti 'assetati d'Europa' abbeverarsi alle fonti della modernità, un passaggio quasi inevitabile sulla via di un aggiornamento, ritenuto necessario, conseguente al processo di rimozione quasi indiscriminata di quanto aveva espresso l'arte del ventennio. Una temperie a cui Rossi sembra restare quasi estraneo, intento a procedere tenendo ben ferma quella “vasta, sapiente calibratura della 'pagina' pittorica” - come notava Arcangeli- che governa la sua attenzione al paesaggio. Che non è quello 'modernamente' urbano di cantieri, di fabbriche, ove altri vedono il fervore di una ripresa sociale variamente rappresentata, o di campi con mondine, contadini, operai, tutti un po' abbruttiti nella fatica quotidiana: tra le spinte populiste di impegno politico che motiveranno la “via italiana al realismo”, e per contro le scelte di un astrattismo tutt'altro che omogeneo, e anzi di diverse matrici e inflessioni. Linee di ricerca quasi ignorate dagli artisti bolognesi, se si eccettua il caso del realismo espressionista di un Borgonzoni, o l'isolato astrattismo di un Korompay, veneziano con trascorsi futuristi passato a Bologna nel '45. Per Rossi, opere quali Nello studio (4503) 1945, Case a Sasso Marconi (4711) del '46, Primavera buia (4701) del '47, e alcuni dipinti successivi fino a Paesaggio con macerie (5201) o Tende sulla spiaggia (5208) del '52, documentano una sostanziale continuità della sua pittura. Magari con qualche improvvisa accensione e una vibrazione cromatica pur sempre contenuta ma tale da suggerire ad Arcangeli accostamenti a Cassinari, e magari con qualche forzatura, perfino alla surrealtà di un Gorky, allora quasi del tutto sconosciuto in Italia, se non da Afro che l'aveva 'scoperto' negli Stati Uniti da Catherine Viviano. Resta, comunque, che per Rossi è un tempo di accordi pur sempre mantenuti entro un irrinunciabile orizzonte per così dire familiare, vale a dire bolognese ma nella più alta accezione. Che, si diceva, non significava solo l'esempio morandiano, e certo con la capacità di resistere alle tentazioni di un allineamento ai fatti di maggior grido della scena artistica nazionale. E dunque prevale la determinazione di riplasmare dall'interno il proprio linguaggio senza snaturarne le fondamenta forzando la propria sensibilità e una consapevolezza già matura. Ancora Arcangeli poteva scrivere in uno sguardo retrospettivo: “Per Rossi l'anno '52 è quasi in parentesi: una parentesi brillante, sfogata, di vaste pagine ariose, come sempre in lui, ma divertita in una vivace grafia pittorica; come se egli, dopo la severa ripresa cézanniana, dopo la lucida esplosione del '50 volesse collaudare apertamente delle possibilità di eleganza prima implicite nel suo lavoro. È quasi un Dufy che, anziché eccitarsi sulla propria grafia, la voglia distendere in più aperto respiro.” Il respiro di un naturalismo padano di antica memoria ma di rinnovate possibilità espressive, e ora sfrondato di troppo espliciti legami con un magistero morandiano più che mai autorevole. Le opere di quei primi anni '50 segnano il passaggio meditatissimo verso una visione sempre più interiorizzata, ovvero un 'naturalismo di partecipazione' che poi lo accostò in qualche misura alla ristretta schiera degli 'ultimi naturalisti' sui quali Arcangeli avrebbe fondato la sua appassionata militanza critica. D'altra parte, a suscitare l'interesse di Rossi al punto di determinare una svolta significativa del suo percorso, non poteva essere certo il tentativo del gruppo degli 'otto pittori', sostenuti da Lionello Venturi, di conciliare per quanto possibile realismo e astrattismo nella formula quanto mai ambigua dell''astratto concretò. Tutto sommato, una formula di compromesso per tentare una terza via tanto vaga quanto poco omogenee erano le posizioni degli artisti. Sulla solidità della base teorica, infatti, basti dire che furono gli 'otto', non sempre in accordo fra loro e coalizzati soprattutto per ragioni che chiameremo strategiche -lo si coglie bene dalle numerose lettere che si scambiarono- a scegliere il critico, e non viceversa, come logica vorrebbe. E infatti il testo quasi elementare di presentazione di Venturi rivelava anche troppo scopertamente la fragilità di una proposta che, per la formula forse non sua di 'astratto-concreto', Roberto Longhi ebbe buon gioco a commentare con sarcasmo recensendo la Biennale veneziana del '54: “La nuova definizione non resta però dal colmarci di meraviglia. 'Astratti-concreti? O è 'charabia', o è vaniloquio critico. Preferisco credere ci venga dagli artisti che non hanno il dovere d'impacciarsi di contraddizioni filosofiche e possono tirare innanzi.” Questo, per quanto Longhi manifestasse un sincero apprezzamento per alcuni di quei pittori, in particolare Moreni, Vedova, Morlotti. Non era partita, dunque, che potesse coinvolgere una figura come Rossi, concentrato sul proprio lavoro, restio ad entrare in schieramenti e sostanzialmente estraneo ai rovelli che allora tenevano banco sui 'contenuti' e sulle scelte formali. Impagabile, al riguardo, la chiusa sarcastica della recensione di Longhi: “Mentre oggi che l'astratto tenta di riagganciare nella nebbia contenuti non meglio identificabili, è difficile rifiutarsi al sospetto che si tratti di un'accomodatura vagamente indotta da esigenze ben più radicali. Son quelle, si sa bene, della schiera opposta che, sul camion stivato di contenuti fin troppo crudi, attende, anch'essa, pazientemente il trattore della 'forma'; ma che dovrebbe giungerle, immagino, da tutt'altra strada.” E mentre continua il dibattito con toni accesissimi fra le due 'schiere'- per quanto si tratti di una schematizzazione che non tiene conto di tutti i fermenti, le proposte innovative, i gruppi di tendenza che caratterizzano l'Italia postbellica fino ai primi anni '50- proprio da Bologna, la città morandiana quasi ai margini delle vicende più rimarchevoli del tempo, viene l'ipotesi di un 'ultimo naturalismo' avanzata da Arcangeli sulle pagine già prestigiose di 'Paragone', la rivista fondata nel 1950 dal maestro Longhi. Il quale, detto per inciso, presto si rivelerà decisamente critico sulle posizioni dell'allievo, fino a sentenziargli che era “uscito dalla storia dell'arte.” Del resto Arcangeli divenne bersaglio di dure critiche quasi da ogni versante, nonostante una voce autorevole e ideologicamente insospettabile come quella di Calvino- per la verità del tutto isolata - l'avesse giudicata l'unica ipotesi plausibile, ugualmente distante dal realismo impegnato guidato da Guttuso come dalle contrapposte opzioni astratte. 'Ultimo naturalismo' e Informale Si è scritto immancabilmente quasi in ogni catalogo di Rossi della sua posizione in quel tempo del saggio di Arcangeli, 'Gli ultimi naturalisti' del '54, e del secondo, 'Una situazione non improbabile', di due anni dopo ma pubblicato solo nel '57. Come del resto si è dibattuto sull'adesione del pittore alle poetiche dell'Informale, con le quali, appunto, l''ultimo naturalismo' aveva forti consonanze e anzi, agli occhi del critico bolognese poteva essere considerato come una sua particolarissima versione. Di proposito, come si può credere, nel 2008 Baccilieri aveva curato una mostra e il relativo catalogo di Ilario Rossi, 'La seduzione informel', che già nel titolo sosteneva con decisione la legittima appartenenza del lavoro di quegli anni a quell'area artistica internazionale animata da figure anche molto eterogenee. Le predilette da Arcangeli, che fu il più tempestivo interprete italiano dell'Informale, erano quelle di 'anarchici'- secondo la sua definizione- che dall'Europa all' America si erano spinti, in alcuni casi, fino alle estreme conseguenze, in un quasi ossessivo coinvolgimento esistenziale dai risvolti drammatici. Si riferiva, Arcangeli, ad artisti come Pollock, De Kooning, Fautrier, Wols, Dubuffet. E fu appunto attraverso la partecipazione appassionata a quelle vicende di uomini per buona parte della sua stessa generazione, che incarnavano un'estrema espressione dello spirito romantico, che egli giunse poi a ad una più consapevole rilettura anche del Romanticismo storico, fuori dagli schemi convenzionali. Non si trattò, per l'Informale, di una 'scoperta' tempestiva, per quanto risultasse la più avvertita in Italia. Anche perché le opere degli artisti ovunque vennero prima di ogni definizione teorica, e senza una 'poetica' comune per l'impossibilità di conciliare soluzioni operative tanto diverse. Da noi, nei primi anni '50, tranne rare eccezioni, il dibattito artistico era ancora impaniato in questioni ideologiche rispetto alle quali risultavano avulsi i drammi esistenziali dei maggiori protagonisti dell'Informale europeo e statunitense, fosse poi chiamato action painting, espressionismo astratto, tachisme, pittura di materia o di gesto, o più genericamente 'art autre', secondo la definizione che ne aveva dato Michel Tapié. Difficile rimanere estranei a quel clima, una volta che Arcangeli ne aveva offerto una così lucida, partecipe, coinvolgente lettura. Difficile, certo, anche per Rossi, al punto che nella sua pittura se ne avverte la suggestione, e pur rimanendo fedele alla propria più profonda identità, egli opera un mutamento di viraggio ben colto da Luigi Carluccio. “Nei paesaggi degli anni '50 le tinte amate da Ilario Rossi hanno come un soprassalto, subiscono una macerazione, quasi fossero immerse in un bagno che lentamente, tenacemente le ha imbevute di miele e di fiele, le ha impregnate di acidi corrosivi. Sembra allora destinata a scomparire la tenerezza e la luce trasparente di pochi anni avanti, e ad offuscarsi la nitidezza dell'impianto compositivo. L'intera superficie del dipinto è un magma, trascinato da correnti agitate e contrastate, cui tuttavia si oppone per non disperdersi frantumato nel caos.” C'era stata una mostra nell'aprile del '54 alla galleria 'La Bussola' di Torino- una delle città più aperte all'arte d'Oltralpe, grazie anche all'intraprendenza di un critico come Carluccio - con dieci artisti bolognesi, fra i quali Rossi, presentati da Arcangeli. Molto opportunamente Dario Trento, giusto mezzo secolo dopo, rievocò quell'esposizione pressoché dimenticata, quasi costituisse una premessa alla stesura di poco successiva, nel settembre dello stesso '54, del testo sugli 'Ultimi naturalisti'. La prospettiva in quella mostra di Torino era ancora volutamente circoscritta, l'orizzonte forse volutamente bolognese, ma già si avvertiva nelle parole di Arcangeli la determinazione a cogliere quanto di diverso rispetto ai due poli dei realisti e degli astrattisti stesse maturando in alcuni pittori. Scriveva di “impulsi verso una maggiore apertura umana”, un'esigenza profondamente sentita dal critico che ne rivendicava la legittimità a fronte dell'astrattezza di presunzioni ideologiche e razionalistiche. Un'apertura umana anche in un rapporto modernamente romantico con la natura, definito in quel 'due' di cui avrebbe scritto negli 'Ultimi naturalisti'. Da Bologna, e dalla Padania, intesa come grande provincia d'Europa e del mondo, Arcangeli captava anche quei segnali di un clima tutt'altro che foriero di sicurezze programmatiche, di positività progettuali, ma anzi denso di turbamenti, di drammi esistenziali, di ripiegamenti individualistici perfino disperati. S'intende che Rossi non avrebbe mai potuto perdersi in luoghi quasi allucinati come nel dripping di Pollock, né nella grafia febbrile, visionaria di Wols, e neppure nella furia gestuale e cromatica delle 'donne' brutalizzate fino al patetico-grottesco di De Kooning. E non solo o non tanto per fedeltà alle vecchie radici tonali morandiane o di scuola romana, e tantomeno per suggestioni strutturali d'ascendenza lontanamente cézanniana. Si avverte piuttosto come un progressivo salire di tensione emotiva, fino a certi accenti quasi drammatici, così che l'impianto figurale ne viene, se non proprio scardinato, almeno compromesso nella sua più chiara leggibilità. Non deve tuttavia stupire se il nome di Rossi non figura accanto a quelli degli 'ultimi naturalisti' arcangeliani, come i bolognesi Mandelli, Bendini, Romiti, Vacchi, Ferrari, il romagnolo d'adozione Moreni, il lombardo Morlotti, per fare solo i nomi dei 'padani', e tralasciando il gruppo spoletino e altri in qualche misura toccati dai testi dello studioso. I modi, ma anche la scansione dei tempi di Rossi sono diversi; e questo sta a dimostrare una condizione autonoma per quanto non proprio lontana dall' 'ultimo naturalismo' di Arcangeli, e come senza aderirvi pienamente, il pittore l'abbia costeggiato mantenendo una propria distinta posizione. Com'era in fondo nella sua indole. “Può essere singolare, a questo punto, notare che Rossi, bolognese, e portato da sempre al tono naturale e alla visione diretta, non abbia ceduto, come poteva, alle legittime tentazioni del cosiddetto 'ultimo naturalismo'. Senza straniarsene, vi ha reagito a suo modo. È questo il segno più vivo d'una sua presenza personale, e di quel bisogno, che lo accompagnò fin dagli inizi, di sposare le doti d'istinto pittorico con quelle di mediazione- meditazione strutturale. Dall' 'ultimo naturalismo' sarebbe stato facile, allora, traboccare in quell'accordo, vivo talora, talora accomodante, cui ci si riferisce da tempo con la qualifica dell''astratto-concreto'.” Parole dello stesso Arcangeli, di cui Rossi poteva scrivere più avanti: “La sua intelligenza lucida, caustica e, a volte, ironica, era così profonda da intuire le cose, le correnti, i fenomeni artistici e culturali, sempre prima degli altri.” Ma infine, pur tenendo nel debito conto l'onesta precisazione di Arcangeli, non sembra nemmeno di importanza decisiva inscrivere o meno Rossi nel novero degli artisti informali, quasi potesse qualificarlo ulteriormente. Dopotutto si tratta di una categoria storico-critica quanto mai ambigua, dilatata spesso a dismisura come dimostrano le numerose mostre realizzate per far luce su quella temperie, e una copiosissima saggistica. Perché sostanzialmente di questo si tratta: non di un movimento e meno che mai di una tendenza omogenea, quanto piuttosto di vicende personali in un particolare clima storico. Del resto, quando le diverse soluzioni espressive hanno raggiunto una larghissima diffusione e le poetiche del gesto, del segno, della materia si sono tradotte in un esercizio formalistico, - un bell'ossimoro per l'informale- fino a sfinire nell'accademia, erano ormai venute meno le condizioni storiche che avevano provocato le esperienze artistiche dei protagonisti maggiori. Per alcuni di loro si erano già tragicamente concluse anche le vicende esistenziali. Una stagione matura Dalla Nevicata (5046) del '50, un silente paesaggio collinare con profili di case d'un azzurro spento, tracce quasi pulviscolari d'alberi e di una strada come affogata in un biancore contaminato -un tema molto caro più volte affrontato- fino a dipinti come Case al sole (5718) del '57, inondata di gialli e di ocra con tacche di rossi vividi e bianchi di calce, si snoda il tempo intercorso fra l'inizio del decennio e il secondo, sofferto saggio di Arcangeli cui Longhi aveva contrapposto gli interventi duramente critici di Testori e Guttuso. Tempo di opere, per Rossi, che ormai segnano una progressiva vicinanza oltre che all' 'ultimo naturalismo', alla pittura di artisti che affidavano al gesto e alla materia l'urgenza di esprimere in modo diretto passioni, turbamenti, sofferte risonanze interiori. È sempre il paesaggio il motivo su cui Rossi esercita, come per una più sensibile eccitazione visiva, un rapporto di trasposizione che si traduce in una scrittura infittita di segni impressi su una materia talora incupita come in atmosfere notturne o di un inquieto crepuscolo. Come in Paesaggio (5307) 1953, d'un rosso fosco di forte ascendenza scipioniana, che si direbbe squassato da un vento temporalesco. Ora invece il paesaggio schiarisce in tenuità come di antichi intonaci ove ancora permangano tenere memorie di colori. Così in Neve in collina (5619) 1956, con i dolci profili dei pendii imbiancati sotto un cielo di piombo, e l'affiorare lontano dei verdi ormai stinti, velati dalla neve. E ancora, una serie di Paesaggi del '57 rappresentano forse uno dei momenti di maggior vicinanza di Rossi a certa pittura materica e segnica, per così dire, con una grafia pittorica fitta, un tratteggio cromatico insistito sulla struttura a tacche. Da far pensare, magari, a Nicholas De Staël, con buone ragioni chiamato in causa da alcuni esegeti di Rossi. Ma rispetto alla struggente materia luminosa del pittore d'origine russa, suicida nel '55, in questi lavori di Rossi, come Nevicata verticale, (5808) prevalgono per contrasto i toni scuri in sovrapposizioni materiche che s'ergono come staccionate, lasciando filtrare un biancore calcinato al centro della composizione. Il tempo pieno dell''ultimo naturalismo' vede comunque Rossi al passo di certo Informale europeo, ma senza ansie di aggiornamento o di appartenenza, e senza quel senso di angoscia, perfino di disperazione, che costituiva la tragica cifra distintiva di alcuni fra i maggiori protagonisti di quella temperie. E comunque in Rossi resta sempre viva un'esigenza struttiva per un'impostazione formale irrinunciabile, senza cedere alla tentazione di sfrenare il gesto, liberare l'energia psicofisica nella violenza della pennellata, o di investire la materia pittorica di una corrispondenza organica, o più propriamente esistenziale, su cui insisteva l'estrema, ultimativa metafora dell'Informale. Considerando il lavoro di questa stagione dell'artista bolognese, altri nomi sono usciti dalla penna, come si diceva un tempo, dei molti critici, italiani e stranieri, che hanno visto in lui “uno dei migliori nomi della pittura italiana” (Xavier Franc). Figure diverse del panorama della critica anche proprio per generazione, retroterra culturale, propensioni, scelte di campo. Ciò che viene ad ulteriore conferma della complessità e dello spessore della pittura di Rossi, con le qualifiche, anche molto diverse, che ne sono conseguite. Baccilieri, in un sintetico quadro di voci della critica, citando Marcello Azzolini riferiva di un'“inclinazione all'astrazione, che non lo rendono disattento alla problematica informale”. Di “assonanze con gli ultimi naturalisti” parlava Franco Basile; di “suggestioni di naturalismo astratto” scriveva Luigi Carluccio. E se per Calvesi, si trattava di un “incontro che la sua pittura sembra riflettere, e in accezione centro-italiana, con le problematiche dell'astratto concreto e del neonaturalismo”, Cavalli lo definiva “naturalista oggi come ieri”, pur accostandosi “alle esperienze dell'informale italiano”. Osservazione legittima se si allude ad una comune temperie, entro un grande alveo che alimenta urgenze espressive diverse. Anche se ci si potrebbe chiedere a quale informale si faccia riferimento, viste le fenomenologie decisamente individuali entro quel fenomeno artistico che, per restare solo in ambito italiano, potrebbe includere, per dire, la pittura gestuale ma dai caratteri diversissimi di un Vedova o un Moreni, come il materismo di Burri tra la metafora esistenziale e l'ordito formale. Artisti ben poco accostabili, s'intende bene, a Rossi. Ma in ogni caso non poche sono le figure d' Oltralpe e d'Oltreoceano scomodate per attestare la legittimità, per Rossi, di una qualifica che anche a tralasciare la forzatura dell''astratto concretò, va appunto dall'Informale, a varie declinazioni dell'astrattismo lirico e perfino dell'espressionismo astratto. Per citare solo alcuni nomi: dal De Staël, come si è detto, evocato appunto da molti- ed è forse il nome più pertinente, non per nulla il più amato da Rossi- a Mark Rothko; da Jean Fautrier a Pierre Soulages, dall'ultimo Hans Hofmann a Esteban Vicente, da Clifford Still a James Brooks; e con l'aggiunta, come non bastasse, di un alquanto improbabile De Kooning. Ma alla fine, più che interrogarsi sulla pertinenza di definizioni critiche che lasciano il tempo che trovano, e vale a dire quello di categorie comunque ambigue, forse meglio restare, oltre che alla suggestione per De Staël, a certe consonanze con artisti come Morlotti o Mandelli, rafforzate anche da una comune radice morandiana: più diretta per Mandelli, originario di Reggio Emilia e bolognese d'elezione; ma forse anche per il Morlotti non estraneo all'esempio di Morandi. Ed è proprio sul finire degli anni '50 e lungo parte del decennio successivo che la pittura di Rossi sembra dialogare a non molta distanza con i due ultimi naturalisti più vicini ad Arcangeli. Lo si può avvertire in una sequenza di paesaggi del '57-58: Neve in periferia (5707), Piccolo paesaggio (5709), e Rosso mattone e nero (5818) dove il motivo naturalistico, tramato di segni che si infittiscono in uno spazio senza più un orizzonte definito, riporta pur sempre le tonalità di una stagione, la percezione emotiva di gialli squillanti, di contrappunti ocra o di terra bruciata di un giornata luminosa d' autunno, o dei rossi mattone di case con partiture di pennellate nere come apposte d'istinto. E poi, Primavera (5905), Argine malva (5918), Paesaggio grigio (5923), Paesaggio verdastro (6201),Paesaggiocon argine fiorito (5811). Resta comunque, si diceva, l'esigenza di una struttura, di una ragione formale anche nei momenti in cui Rossi sembra quasi abbandonarsi all'immediatezza del gesto pittorico per addentrarsi in un rapporto emotivamente più profondo con la natura. Ma senza mai puntare su quell' 'automatismo psichico' già invocato dal surrealismo e in qualche misura fatto proprio dall''action painting'. E meno che mai avrebbe potuto cedere alle sollecitazioni di quell' “Art Autre” che Michel Tapié intendeva in termini di azzardo, come “la plus inhumaine des aventures”: un'arte che non ha molto a che fare col piacere ma piuttosto con “la plus vertigineuse épreuve qui soit donnée à l'homme d'affronter, qui est de se pencher sur soi-même sans le moindre garde-fou”. Un assunto teorico che ben s'addiceva alle temperature di quei primi anni '50, ma con scelte, per la verità, in qualche caso forse improprie. Fra gli artisti considerati da Tapié si incontravano infatti anche nomi decisamente inattesi: per restare agli italiani, oltre al più comprensibile Dova 'nuclearista', figure come Capogrossi, Marini, perfino Sironi, per quanto fosse apprezzabile la sua considerazione mentre da noi era quasi un reietto. Si comprende bene che la posizione teorica di Tapiè sarebbe stata poco compatibile con il retroterra culturale di Rossi, e vale a dire la lunga, luminosa tradizione di civiltà visiva che culminava nella vicenda ancora attiva di Morandi, uscito di scena nel '64. Per non dire della particolare sensibilità di Rossi, l'esigenza sempre avvertita di una qualità pittorica che talora sconfina nell'eleganza, nella ricerca appagante, a tratti, di quella che un tempo si definiva bellezza. Termine già allora quasi bandito dall'arte contemporanea. E permaneva comunque in Rossi la ricerca di un ordito, di una misura formale sia pure vibrante e per quanto mossa da una grafia istintiva, comunque assorbita nel tessuto della materia pittorica. Come dire, ben poco azzardo, o determinazione ad esporsi ad una 'prova vertiginosa', ma un operare entro una tradizione pittorica interpretata con moderna coscienza europea. Oltre l'Informale: un nuovo clima Già dai primi anni '60, mentre sull'orizzonte internazionale si avverte una decisa correzione di rotta, anche per Rossi si apre una nova stagione puntualmente documentata dalla sala personale della Biennale di Venezia del '64, l'anno della celebrazione della pop art con il Gran Premio assegnato a Rauschenberg nel giorno stesso della morte di Morandi. Un singolare caso del destino, come amaramente commentava Roberto Longhi. Spetta in questa occasione a Marcello Venturoli il testo in catalogo per il pittore bolognese, dove si legge che “(...) la natura di Rossi, senza perdere di concretezza, mi par proprio che abbia acquistato in solennità, in larghezza”. E non manca, anche in questa circostanza, un richiamo a De Stäel, in particolare alla sua fase 'figurativa'. Perché nella pittura di Rossi, anche dove risulti meno riconoscibile il rifermento naturalistico, paesaggio, torso, natura morta, resta pur sempre il rimando a qualcosa, si chiami o meno figura, che è al fondo di un irrinunciabile rapporto col reale, sia pure di una realtà per così dire interiorizzata. Già Maurizio Calvesi, lo ricordava anche Baccilieri, aveva parlato di 'figurabilità' a proposito di una trasformazione in senso figurale, appunto, di certo Informale. E s'intende, non si trattava di un rilancio della ormai logora figurazione realista non più sostenuta, dopo l'intervento russo in Ungheria, nemmeno dall'impegno politico postbellico. Era piuttosto l'esigenza di far riemergere l'immagine, ma in un'accezione 'autre', ovvero di quasi naturale derivazione da quanto poteva essere implicito nelle pur diverse fenomenologie dell'Informale. Una questione che non toccava direttamente Rossi, alle prese semmai con una progressiva rielaborazione dei suoi ben noti motivi pittorici senza dover procedere a correzioni di rotta, e meno che mai, dunque, sospettabile di accomodamenti sull'onda del nuovo, mutato clima internazionale. Nascono così opere come Tute al vento (6059), poi Torso e ombra (6305), Figure con diaframma (6303), o ancora, Composizione di fronte (6215), Miscellanea (6304),Figura in ambiente (6307) del '63, dove il motivo della figura emerge da fondi di una spazialità quasi sfuggente. Presenze che si direbbero riaffiorate dalla memoria ma che prendono corpo, spessore, in impasti materici ricomposti in tacche vivide. E se è ancora e sempre il paesaggio il leit motif della pittura di Rossi, ora affiorano variazioni figurali come Giocoliere (6308), qualche squillante natura morta di fiori, mentre tornano più riconoscibili i brani paesaggistici riproposti nelle diverse gamme stagionali. Il paesaggio naturale e i suoi cangianti colori, tra verdi teneri, accensioni di luci estive, toni caldi d'autunno, e molte vedute d'inverno col bianco del manto nevoso intriso di grigi o di verdi quasi spenti, velato di azzurri, di delicatissimi rosa stinti. È la stagione delle 'nuove icone' di marca pop a sancire un potere statunitense ormai indiscusso, col suo contraltare della linea minimalista, anch' essa nel tempo vincente, mentre in Italia, e segnatamente in area lombarda, si stava tentando una problematica revisione di un ormai demotivato realismo postbellico, in un' ipotesi di 'realismo esistenziale' scopertamente debitore di Bacon e di Giacometti: artisti talmente estranei ad ogni schieramento che era davvero arduo ricondurre alle ragioni, anch'esse sociologiche, di una 'nuova figurazione'. Scelte che neppure sfiorano una città come Bologna ancora sostanzialmente fedele alla propria storia, e poco propensa ad accogliere le nuove mitologie metropolitane- con la parziale eccezione di Concetto Pozzati, pop a modo suo- come l'ormai diffusa tendenza a interpretare la 'tradizione del nuovo' nel segno di una neoavanguardia che si stava definitivamente sbarazzando d'ogni residuo ancora romantico di eredità informale. Così fu per Rossi, tutt'altro che propenso a mutare registro in nome di qualsivoglia aggiornamento. E in seguito, come era avvenuto per le vicende dei primi anni sessanta, non poteva certo essere l'onda d'urto dell'Arte povera, che proprio a Bologna ebbe una delle sue primissime uscite, per certi aspetti un sua ulteriore verifica appena dopo il battesimo di Genova e Torino, a mettere in crisi un percorso pittorico che semmai si rafforzava nei propri storici convincimenti. L'artista rielabora i suoi abituali motivi paesaggistici, come in Nevicata (6609), o Case e alberi bianchi (6610) del '66; si volge ad imbrunire la sua materia, i grumi, i tracciati strutturali, come in Fabbrica (6505) '65, o variando con figure in una stanza di più complessa articolazione. Come i grandi, impegnativi Torso (6402), Interno e impronte (6502) dello stesso anno, o Torso e pupazzo (6501) o la Danzatrice (6613) 1966, dove è il rosso quasi pompeiano, il suo inconfondibile rosso per certi aspetti di memoria anche romana, a dominare uno spazio con la figura che s'erge ma in un impasto materico e in una gestualità, ancora, quasi da 'action painting'. E con una serie di dolci e struggenti nature morte, l'apparizione azzurra di un geometrico Manichino di latta (6702) in un interno bruno d'ombra, e in un viraggio, ancora in rosso, del Cavalcante (6701). Una stagione fertile che si prolunga nel decennio successivo con paesaggi d'una nuova, avvolgente luminosità, pur nel riproporsi del motivo amato di una collina che richiamando il profilo di un seno femminile domina all'orizzonte, su tracce di alberi, sterpi, sagome appena accennate di case che sfumano in un biancore latteo o mielato, come in Neve e alberi (7309) del '73. La fedeltà al motivo che è diventato la cifra più comunemente riconoscibile di Rossi, delle sue più mature stagioni, non impedisce quasi inaspettati sussulti di un colore magistralmente dominato, nell'avvampare di rossi che poi sfumano in rosa teneri di una neve- ancora il motivo invernale- che si imbeve di colori velati, fra tracce di verde come di una scrittura vegetale, e un zigzagare breve di grigi appena accennati. Si guardino opere come Neve nell'aia e in collina (7802) o ancora visioni di colline innevate come Nevicata segnica (8215) di qualche anno dopo, dove anche quel 'segnica' messo in evidenza nel titolo indica una precisa attenzione al valore, appunto, di una scrittura pittorica impressa in stesure di sapiente, raffinatissima monocromia. La veduta collinare come motivo ricorrente della pittura di Rossi potrebbe perfino suggerire un riferimento alla ininterrotta 'ripetizione differente' della natura morta di bottiglie di Morandi, per quanto il catalogo delle sue opere annoveri anche un numero elevato, con non pochi capolavori e fra quelli più alti a giudizio di Longhi, di paesaggi di Grizzana. Ma senza azzardare un confronto decisamente improprio, basti comunque osservare che per Morandi le bottiglie e pochi altri oggetti disposti in studiatissime composizioni, e come messi in posa, sono, come i paesaggi, pretesto per continue reinvenzioni formali, all'apparenza tanto elementari quanto magistralmente soppesate. Molto diversamente per Rossi la veduta collinare è l'immagine paesaggistica familiare riproposta in un mutare di atmosfere, di colori stagionali, dove la resa formale restituisce comunque un equivalente emotivo. Un coinvolgimento dei sensi, una partecipazione al divenire della vita naturale che anima pittoricamente la vita delle forme. Nel tempo delle neoavanguardie S'è detto che il tempo che va dagli ultimi anni '60 fin quasi al termine dei '70 era trascorso all'insegna di neoavanguardie sempre più radicali, fino agli esiti tautologici del 'concettuale' che suonavano come un 'de profundis' senza possibilità di appello per una concezione tradizionale dell'arte. “Art as idea”, era in fondo la proclamazione dell'illegittimità di un 'fare' finalizzato alla realizzazione dell'opera, di un oggetto cui si riconosceva storicamente una qualità formale, un valore estetico e metaforico ancor prima che economico. Al punto da indurre Francesco Arcangeli a dettare per la Biennale di Venezia del '72 il tema “Opera o comportamento”: un'alternativa apparsa a molti perfino superata. Si era riservato la cura della sezione dedicata all' 'opera', affidando ad un giovane Renato Barilli, particolarmente attento alle vicende ultime, la parte relativa alle pratiche artistiche più diverse sintetizzate nel termine 'comportamento'. Non l'avesse mi fatto! Quell'edizione della storica mostra veneziana fu bollata da un critico tra i più titolati quale Pierre Restany, già teorico del 'Nouveau Réalisme'- una risposta europea alla Pop americana- come “la Biennale di giacobini addormentati”. Nella stessa Bologna, scomparso Morandi, alcuni artisti della nuova generazione, quasi a rimuovere quel mito considerato ingombrante e ormai fuori corso, si stavano avviando a pratiche di superamento del tradizionale concetto di pittura e scultura, in sintonia con un diffuso clima internazionale. Dal ricorso alla fotografia destituita di ogni valenza estetica, alle installazioni, alla 'performance', a pratiche varie di dichiarata marca concettuale. Per giungere poi al recupero della pittura, ma in una versione 'analitica', dunque anch'essa concettuale, secondo una formula in auge negli anni '70, con Filiberto Menna critico di riferimento. Che sorprendentemente, proprio ad inizio del decennio, scrive del lavoro di Rossi “da annoverare tra le cose più interessanti della pittura italiana del dopoguerra”, intendendolo come un caso di “pittura-pittura”, e vale a dire di 'pittura analitica', appunto, stando alla definizione da lui coniata. Non senza forzare, si può ben comprendere, la lettura di un lavoro pur sempre fedele agli strumenti della tradizione, per quanto “impiegati con intelligenza tutta moderna.” Anche perché sarebbe davvero arduo ricondurre ad un distacco mentale di carattere freddamente analitico certe levità di tono, raffinatezze di accordi, qualità di una materia cromatica che “si sfrangia in velati sussurri”, come ebbe a scrivere Luigi Carluccio, “percorsa da vibrazioni profonde”, con “tracce trepidanti” di una visione interiorizzata e dunque emotivamente partecipe. Ma va anche osservato che l'attenzione di un critico interessato principalmente ad un versante molto lontano dalla linea pittorica di Rossi, assume un peso di non poco conto sulla bilancia delle valutazioni. Nel segno della continuità Sotto le Due Torri, le nuove tendenze erano state documentate in 'Gennaio 70', una manifestazione promossa dall'Ente Bolognese Manifestazioni Artistiche, con una nutrita presenza di protagonisti di tutta la Penisola, dalla figurazione pop all'Arte povera, che stavano trovando spazio anche in gallerie private cittadine. Tempi non propizi, si può ben comprendere, per la generazione di Rossi ancora dedita ad una pittura di lontane radici e dunque di irrinunciabile fedeltà alla tradizione, sia pure riplasmata soprattutto attraverso l'esperienza dell'Informale, come avrebbe puntualmente riconosciuto lo stesso Menna scrivendo di Rossi. E in un saggio uscito nel fascicolo del novembre '73 de 'I problemi di Ulisse', volto a fare il punto sullo stato dell'arte, Restany sentenziava in termini ben più radicali: “Arte: abolizione o mutazione”. Un'affermazione rivelatasi nel giro di un lustro quanto meno frettolosa e incauta. Ad Arcangeli, strenuo sostenitore della persistenza dell'opera, ma prematuramente scomparso nel febbraio del '74, mancò il tempo per assistere al vistoso mutamento di tendenza che si verificò sullo scorcio degli anni '70 e soprattutto all'inizio del decennio successivo. Diciamo pure in tempo di 'Postmoderno', stando ad una definizione fortunata quanto discussa. Il percorso di Rossi si svolse comunque in una inossidabile fedeltà ai principi costitutivi del proprio lavoro, nel segno della continuità in quella che anche per lui si potrebbe definire una convinta 'ripetizione differente'. Una continuità insieme tematica e pittorica, in una sequenza che ripropone le sue sintesi formali appena mutate di accenti, di gamme cromatiche, di 'tono', come varianti di una visione-emozione dell'immagine di natura. Una visione poetica su cui l'artista indugia, come si può ben comprendere, sempre più a distanza anche dai 'derniers cris' di una pittura che pare d'improvviso come risorta dalle proprie ceneri. Come nei casi diversi ma contemporanei dei fenomeni della 'Transavanguardia', dei 'Nuovi Nuovi', dei 'Nuovi selvaggi' d'oltralpe, che apparvero quasi aggressivamente a riaccendere una scena artistica lungamente ingrigita nella rimozione quasi dogmatica della pittura. In ogni caso decisamente estranei a quel pensiero della qualità che una tradizione considerata conclusa aveva tenuto invece ben fermo come principio irrinunciabile. Nella fragorosa quanto ambigua riabilitazione dell'opera pittorica dei famosi o famigerati -a seconda dei pareri- 'Anniottanta', rivendicava un suo spazio anche il cosiddetto 'Anacronismo', un dichiarato recupero, soprattutto stilistico, dell'antico, per quanto di controversa fortuna. Una tendenza, a maggior ragione, anche più lontana dal pensiero di una moderna continuità che ha sempre ispirato il lavoro di Rossi, convinto partecipe di quell'idea di 'tramando' di cui aveva parlato Arcangeli. Ne sono ulteriore conferma anche le opere che occupano il tempo ultimo del pittore. Da dipinti del '75 come Paesaggio bruciato (7572), nuove Nevicate (7527), e Marina verde (7574), un motivo meno consueto ma a cui ha dedicato diversi lavori, con rossi guizzanti fra tacche di verde e azzurri, a Fabbrica (7568) e Alberi (7595), un'onda di verdi cangianti con una linea di profilo collinare che quasi ritaglia l'orizzonte, e Natura morta bleu (7570), Natura morta chiara (7504) - per riportare solo qualche titolo- fino ai dipinti degli anni '80, talora più prosciugati, come Veduta monocroma (8216), Nevicata biondastra (8214), o Nevicata segnica (8215) dell'82. E a seguire, fino alle ultime vedute collinari dei primi anni '90, tramate di segni materici o come avvolte in una calda velatura tonale, la pittura di Rossi non muta sostanzialmente intonazione. Semmai, è una sempre più solitaria, perdurante, insistita ricerca di qualità, nella dolcezza quasi elegiaca, antica e nuova ad un tempo, che si ritrova, come anche si è scritto, in questi “paesaggi dell'anima”, in queste luminose pagine di un lungo diario pittorico nella continuità della sua inconfondibile cifra stilistica. “Basterebbe vedere con quale padronanza, con quale golosa ma trattenuta dolcezza egli stende con la spatola gli strati del suo colore, nutrendone gli accordi lungo una gamma talvolta piacevole, talvolta semplice e austera: spesso rara. In questo impasto non facile è presente la vita.” Lo scriveva Arcangeli ancora nel lontano '58; ma sono parole che si potrebbero ben spendere per Rossi, fino alle sue opere ultime.
Ilario Rossi e il suo tempo Ricordo bene l'incontro con Ilario Rossi che segnò l'inizio di una lunga amicizia. Ci eravamo conosciuti molto prima in occasione di qualche mio passaggio all'Accademia di Belle Arti di Bologna e in Pinacoteca da Andrea Emiliani. Ma quell'incontro decisivo avvenne qualche anno dopo, nell' '82, per una duplice occasione: la pubblicazione dedicata all'artista nella collana 'Le cortège d'Orphée' per le edizioni de Il Bulino, e la mostra 'Naturalismo: memoria e presenza' curata per il 'Laboratorio d'Arte Contemporanea' di Goro aperto da Laura Gavioli col patrocinio dell'Amministrazione provinciale di Ferrara. Qui Ilario Rossi figurava assieme ad altri tre artisti che mi parevano per certi aspetti congeneri, come Pompilio Mandelli, Ennio Morlotti e Germano Sartelli: vale a dire due degli 'ultimi naturalisti' più cari a Francesco Arcangeli e un solitario mai coinvolto in gruppi, ma “sempre all'erta e sempre in ritiro” - così ne aveva scritto lo stesso Arcangeli - che come Rossi aveva comunque respirato quel clima particolarissimo pur se in un'autonoma propensione operativa. Da allora ogni incontro con Rossi (immancabilmente festeggiato da entrambi con un buon sigaro toscano) rafforzava un rapporto che in fondo era nato anche in nome di Momi Arcangeli, suo lucidissimo esegeta e mio indimenticabile maestro. Che scriveva, nel lontano 1958, della memoria ormai sfuocata del suo primo contatto con Ilario in una Bologna d'altri tempi, quando “la nascita degli artisti più dotati fu lenta nel dolce incontro con le cose, e, lontana dagli assilli della più angustiante modernità, quasi convalidata dall'autorità solenne altrettanto che familiare di Morandi; quanto, peraltro, sempre al rischio di soffocare entro il respiro breve delle polemiche cittadine. Bologna, decisamente autarchica, riproduceva in metro minore la condizione italiana, senza le svolte che furono a Milano e a Roma.” Era già la precisa definizione del quadro storico della città felsinea al tempo degli esordi, quasi inevitabilmente morandiani, di Rossi. Un nome, quello del 'solitario di via Fondazza', non so quante volte evocato anche quando, nella piena maturità di Ilario, in certe nostre conversazioni si ritornava sulla storia artistica di Bologna rimasta per molti aspetti ai margini delle vicende di maggior grido, con Milano e Roma protagoniste. E non è senza motivo che qualche artista della generazione emersa nel secondo dopoguerra abbia poi deciso di lasciare Bologna per uscire dal cono d'ombra che il mito Morandi continuava a proiettare su tutti gli altri sotto le Due Torri. Non fu il caso di Rossi, che dopo gli esordi improntati alla “norma strutturale d'eredità morandiana”, come scrisse Gian Carlo Cavalli, il suo più assiduo esegeta, pur senza essere sedotto dal picassismo che era parso una via quasi d'obbligo in Italia - il pedaggio per “tanti assetati d'Europa - mostrava semmai singolari accordi con le accensioni di ascendenza romana. Ecco, con la 'scuola di via Cavour', come l'aveva subito chiamata Roberto Longhi, con la folgorante meteora Scipione, Antonietta Raphael e Mario Mafai, guardando soprattutto quest'ultimo, ma anche a Roberto Melli, come notò più avanti puntualmente Maurizio Calvesi presentando Rossi alla sua prima mostra nella capitale, alla galleria La Medusa. E non era cosa di poco conto poiché costituiva un caso a parte fra gli artisti bolognesi della sua generazione, Già diversi anni prima Rossi non aveva mancato di partecipare al sodalizio formato da alcuni artisti bolognesi intorno alla galleria di Cronache nel dicembre del '45. Pur senza aver molto da spartire, a ben vedere, con gli altri, se non una giovanile aspirazione ad uscire dal clima un po' stagnante della città. Occorre anche dire che sarebbe stata eccessiva per quei cinque artisti – Borgonzoni, Ciangottini, Mandelli, Minguzzi e appunto Rossi- la pretesa di avere un ruolo di rilievo nel panorama nazionale, tanto è vero che non furono considerati in alcune rassegne che, più avanti, intesero documentare le vicende del dopoguerra. Nessuna elaborazione teorica comune, né manifesti programmatici quali caratterizzarono la costituzione di gruppi negli anni postbellici: per dire, dalla 'Nuova secessione artistica' ridefinita 'Fronte Nuovo delle Arti', agli 'Otto pittori', ultimo in ordine di tempo. Eppure Bologna fu la sede di un'esposizione destinata ad avere forti ripercussioni. L'episodio spesso ricordato della mostra promossa dall'Alleanza della Cultura, al Palazzo del Podestà, con la 'segnalazione' su 'Rinascita' siglata R, inequivocabile iniziale di Roderigo (di Castiglia) 'nome de plume' di Togliatti: una stroncatura senza appello, politicamente mirata, portò Bologna all'attenzione nazionale. Alla risposta sofferta degli artisti fece seguito un nuovo intervento dell'autorevole politico, se possibile peggiore del primo, che determinò una frattura insanabile nel 'Fronte Nuovo delle Arti'. In buona sostanza, significò la separazione degli artisti che rivendicavano un'autonomia linguistica, dalla schiera realista autorevolmente guidata da Guttuso. Un episodio che comunque, dopo gli accesi dibattiti di quei giorni, non ebbe conseguenze rilevanti sotto le Due Torri, e semmai confermò la tendenza dei bolognesi a difendere la propria identità. Si trattava di non tradire quella storia artistica plurisecolare che Roberto Longhi aveva celebrato fin dal suo esordio all'ateneo bolognese nel 1934. Rossi, in realtà, fu il meno toccato dalle ansie di rinnovamento che già erano serpeggiate fra gli amici di 'Cronache', tra sperimentazioni cubisteggianti e più personali rielaborazioni dell'impianto figurale. Era volto, piuttosto, ad una “meditata acquisizione al suo vedere paesistico – sono parole di Arcangeli- d'una ben connessa scansione neocézanniana; imbevuta pur sempre dei suoi verdi ancora nevosi, o infusi di freschi vividi succhi di primavera.” E poteva aggiungere, il critico bolognese, che negli anni successivi, intorno al '50, certa violenza “ben calibrata” del colore e una strana inquietudine della forma facevano pensare quasi alla “surrealtà d'un Gorky, allora ignorato da noi, salvo che nelle delibazioni di Afro.” Un nome forse un po' azzardato, ma che faceva intendere come Rossi stesse procedendo, con meditati passaggi, sulla via di un'ormai matura consapevolezza della propria visione naturalistica, suscettibile di improvvisi sussulti, di vividi accenti cromatici. Al punto da suggerire per il lavoro di quel tempo un accostamento alle versioni dell''astratto concreto' di cui Lionello Venturi era stato mentore su invito degli 'Otto pittori' che si erano costituiti in gruppo come alternativa al realismo e al tempo stesso all'astrattismo romano di 'Forma uno' o del milanese MAC. Un compromesso per salvare libertà formale e contenuti. Impagabile il sarcastico commento di Roberto Longhi: “Mentre oggi che l'astratto tenta di riagganciare nella nebbia contenuti non meglio identificabili, è difficile rifiutarsi al sospetto che si tratti di un'accomodatura vagamente indotta da esigenze ben più radicali. Son quelle, si sa bene, della schiera opposta che, sul camion di contenuti fin troppo crudi, attende, sì, anch'essa pazientemente il trattore della 'forma'; ma che dovrebbe giungerle, immagino, da tutt'altra parte.” Se di compromesso si trattava, per il sodalizio degli 'Otto' dell''astratto concreto' – con ragioni soprattutto strategiche: il maggior peso assicurato dal presentarsi come gruppo, nonostante le ben distinte scelte linguistiche- non poteva essere questione che riguardasse Rossi, determinato a non lasciarsi coinvolgere in schieramenti che ne avrebbero condizionato la schietta, personale vena pittorica e che sentiva estranei al suo mondo. Basti guardare le opere di quei tempi, dall'immediato dopoguerra ai primi anni '50, dove è il paesaggio della periferia bolognese a costituire un motivo ricorrente in una sostanziale continuità con i dipinti della formazione. Vero è che tutto l'ambiente cittadino, salvo pochissime eccezioni, si mostrava restio ad allinearsi alle vie romane o milanesi di una modernità volta a rimuovere quasi per intero il nostro primo '900, e meno che mai a piegare la vocazione personale ad un impegno politico collettivo. Neppure l''Ultimo naturalismo' di Arcangeli, un paio d'anni dopo, con motivi che certo toccavano la sensibilità, la formazione, la cultura, di Rossi, poté indurlo ad un'adesione che sarebbe parsa consona al suo sentire e ai 'tramandi' di cui s'era nutrita la sua storia. Una condizione anche di geografia culturale, la sua padanità, ma che si faceva carico di corrispondenze esistenziali in qualche misura in sintonia con la temperie dell'Informale, col clima artistico internazionale di più drammatica attualità. Rossi, insomma, non ne rimase ai margini: anzi, i suoi lavori della seconda metà degli anni '50 documentano nella gestualità e nell'addensarsi degli spessori materici come l'artista abbia vissuto intensamente quella temperie. Non per nulla alcuni critici, per il lavoro i Rossi di quegli anni, hanno speso nomi di illustri protagonisti, primo fra tutti De Stael, amato fin dalla sua 'scoperta' alla Biennale veneziana del '54, come non mancava di confermare. Da parte sua Arcangeli aveva ben compreso come Rossi non fosse mai giunto ad identificarsi nella condizione dell''ultimo naturalismo', pur condividendone certi presupposti e l'afflato emotivo di lontana eredità romantica. Valgano, ancora, le sue parole: “Può essere singolare, a questo punto, notare che Rossi, bolognese, e portato da sempre al tono naturale e alla visione diretta, non abbia ceduto, come poteva, alle legittime tentazioni del cosiddetto 'ultimo naturalismo'. Senza straniarsene, vi ha reagito a suo modo.” Che voleva poi dire tenendo ben ferma quella misura, quella meditazione strutturale di ormai lontana impronta morandiana, pur sempre ravvivata nel rapporto visivo-sentimentale con la realtà. Questo fa ben intendere come l'artista abbia proceduto “fermo com'era su quella sua poetica della natura da lui prediletta” (Gian Carlo Cavalli); ma attraverso un tessuto pittorico ora innervato da una calcolata gestualità ed ispessimenti materici densi di umori pur sempre riconducibili a quella realtà amata e vissuta giorno dopo giorno. Con i colori crepitanti dell'estate, quelli caldi e abbruniti dell'autunno, i bianchi contaminati delle nevi invernali, i verdi teneri di primavera. Paesaggi collinari o della periferia bolognese di cui nuovamente tornavano a balugginare profili lontani, tracce di case, di oggetti familiari. O interni con torsi, pupazzi,giocolieri, nudi femminili, fiori, figure di una visione rivolta 'autour de sa chambre', senza aver nulla a che vedere, s'intende, con la fredda, impassibile registrazione da 'école du régard'. Piuttosto, motivi figurali irrinunciabili del suo quotidiano come riemersi dalla gestualità e dalle materie informali. Da qui la ripresa di una inconfondibile cifra stilistica che volta a volta rinnovava le immagini del suo mondo poetico, con una sapienza formale, di toni, stesure, contrappunti cromatici, da far scrivere a Filiberto Menna, proprio nel tempo della sua promozione della cosiddetta pittura pittura, o pittura analitica di marca nettamente concettuale, che il lavoro di Rossi era “da annoverare tra le cose più interessanti della pittura italiana del dopoguerra”. Leggendolo come un caso di 'pittura pittura' ne sanciva dunque una sorprendente attualità; e si metta pure in conto la forzatura critica di certo non cercata da Rossi, che infatti ne fu sorpreso, avendo buone ragioni per scansare, sorridendone, l'accostamento a una 'linea analitica' apparsa come 'dernier cris' dell'attualità. La sua strada era un'altra: quella che dall'interno dello studio periferico, con nature morte dai rossi quasi pompeiani, e manichini, torsi, danzatrici, insomma un campionario iconografico decisamente desueto, si apriva a ben note visioni paesistiche. Sostanzialmente le stesse, ma di una sempre nuova, avvolgente luminosità, con tracce di una scrittura così sensibile da evocare il primo Licini. Ma sempre nella ferma consapevolezza di una continuità della propria storia e un'autonomia tenacemente preservata dalle tentazioni di un'attualità quanto più lontana dai quei valori che avevano guidato tutta la sua vita.