ILARIO ROSSI antologica, Grafis Edizioni, Casalecchio di Reno (Bologna) 1994
Giovanni Castagnoli
"In una città come Bologna la nascita degli artisti più dotati fu lenta nel dolce incontro con le cose, e, lontana dagli assilli della più angustiante modernità, quasi convalidata dall'autorità solenne altrettanto che familiare di Morandi; quanto peraltro, sempre al rischio di soffocare entro il respiro breve delle polemiche cittadine: Bologna, decisamente autarchica, riproduceva in metro minore la condizione italiana, senza le rivolte che furono a Milano e a Roma. La stessa singolare misura di Morandi dava un ben difficile appiglio alle scontentezze: contro la sua pittura la nascita di "Corrente" sarebbe stata assai meno agevole. In quegli anni prima del '40, del resto, il maestro bolognese stava giocando le sue carte forse più segrete, affascinanti: da inebbriare tranquillamente di sé chi avesse forza per intenderlo. Fu il caso di Rossi, pittore di vere doti native. Ma le sue pitture morandiane non furono pedisseque; e se il loro senso non poteva essere altrettanto alto, fu però fresco, fiorito, diretto". Così Francesco Arcangeli, presentando Ilario Rossi in occasione di una sua mostra alla "Saletta degli amici" di Modena, avvertiva ancora, nell'anno 1958, l’utilità di rammentare l'apprendistato morandiano dell'autore e il debito contratto in gioventù con la pittura dell'inquilino di via Fondazza.
Rossi, nato nel 1911, s'avviava allora a festeggiare i cinquant'anni ed era artista in piena sintonia con l’esperienza della pittura italiana più attuale; la stagione dei suoi esordi, sebbene protrattasi oltre il tempo del primo tirocinio, poteva ormai figurare remota, superata negli esiti e nelle intenzioni dal nuovo corso che la ricerca dell'artista aveva da qualche anno imboccato con forte ed acclarato vigore. Ciononostante sembrava al critico, pur davanti al nuovo lessico e alla diversa sintassi che Rossi andava costruendo, che quella lontana formazione fosse degna ancora di memoria e fosse dunque esperienza da citare, non tanto per rispondere ad un puro dovere notarile quanto per affermare l’influenza decisiva, da essa esercitata, sull'intera vicenda dell'autore e sulla costituzione del suo personale linguaggio.
Una convinzione con la quale, ancora oggi, non si può che concordare: oggi che i lunghi anni trascorsi da Rossi nel lavoro e le tante prove che l’hanno confortato consentono di dire come nessun altro incontro abbia contato nella storia interna del pittore quanto quello con Morandi; come nessun'altra esperienza abbia altrettanto profondamente inciso nell'orientarne la visione e modellarne la sensibilità. Nessuna, tranne forse una sola, di cui si dirà più avanti, da cui Rossi fu attratto sul finire degli anni Cinquanta e che volle subito far propria in un'adesione priva di condizioni e in un trasporto colmo di entusiasmo.
Alla lezione di Morandi, dunque, segretamente, intimamente la pittura di Rossi seguitò a serbarsi fedele, anche quando la sua diretta influenza lasciò il passo ad altri più urgenti pensieri pittorici. Ma ancora in quel primo tempo in cui essa si esercitò con trascinante forza d'attrazione, Rossi non diede, come notava Arcangeli, della pittura di Morandi, alcuna trascrizione corriva, quanto piuttosto, assecondando con sincerità l’inclinazione della propria natura, una traduzione prudentemente riformata, che abbassava il tono di sublime eloquio, presente nei dipinti morandiani anche quando più umile e spoglia si rende la pittura, al registro di una parlata affabile e accostante, che fu ricca di incanto e di fragranza e si mantenne sempre rispettosa del valore assoluto del modello.
Per questa via avvenne a Rossi di incontrare sul proprio cammino la pittura di Mafai, anch'essa passata, nel biennio 1931 – ‘32, attraverso una meditazione del
la lezione morandiana e di lì approdata a quella visione fatta di gesti sospesi e di atmosfere attonite in cui si placò l’eccitazione vitalistica che aveva moltiplicato, nei due anni precedenti, le immagini di un mondo tumultuoso e allucinata, per lasciare campo agli struggimenti di un colore modulato in accordi segreti e in lenti, progredienti trapassi. S'avvide tempestivamente di tale incontro Giancarlo Cavalli, che nella presentazione ad una mostra fiorentina, nel 1950, evocava per la prima volta, a proposito di Rossi, il nome del pittore delle "Fantasie", pur tenendolo, immeritatamente, un poco in sordina, rispetto a quello di Scipione: "Nella fondamentale esperienza del tono - scriveva in quell'occasione il critico bolognese -, il colore e la luce sono spinti a possibilità estreme e si caricano di patetiche risonanze, ove talora parrà vibrare qualche traccia dell'affocato mondo di Scipione attraverso il più accordato modulare mafaiano...". E la referenza ritornava, ma questa volta amplificata in un più vasto rapporto con la scuola romana, nove anni più tardi, in una pagina di Calvesi, che, introducendo la pittura di Rossi nel catalogo di una sua mostra alla "Medusa", annotava: "...mi sembra che le ragioni intrinseche alla pittura di Rossi si diramino di più, semmai, verso il centro Italia: lungo l’arco del più qualificato "tonalismo" nostrano, che ha collegato la Bologna di Morandi alla Roma di Mafai, di Scipione di Melli (dopo quello di Morandi sono nomi infatti anche questi, non del tutto irrelativi al percorso iniziale di Rossi)...".
È nell'orizzonte di questi modelli che si distende il cammino di Rossi, dal momento del suo esordio, sino alla fine degli anni Quaranta. Sono questi pochi esempi i soli che abbiano lasciato traccia durevole e certa nella sua pittura di quel tempo; altro di quanto era accaduto nella stagione più recente, sulla scena del rinnovamento artistico italiano, non risulta, a giudicare dai dipinti, abbia interessato in profondità la riflessione dell'artista, o quantomeno ne abbia influenzato i risultati. Non le novità che "Corrente" aveva propugnato da Milano e neppure i fermenti antinovecentisti che i "Sei" avevano diffuso da Torino.
Né d'altra parte, il colore sfogato e l’espressionismo dei vari Sassu o Migneco, come neppure la professione di fede nel colore puro e il ricorso alla tavolozza fauvista da parte dei "Sei" avrebbero potuto davvero fare presa su un pittore come Rossi, educato a riconoscere il primato del tono e ad apprezzarlo come il tramite squisito a cui consegnare il segreto della visione e il battito più intimo dell'emozione. Quanto ai chiaristi, poco o nulla di quel loro mondo fatto di luci di sottobosco e di rugiada e di fresche atmosfere mattutine, poco o nulla di quella trama leggera e gentile di cui è fatta la loro pittura si direbbe possa aver richiamato l’attenzione dell'artista bolognese, che si volle, fin dall'abbrivio della sua carriera, pittore di materia solida e assorbente. Semmai, nel crogiuolo fervido di idee e di passioni della Milano dei primi anni Quaranta, tra quanti a "Corrente" s'erano accostati, prendendo parte per un tratto alla sua avventura, un artista con cui Rossi avrebbe potuto stringere qualche intesa, fu Morlotti: anch'egli, come il bolognese, dedicatosi per un'intera stagione creativa, negli anni tra il 1941 e il '44, a rinnovare la propria visione sulle orme di Morandi. Benché profondamente diversi per temperamento: esposto e inquieto quello del lombardo, lirico e raccolto quello del bolognese, qualche sintonia, in quegli anni, tra i due autori, sembra esservi stata, senza che le loro strade, tuttavia, abbiano finito davvero per incontrarsi. Nemmeno a Bologna, fatta eccezione, come si è detto, per Morandi, Rossi poté rinvenire stimoli di qualche rilievo né tantomeno maestri su cui contare; poiché, tra quelli che aveva avvicinato e umanamente stimato negli anni del Liceo e dell'Accademia, nessuno poteva soddisfare la richiesta di nuovo di un giovane pieno di talento come Rossi e sicuro nella propria capacità di selezione: non Giovanni Romagnoli con la sua materia ottimista e opulenta grondante di umori spadiniani; non Protti con il suo virtuosismo spadaccino e suoi bitumi alla Zuloaga; meno ancora Giacomelli con la difesa oltranzista del mestiere e la rincorsa del sogno inattuale della "grande maniera"; neppure Pizzirani, pittore dal tocco sapiente e di paste raffinate, ma troppo cariche di echi ottocenteschi. Nessuno di costoro aveva in serbo attrattive che potessero interessare Rossi; nemmeno Guidi, che nel '35 si trasferiva nelle aule dell’Accademia di Bologna, recandovi testimonianza vissuta di un "Novecento" problematico e inquieto e che aveva subito ammaliato, con la sua eloquenza eccitata e la febbrile vitalità intellettuale, tanti giovani coetanei di Rossi, riuscì a distrarre il pittore dal cammino che aveva intrapreso.
Egli seguitò a parteggiare per Morandi e a lavorare nel solco della sua pittura. Nascono così le immagini degli orti al limitare della città, delle case, dei muri rustici sui rilievi della prima collina ondulata in dolci profili, che suggerirono ad Arcangeli l’accostamento con la "vena sensuale, abbandonata entro gli argini di vasti e liberi schemi metrici, che fu nei "Poemi lirici" del giovane Bacchelli" e indussero Cavalli a riconoscervi una "voce lenta, quasi mormorata e pigra, in una sorta di bucolica accorata e severa".
Anche nel ritratto, che fu genere quasi disertato da Morandi, l’eco della sua lezione non si attenua. Ne è prova, tra le opere in mostra, il dipinto di "Sandra" (1943) a mezza figura, dove ogni cosa: l’accordo mirabile dei toni (la terra d'ombra della blusa che si tinge di malva nelle pieghe), il trapasso lento della luce che si fa interna alla materia, la stessa conduzione, ogni tratto, insomma, della pittura rende omaggio alla lingua di Morandi e ne rinnova il magistero. Ma di Rossi, solo suo è il sottile pensiero di quel rosso che accende, discreto, le gote della donna e le riscalda, riverberando un istante la sua luce sulla mano che sostiene il bel volto pensoso. Ecco, infine, un esempio della riforma a cui Rossi sottopone il modello morandiano. È una diversa confidenza con le immagini ciò che Rossi introduce entro il codice severo, intellettualmente governato di Morandi; è un più forte abbandono sentimentale che si sfoga nella sua visione e rende prossimi, familiari gli angoli di mondo ritratti dal pittore. Familiari come la "Scuola di paese" (1935), che incombe con la sua mole squadrata e priva di attrattive, sul piano più accostato allo sguardo; tanto diversa, tanto meno solenne, in quella sua feriale, "normale" vicinanza dalla fantasmatica "lontananza" delle case di Morandi, arroccate sui crinali della collina di Grizzana ; prossimi, come la trama dei tralci spogliati delle viti in "Periferia" (1943), che costituisce una presenza veritiera e tangibile: un ritratto d'ambiente e d`"atmosfera", prima che un'occasione formale a cui ancorare la visione.
Sono pensieri e immagini come quelli citati a tenere occupata la ricerca di Rossi per oltre un decennio; fino a quando, negli anni che seguono la fine della guerra: il tempo in cui l’artista prende parte attiva alla vicenda di "Cronache", Rossi non adotta, lentamente, meditatamente, com'è nella sua natura, una gestualità più immediata e diretta che accentua progressivamente il risalto delle impalcature strutturali. I profili dei colli, gli andamenti dei rami, i tracciati delle solcature dei campi, le scansioni ritmate dei filari divengono allora altrettanti motivi di scrittura che spartiscono lo spazio della pagina pittorica, facendo argine alla stesura del colore. Un cézannismo discreto e amorevolmente avvicinato, fa ora ingresso nell'opera di Rossi e presiede, senza coartarla in programma, alla costruzione della sua spazialità, che conquista, in virtù di tale innesto, un più amplificato e potente respiro. Matura così, per gradi, conseguentemente, il trapasso ai dipinti del biennio 1954-'56, che segnano un affondo ulteriore nel rinnovamento della visione dell'autore ed inaugurano la felice stagione di quel naturalismo "di partecipazione" che prolunga i suoi effetti sino alla fine del decennio.
È questo il tempo in cui Arcangeli raccoglie attorno alla definizione di "ultimo naturalismo" un gruppo di pittori, apparentati, nella lettura del critico, da una comunione di intenti e tutti, sia pure con diverse inclinazioni e sensibilità, impegnati ad esplorare le possibilità di un inedito, rinnovato rapporto con la visione naturale. "Il loro quadro, si sente prima di capirlo, vi macchia l’occhio, tocca le regioni del vostro cuore, prima di avere raggiunto il cervello che medita e seleziona: sono soprattutto dei paesaggi, il cui effetto è improvviso, anche quando è stato a lungo meditato. Paesaggio, nel senso vero e profondo della parola, è già il senso del "due": un limite amato, oscuro e presente". Così, Arcangeli, nel saggio scritto nell'estate del '54 e pubblicato, nell'autunno di quell'anno, in "Paragone", evidenziava i tratti distintivi della nuova poetica. Il naturalismo di cui il critico parlava e di cui per qualche verso anticipava le soluzioni, si configurava come un ultimo approdo del secolare rapporto intrattenuto dalla pittura con la visione naturale, un'estrema possibilità, affidata al tramite dell'emozione invece che al controllo della mente: "Si ritenta la natura ma la sua proporzione sfugge, ora, la misura intellettuale" , precisava, Arcangeli, in quello stesso saggio.
Era un'intuizione affascinante e tempestiva di quanto andasse germogliando, sul terreno della giovane ricerca artistica italiana, in sintonia con le esperienze dell’informale europeo e internazionale; ed era, al tempo stesso, un modo per trovare una risoluzione non ideologica dell'antagonismo tra formalismo e realismo, che aveva irrigidito il dibattito critico italiano, negli anni dell'immediato dopoguerra e già conosciuto un primo, insufficiente, tentativo di conciliazione nella teorizzazione, da parte di Lionello Venturi, dell’"astratto-concreto".
Nel saggio ricordato, anche la pittura di Rossi, che quell'anno esponeva alla Biennale assieme a Morlotti, a Mandelli e a Romiti, trovava spazio di citazione; ma in una posizione più marginale rispetto a quella assegnata ad artisti come Morlotti, Mandelli o Bendini, che il critico sentiva a sé più affini e più vocati a interpretare in modo solidale, nel lavoro, il significato della propria proposta critica.
Quel riconoscimento, sia pur con la riserva con cui veniva espresso, dovette comunque suonare gradito a Rossi e fargli sentire d'essere anch'egli parte attiva in quel rinnovamento espressivo, che Arcangeli andava interpretando e sostenendo con autorità e con passione. Dovette, in ogni caso, infondergli ottimismo e linfa fresca d'entusiasmo e stimoli di che nutrire la propria immaginazione.
Ma Rossi, alla fine (Arcangeli, dunque, vide giusto), non arrivò mai a vivere una vera e totale identificazione con quel clima. Opponeva resistenza a che ciò avvenisse, da un lato, l’educazione formale ricevuta da Morandi, dall'altro, quel recente passaggio cézanniano, che impediva all’artista di rinunciare alla struttura. Così la sua pittura si addensò di materia più robusta, si nutrì di gesti più sfogati, si consegnò palpitante all'emozione; ma mantenne ben salda la propria impalcatura strutturale e le sue attribuzioni ordinatrici: dei ritmi, delle pause, dei pesi, dei valori. Per cui, nel'58, quando una folta selezione di quei quadri approdò alla Biennale veneziana, Cavalli (il critico che, con Rossi, mantenne inalterato il vincolo di una lunga fedeltà) ebbe opportunità di scrivere in catalogo: "Il nuovo traliccio spaziale in cui si annullano tutte le dimensioni dell’antica visibilità, resta ancora struttura viva, scheletro delle cose...La stessa consumata eleganza che un tempo scandiva il canto dell'elegia oggi governa i contrappunti del colore in questo più aggressivo possesso della natura, matrice incancellabile dell'ispirazione". Fu quello il modo in cui Rossi si accostò alle ricerche dell'informale italiano: senza interpretare ruoli estremi, senza praticare scelte radicali, serbandosi coerente fino in fondo alla matrice della propria visione; ma consegnando alla storia di quel tempo le immagine tenaci e resistenti, nella loro qualità, di alti argini e spalti vertiginosi, innalzati mattone su mattone, nell'accordo mirabile dei piani di colore. Un colore, variato senza tregua sul pedale dell'emozione: bianchi e grigi che s'intingono d'azzurro, bruni che trapassano in viola, verdi che affondano nell'ombra per arrestarsi sulla soglia del nero; e neri e grigi e bianchi: quanti di quei colori si saprebbero descrivere con le parole? Quanti di quei toni infiniti che fanno indimenticabile la pittura di Rossi di quegli anni ormai lontani? La qual pittura strinse allora anche qualche parentela con quanto si andava producendo, sul terreno del naturalismo informale, tra Bologna, l’Umbria e Milano; ma i suoi nutrimenti più sostanziosi, i suoi stimoli più decisivi li riceveva da fuori d'Italia: dall'esperienza di un pittore russo morto suicida a Parigi, dopo avere lungamente contemplato, sopra la linea d'orizzonte, nel cielo immenso di Honfleur, il volo dei gabbiani e la deriva del suo sogno di fare immobile e assoluto il moto interiore della vita. De Stael, che Rossi aveva una prima volta incontrato alla Biennale di Venezia del '54 e che, più a fondo, ebbe occasione di conoscere e studiare, nella tarda primavera del '60, alla retrospettiva organizzata dalla Galleria d'Arte Moderna di Torino: il grande, inarrivabile De Stael fu l’artista più amato da Rossi in questo tempo.
Quanto la sua pittura abbia contato - e non allora soltanto -, nella ricerca dell'artista bolognese, lo danno chiaramente a vedere i grandi dipinti di interno e di figura realizzati da Rossi nel corso del 1963; di cui uno: "Grigio e azzurro" (anche il titolo suona omaggio al pittore incantato dalla luce di Agrigento) si dichiara come un pensiero decisamente derivato, seppure interiormente filtrato, dal "Nudo in piedi" del '53, presente alla mostra di Torino. Ma le tele del '63, che Rossi espose l’anno seguente alla Biennale, segnano anche la conclusione di un ciclo e l’esaurirsi di una stagione.
Il pittore introdusse allora, come un punto di distanza tra le emozioni e il proprio ritratto di natura e i dipinti che vennero, copiosi, nei lunghi anni che conducono a noi si assestarono su una visione meno arrischiata, seppure, non per questo, meno intensa e felice.
Furono prevalentemente, ma non solo, paesaggi: campi, alberi e case sovrastati dal profilo protettivo e materno della collina, internati nella memoria e nel cuore. Furono luci e colori d'autunno, inverni ammantati di neve, fioriture di primavere: ancora e sempre le stagioni, che scandiscono il tempo dell'esistenza, a dare voce nuovamente al tono dell'elegia. Quei paesaggi, costruiti a larghi gesti, in una nuova sintesi di forma e di colore, sono le opere che hanno decretato il successo del1'artista e maggiormente concorso a diffonderne la notorietà e Rossi vi avrà anche, qualche volta, troppo a lungo indugiato, correndo il rischio di farne una sigla capace di scoraggiare 1'impegno dell'interpretazione. Ma in quei paesaggi, che, non dubito, la scelta di questa mostra saprà valorizzare, egli ha versato stupefacenti qualità di pittura e una sincerità di sentimento e di emozioni che chiede solo d'essere riconosciuta per ciò che è stata é ha voluto essere: il tramite per dare figura e moderna sostanza di poesia a un "paesaggio dell'anima".
Giovanni Castagnoli
"In una città come Bologna la nascita degli artisti più dotati fu lenta nel dolce incontro con le cose, e, lontana dagli assilli della più angustiante modernità, quasi convalidata dall'autorità solenne altrettanto che familiare di Morandi; quanto peraltro, sempre al rischio di soffocare entro il respiro breve delle polemiche cittadine: Bologna, decisamente autarchica, riproduceva in metro minore la condizione italiana, senza le rivolte che furono a Milano e a Roma. La stessa singolare misura di Morandi dava un ben difficile appiglio alle scontentezze: contro la sua pittura la nascita di "Corrente" sarebbe stata assai meno agevole. In quegli anni prima del '40, del resto, il maestro bolognese stava giocando le sue carte forse più segrete, affascinanti: da inebbriare tranquillamente di sé chi avesse forza per intenderlo. Fu il caso di Rossi, pittore di vere doti native. Ma le sue pitture morandiane non furono pedisseque; e se il loro senso non poteva essere altrettanto alto, fu però fresco, fiorito, diretto". Così Francesco Arcangeli, presentando Ilario Rossi in occasione di una sua mostra alla "Saletta degli amici" di Modena, avvertiva ancora, nell'anno 1958, l’utilità di rammentare l'apprendistato morandiano dell'autore e il debito contratto in gioventù con la pittura dell'inquilino di via Fondazza.
Rossi, nato nel 1911, s'avviava allora a festeggiare i cinquant'anni ed era artista in piena sintonia con l’esperienza della pittura italiana più attuale; la stagione dei suoi esordi, sebbene protrattasi oltre il tempo del primo tirocinio, poteva ormai figurare remota, superata negli esiti e nelle intenzioni dal nuovo corso che la ricerca dell'artista aveva da qualche anno imboccato con forte ed acclarato vigore. Ciononostante sembrava al critico, pur davanti al nuovo lessico e alla diversa sintassi che Rossi andava costruendo, che quella lontana formazione fosse degna ancora di memoria e fosse dunque esperienza da citare, non tanto per rispondere ad un puro dovere notarile quanto per affermare l’influenza decisiva, da essa esercitata, sull'intera vicenda dell'autore e sulla costituzione del suo personale linguaggio.
Una convinzione con la quale, ancora oggi, non si può che concordare: oggi che i lunghi anni trascorsi da Rossi nel lavoro e le tante prove che l’hanno confortato consentono di dire come nessun altro incontro abbia contato nella storia interna del pittore quanto quello con Morandi; come nessun'altra esperienza abbia altrettanto profondamente inciso nell'orientarne la visione e modellarne la sensibilità. Nessuna, tranne forse una sola, di cui si dirà più avanti, da cui Rossi fu attratto sul finire degli anni Cinquanta e che volle subito far propria in un'adesione priva di condizioni e in un trasporto colmo di entusiasmo.
Alla lezione di Morandi, dunque, segretamente, intimamente la pittura di Rossi seguitò a serbarsi fedele, anche quando la sua diretta influenza lasciò il passo ad altri più urgenti pensieri pittorici. Ma ancora in quel primo tempo in cui essa si esercitò con trascinante forza d'attrazione, Rossi non diede, come notava Arcangeli, della pittura di Morandi, alcuna trascrizione corriva, quanto piuttosto, assecondando con sincerità l’inclinazione della propria natura, una traduzione prudentemente riformata, che abbassava il tono di sublime eloquio, presente nei dipinti morandiani anche quando più umile e spoglia si rende la pittura, al registro di una parlata affabile e accostante, che fu ricca di incanto e di fragranza e si mantenne sempre rispettosa del valore assoluto del modello.
Per questa via avvenne a Rossi di incontrare sul proprio cammino la pittura di Mafai, anch'essa passata, nel biennio 1931 – ‘32, attraverso una meditazione del
la lezione morandiana e di lì approdata a quella visione fatta di gesti sospesi e di atmosfere attonite in cui si placò l’eccitazione vitalistica che aveva moltiplicato, nei due anni precedenti, le immagini di un mondo tumultuoso e allucinata, per lasciare campo agli struggimenti di un colore modulato in accordi segreti e in lenti, progredienti trapassi. S'avvide tempestivamente di tale incontro Giancarlo Cavalli, che nella presentazione ad una mostra fiorentina, nel 1950, evocava per la prima volta, a proposito di Rossi, il nome del pittore delle "Fantasie", pur tenendolo, immeritatamente, un poco in sordina, rispetto a quello di Scipione: "Nella fondamentale esperienza del tono - scriveva in quell'occasione il critico bolognese -, il colore e la luce sono spinti a possibilità estreme e si caricano di patetiche risonanze, ove talora parrà vibrare qualche traccia dell'affocato mondo di Scipione attraverso il più accordato modulare mafaiano...". E la referenza ritornava, ma questa volta amplificata in un più vasto rapporto con la scuola romana, nove anni più tardi, in una pagina di Calvesi, che, introducendo la pittura di Rossi nel catalogo di una sua mostra alla "Medusa", annotava: "...mi sembra che le ragioni intrinseche alla pittura di Rossi si diramino di più, semmai, verso il centro Italia: lungo l’arco del più qualificato "tonalismo" nostrano, che ha collegato la Bologna di Morandi alla Roma di Mafai, di Scipione di Melli (dopo quello di Morandi sono nomi infatti anche questi, non del tutto irrelativi al percorso iniziale di Rossi)...".
È nell'orizzonte di questi modelli che si distende il cammino di Rossi, dal momento del suo esordio, sino alla fine degli anni Quaranta. Sono questi pochi esempi i soli che abbiano lasciato traccia durevole e certa nella sua pittura di quel tempo; altro di quanto era accaduto nella stagione più recente, sulla scena del rinnovamento artistico italiano, non risulta, a giudicare dai dipinti, abbia interessato in profondità la riflessione dell'artista, o quantomeno ne abbia influenzato i risultati. Non le novità che "Corrente" aveva propugnato da Milano e neppure i fermenti antinovecentisti che i "Sei" avevano diffuso da Torino.
Né d'altra parte, il colore sfogato e l’espressionismo dei vari Sassu o Migneco, come neppure la professione di fede nel colore puro e il ricorso alla tavolozza fauvista da parte dei "Sei" avrebbero potuto davvero fare presa su un pittore come Rossi, educato a riconoscere il primato del tono e ad apprezzarlo come il tramite squisito a cui consegnare il segreto della visione e il battito più intimo dell'emozione. Quanto ai chiaristi, poco o nulla di quel loro mondo fatto di luci di sottobosco e di rugiada e di fresche atmosfere mattutine, poco o nulla di quella trama leggera e gentile di cui è fatta la loro pittura si direbbe possa aver richiamato l’attenzione dell'artista bolognese, che si volle, fin dall'abbrivio della sua carriera, pittore di materia solida e assorbente. Semmai, nel crogiuolo fervido di idee e di passioni della Milano dei primi anni Quaranta, tra quanti a "Corrente" s'erano accostati, prendendo parte per un tratto alla sua avventura, un artista con cui Rossi avrebbe potuto stringere qualche intesa, fu Morlotti: anch'egli, come il bolognese, dedicatosi per un'intera stagione creativa, negli anni tra il 1941 e il '44, a rinnovare la propria visione sulle orme di Morandi. Benché profondamente diversi per temperamento: esposto e inquieto quello del lombardo, lirico e raccolto quello del bolognese, qualche sintonia, in quegli anni, tra i due autori, sembra esservi stata, senza che le loro strade, tuttavia, abbiano finito davvero per incontrarsi. Nemmeno a Bologna, fatta eccezione, come si è detto, per Morandi, Rossi poté rinvenire stimoli di qualche rilievo né tantomeno maestri su cui contare; poiché, tra quelli che aveva avvicinato e umanamente stimato negli anni del Liceo e dell'Accademia, nessuno poteva soddisfare la richiesta di nuovo di un giovane pieno di talento come Rossi e sicuro nella propria capacità di selezione: non Giovanni Romagnoli con la sua materia ottimista e opulenta grondante di umori spadiniani; non Protti con il suo virtuosismo spadaccino e suoi bitumi alla Zuloaga; meno ancora Giacomelli con la difesa oltranzista del mestiere e la rincorsa del sogno inattuale della "grande maniera"; neppure Pizzirani, pittore dal tocco sapiente e di paste raffinate, ma troppo cariche di echi ottocenteschi. Nessuno di costoro aveva in serbo attrattive che potessero interessare Rossi; nemmeno Guidi, che nel '35 si trasferiva nelle aule dell’Accademia di Bologna, recandovi testimonianza vissuta di un "Novecento" problematico e inquieto e che aveva subito ammaliato, con la sua eloquenza eccitata e la febbrile vitalità intellettuale, tanti giovani coetanei di Rossi, riuscì a distrarre il pittore dal cammino che aveva intrapreso.
Egli seguitò a parteggiare per Morandi e a lavorare nel solco della sua pittura. Nascono così le immagini degli orti al limitare della città, delle case, dei muri rustici sui rilievi della prima collina ondulata in dolci profili, che suggerirono ad Arcangeli l’accostamento con la "vena sensuale, abbandonata entro gli argini di vasti e liberi schemi metrici, che fu nei "Poemi lirici" del giovane Bacchelli" e indussero Cavalli a riconoscervi una "voce lenta, quasi mormorata e pigra, in una sorta di bucolica accorata e severa".
Anche nel ritratto, che fu genere quasi disertato da Morandi, l’eco della sua lezione non si attenua. Ne è prova, tra le opere in mostra, il dipinto di "Sandra" (1943) a mezza figura, dove ogni cosa: l’accordo mirabile dei toni (la terra d'ombra della blusa che si tinge di malva nelle pieghe), il trapasso lento della luce che si fa interna alla materia, la stessa conduzione, ogni tratto, insomma, della pittura rende omaggio alla lingua di Morandi e ne rinnova il magistero. Ma di Rossi, solo suo è il sottile pensiero di quel rosso che accende, discreto, le gote della donna e le riscalda, riverberando un istante la sua luce sulla mano che sostiene il bel volto pensoso. Ecco, infine, un esempio della riforma a cui Rossi sottopone il modello morandiano. È una diversa confidenza con le immagini ciò che Rossi introduce entro il codice severo, intellettualmente governato di Morandi; è un più forte abbandono sentimentale che si sfoga nella sua visione e rende prossimi, familiari gli angoli di mondo ritratti dal pittore. Familiari come la "Scuola di paese" (1935), che incombe con la sua mole squadrata e priva di attrattive, sul piano più accostato allo sguardo; tanto diversa, tanto meno solenne, in quella sua feriale, "normale" vicinanza dalla fantasmatica "lontananza" delle case di Morandi, arroccate sui crinali della collina di Grizzana ; prossimi, come la trama dei tralci spogliati delle viti in "Periferia" (1943), che costituisce una presenza veritiera e tangibile: un ritratto d'ambiente e d`"atmosfera", prima che un'occasione formale a cui ancorare la visione.
Sono pensieri e immagini come quelli citati a tenere occupata la ricerca di Rossi per oltre un decennio; fino a quando, negli anni che seguono la fine della guerra: il tempo in cui l’artista prende parte attiva alla vicenda di "Cronache", Rossi non adotta, lentamente, meditatamente, com'è nella sua natura, una gestualità più immediata e diretta che accentua progressivamente il risalto delle impalcature strutturali. I profili dei colli, gli andamenti dei rami, i tracciati delle solcature dei campi, le scansioni ritmate dei filari divengono allora altrettanti motivi di scrittura che spartiscono lo spazio della pagina pittorica, facendo argine alla stesura del colore. Un cézannismo discreto e amorevolmente avvicinato, fa ora ingresso nell'opera di Rossi e presiede, senza coartarla in programma, alla costruzione della sua spazialità, che conquista, in virtù di tale innesto, un più amplificato e potente respiro. Matura così, per gradi, conseguentemente, il trapasso ai dipinti del biennio 1954-'56, che segnano un affondo ulteriore nel rinnovamento della visione dell'autore ed inaugurano la felice stagione di quel naturalismo "di partecipazione" che prolunga i suoi effetti sino alla fine del decennio.
È questo il tempo in cui Arcangeli raccoglie attorno alla definizione di "ultimo naturalismo" un gruppo di pittori, apparentati, nella lettura del critico, da una comunione di intenti e tutti, sia pure con diverse inclinazioni e sensibilità, impegnati ad esplorare le possibilità di un inedito, rinnovato rapporto con la visione naturale. "Il loro quadro, si sente prima di capirlo, vi macchia l’occhio, tocca le regioni del vostro cuore, prima di avere raggiunto il cervello che medita e seleziona: sono soprattutto dei paesaggi, il cui effetto è improvviso, anche quando è stato a lungo meditato. Paesaggio, nel senso vero e profondo della parola, è già il senso del "due": un limite amato, oscuro e presente". Così, Arcangeli, nel saggio scritto nell'estate del '54 e pubblicato, nell'autunno di quell'anno, in "Paragone", evidenziava i tratti distintivi della nuova poetica. Il naturalismo di cui il critico parlava e di cui per qualche verso anticipava le soluzioni, si configurava come un ultimo approdo del secolare rapporto intrattenuto dalla pittura con la visione naturale, un'estrema possibilità, affidata al tramite dell'emozione invece che al controllo della mente: "Si ritenta la natura ma la sua proporzione sfugge, ora, la misura intellettuale" , precisava, Arcangeli, in quello stesso saggio.
Era un'intuizione affascinante e tempestiva di quanto andasse germogliando, sul terreno della giovane ricerca artistica italiana, in sintonia con le esperienze dell’informale europeo e internazionale; ed era, al tempo stesso, un modo per trovare una risoluzione non ideologica dell'antagonismo tra formalismo e realismo, che aveva irrigidito il dibattito critico italiano, negli anni dell'immediato dopoguerra e già conosciuto un primo, insufficiente, tentativo di conciliazione nella teorizzazione, da parte di Lionello Venturi, dell’"astratto-concreto".
Nel saggio ricordato, anche la pittura di Rossi, che quell'anno esponeva alla Biennale assieme a Morlotti, a Mandelli e a Romiti, trovava spazio di citazione; ma in una posizione più marginale rispetto a quella assegnata ad artisti come Morlotti, Mandelli o Bendini, che il critico sentiva a sé più affini e più vocati a interpretare in modo solidale, nel lavoro, il significato della propria proposta critica.
Quel riconoscimento, sia pur con la riserva con cui veniva espresso, dovette comunque suonare gradito a Rossi e fargli sentire d'essere anch'egli parte attiva in quel rinnovamento espressivo, che Arcangeli andava interpretando e sostenendo con autorità e con passione. Dovette, in ogni caso, infondergli ottimismo e linfa fresca d'entusiasmo e stimoli di che nutrire la propria immaginazione.
Ma Rossi, alla fine (Arcangeli, dunque, vide giusto), non arrivò mai a vivere una vera e totale identificazione con quel clima. Opponeva resistenza a che ciò avvenisse, da un lato, l’educazione formale ricevuta da Morandi, dall'altro, quel recente passaggio cézanniano, che impediva all’artista di rinunciare alla struttura. Così la sua pittura si addensò di materia più robusta, si nutrì di gesti più sfogati, si consegnò palpitante all'emozione; ma mantenne ben salda la propria impalcatura strutturale e le sue attribuzioni ordinatrici: dei ritmi, delle pause, dei pesi, dei valori. Per cui, nel'58, quando una folta selezione di quei quadri approdò alla Biennale veneziana, Cavalli (il critico che, con Rossi, mantenne inalterato il vincolo di una lunga fedeltà) ebbe opportunità di scrivere in catalogo: "Il nuovo traliccio spaziale in cui si annullano tutte le dimensioni dell’antica visibilità, resta ancora struttura viva, scheletro delle cose...La stessa consumata eleganza che un tempo scandiva il canto dell'elegia oggi governa i contrappunti del colore in questo più aggressivo possesso della natura, matrice incancellabile dell'ispirazione". Fu quello il modo in cui Rossi si accostò alle ricerche dell'informale italiano: senza interpretare ruoli estremi, senza praticare scelte radicali, serbandosi coerente fino in fondo alla matrice della propria visione; ma consegnando alla storia di quel tempo le immagine tenaci e resistenti, nella loro qualità, di alti argini e spalti vertiginosi, innalzati mattone su mattone, nell'accordo mirabile dei piani di colore. Un colore, variato senza tregua sul pedale dell'emozione: bianchi e grigi che s'intingono d'azzurro, bruni che trapassano in viola, verdi che affondano nell'ombra per arrestarsi sulla soglia del nero; e neri e grigi e bianchi: quanti di quei colori si saprebbero descrivere con le parole? Quanti di quei toni infiniti che fanno indimenticabile la pittura di Rossi di quegli anni ormai lontani? La qual pittura strinse allora anche qualche parentela con quanto si andava producendo, sul terreno del naturalismo informale, tra Bologna, l’Umbria e Milano; ma i suoi nutrimenti più sostanziosi, i suoi stimoli più decisivi li riceveva da fuori d'Italia: dall'esperienza di un pittore russo morto suicida a Parigi, dopo avere lungamente contemplato, sopra la linea d'orizzonte, nel cielo immenso di Honfleur, il volo dei gabbiani e la deriva del suo sogno di fare immobile e assoluto il moto interiore della vita. De Stael, che Rossi aveva una prima volta incontrato alla Biennale di Venezia del '54 e che, più a fondo, ebbe occasione di conoscere e studiare, nella tarda primavera del '60, alla retrospettiva organizzata dalla Galleria d'Arte Moderna di Torino: il grande, inarrivabile De Stael fu l’artista più amato da Rossi in questo tempo.
Quanto la sua pittura abbia contato - e non allora soltanto -, nella ricerca dell'artista bolognese, lo danno chiaramente a vedere i grandi dipinti di interno e di figura realizzati da Rossi nel corso del 1963; di cui uno: "Grigio e azzurro" (anche il titolo suona omaggio al pittore incantato dalla luce di Agrigento) si dichiara come un pensiero decisamente derivato, seppure interiormente filtrato, dal "Nudo in piedi" del '53, presente alla mostra di Torino. Ma le tele del '63, che Rossi espose l’anno seguente alla Biennale, segnano anche la conclusione di un ciclo e l’esaurirsi di una stagione.
Il pittore introdusse allora, come un punto di distanza tra le emozioni e il proprio ritratto di natura e i dipinti che vennero, copiosi, nei lunghi anni che conducono a noi si assestarono su una visione meno arrischiata, seppure, non per questo, meno intensa e felice.
Furono prevalentemente, ma non solo, paesaggi: campi, alberi e case sovrastati dal profilo protettivo e materno della collina, internati nella memoria e nel cuore. Furono luci e colori d'autunno, inverni ammantati di neve, fioriture di primavere: ancora e sempre le stagioni, che scandiscono il tempo dell'esistenza, a dare voce nuovamente al tono dell'elegia. Quei paesaggi, costruiti a larghi gesti, in una nuova sintesi di forma e di colore, sono le opere che hanno decretato il successo del1'artista e maggiormente concorso a diffonderne la notorietà e Rossi vi avrà anche, qualche volta, troppo a lungo indugiato, correndo il rischio di farne una sigla capace di scoraggiare 1'impegno dell'interpretazione. Ma in quei paesaggi, che, non dubito, la scelta di questa mostra saprà valorizzare, egli ha versato stupefacenti qualità di pittura e una sincerità di sentimento e di emozioni che chiede solo d'essere riconosciuta per ciò che è stata é ha voluto essere: il tramite per dare figura e moderna sostanza di poesia a un "paesaggio dell'anima".