Quello che più ci colpisce nell’opera di un artista come Ilario Rossi è constatare lo sviluppo costante del suo lavoro. Come in una sorta di morphing cinematografico, assistere all’evoluzione che conduce da un punto A ad un punto B, con tutti i relativi passaggi intermedi. Un’evoluzione progressiva e coerente che resta tale, indipendentemente dai punti A e B. Qualunque sia la distanza tra loro, il processo che li abbraccia sarà comunque unitario, composto da un solo gesto, armonico e lineare. Magari per un artista il gesto non sarà altrettanto organico, l’evoluzione non risulterà così sistematica e fluida come lo è in un procedimento creato dalla computer grafica, sarà al contrario ricca di ripensamenti, divagazioni, andate, ritorni e fughe per la tangente. Compito della critica sarà allora selezionare, stabilire i punti fermi, i capisaldi e da lì individuare le opere di congiunzione, i momenti di passaggio, distinguendo questi ultimi dai vicoli ciechi, dalle sperimentazioni o dai semplici divertissement che non hanno avuto seguito. Ogni singola opera come una tappa provvisoria di un processo, per usare un’espressione cara a Mario Nanni, artista bolognese recentemente scomparso, che ha condiviso con Rossi un bel tratto del cammino, più giovane di Rossi di una decina d’anni ma anch’egli partecipe di quel clima di rinnovamento artistico che investì l’Italia nel secondo dopoguerra. Una formula che sintetizza l’idea di un’arte vissuta come ricerca, come dissidio interiore, in cui ogni esito, ovvero ogni quadro, non è mai un traguardo ma solo il punto di partenza per un altro viaggio e in cui la sola opera d’arte è il lavoro dell’artista inteso nella sua totalità. Ecco perché riteniamo importante lo sguardo d’insieme, perché crediamo che l’intero sia superiore alla somma delle parti, ecco perché ci interessa l’evoluzione stilistica che lega un’opera ad un’altra, in un unico movimento. L’anno scorso, sempre a Santa Maria della Vita, abbiamo realizzato una mostra su Bruno Pulga, in occasione del centenario della nascita. Amico di Ilario Rossi, entrambi vicini in un primo momento all’ultimo naturalismo arcangeliano, da cui entrambi si sono poi allontanati, pur per motivi diversi, anche per Pulga avremmo potuto fare un discorso analogo sul senso dell’arte come un processo in continua evoluzione. Con una differenza, che mentre in Pulga l’evoluzione lo porta a partire da un punto per poi dirigersi sempre più lontano, in Rossi assistiamo ad una parabola che si spinge fino ad un certo punto e poi torna indietro. Evoluzione, infatti, non significa necessariamente progredire, non sottintende necessariamente un avanzare, un andare, per forza di cose, avanti. Come sostiene Renato Barilli, l’evoluzione assomiglia di più ad una spirale. Per il critico, rielaborando le celebri teorie sulle coppie wollfliniane, la storia dell’arte si configura come una successione di fasi in cui ad una di espansione ne subentra un’altra di contrazione, ad una fase “aperta” si passa ad una “chiusa”, che nasce e si sviluppa in reazione alla precedente, sistole e diastole. Per cui, dopo un ciclo di sperimentazione, di slancio in avanti, di smaterializzazione e fuoriuscita dai propri confini, se ne verifica uno opposto contraddistinto da un richiamo all’ordine, un ritorno alle origini, un battito di mani che rimette tutti sull’attenti. Il ritorno, tuttavia, non è mai uguale a sé stesso, la ripartenza non riparte mai da dove si è generata, così come nessuna fuga conduce mai allo stesso risultato raggiunto dalla fuga precedente. Una spirale, appunto, un andirivieni che non segue mai il percorso già tracciato ma procede per nuove circonvoluzioni. Un “grafo spiraliforme” - per usare le parole dello stesso Barilli - “dove i ritorni avvengono a diverse quote di sorvolo, e quindi non portano mai a ritrovare pari pari le stazioni già attraversate”. Come tutti gli artisti della sua generazione, Ilario Rossi compie il proprio apprendistato durante il ventennio fascista, partecipando alle varie mostre del sindacato che lo condurranno ad esporre precocemente alla quadriennale romana (già nel ’35) e alla biennale di Venezia (già nel ‘36), attraverso una pittura figurativa di stampo novecentista, o comunque afferente al clima di ritorno all’ordine gradito al regime, in cui, come è stato notato, si possono rilevare gli influssi di Giorgio Morandi, suo maestro d’Accademia, e della Scuola Romana, Mario Mafai e Scipione in primis. La critica soprattutto dell’epoca si è molto prodigata per sottolineare l’importanza di Morandi negli esordi del pittore, soffermandosi sull’uso “tonale” del colore, sul significato “morale” del suo insegnamento, sulla sua indole “meditativa e studiosa”. A sostegno di una stima reciproca e fattiva, è il maestro che, sempre parco di complimenti, lo nomina direttamente nella breve relazione sul corso di Incisione che il 2 ottobre 1935 invia al Direttore della Regia Calcografia di Roma dove scrive: “… Dato che la scuola funziona da pochi anni non posso parlare di artisti di valore che in essa si siano formati ma semplicemente di allievi che danno bene a sperare. Essi sono: Bandieri Giorgio, Bartoli Giuseppe, Chiappelli Aldo, Mascellani Norma, Natali Giuseppe e Rossi Ilario”. Per Morandi che, secondo lo stesso Rossi, se sollecitato dava al massimo un po’ di credito “a Cezanne e Seurat, e, tra gli antichi, a Piero della Francesca e Masaccio e alle incisioni di Rembrandt”, quel “danno bene a sperare” è uno sbilanciarsi già oltre le sue consuetudini. Il giovane Rossi, da par sua, dapprima lo schernisce dedicandogli un carro allegorico carico di bottiglie giganti durante la festa delle matricole del 1931, per poi, anni dopo, ammettere di aver capito “la sua ricchezza, nella precisione del segno, nell’intimità della visione, in una pittura che è poesia”. Rievoca l’episodio Pompilio Mandelli: “Il primo incontro con Ilario Rossi fu piuttosto turbolento. Eravamo nel 1932 e una mattina Ilario entrò assieme a Pino Natali, nell’aula di Figura disegnata del Liceo Artistico di Bologna, mentre noi dell’ultimo anno eravamo intenti a seguire la lezione del prof. Giovanni Romagnoli (Ilario era già iscritto all’Accademia e frequentava il corso di Decorazione del prof. Achille Casanova). I due dell’Accademia, con in mano i loro berretti azzurri da goliardo, ci chiesero l’obolo per la realizzazione del carro rappresentante le Belle Arti nella sfilata alla festa delle matricole. Il carro progettato per quell’anno era dedicato alla figura di Marinetti-cuoco […]. Noi della IV liceo decidemmo di non aderire alla colletta perché convinti che il carro dell’anno prima, ‘Natura morta 900’, con un’enorme bottiglia, un candeliere, un vaso e una specie di manichino, fosse stata una canzonatura all’arte del prof. Giorgio Morandi. Sul carro “Morandi” (progettato da Ilario) divampò tra alcuni di noi una discussione abbastanza animata tanto che il prof. Romagnoli ci invitò ad uscire nel corridoio dove la diatriba si fece più accesa…”. Ilario Rossi poi si ravvide, ok, riconobbe in Morandi il suo maestro e i due sarebbero rimasti amici per la vita. Tuttavia, saremmo per ridimensionare tale ascendente, per un motivo molto semplice: è indubbio che un’opera come “Paesaggio” del 1935 richiami molto da vicino i paesaggi del primo Morandi, soprattutto quello del 1913, o che “Campo di bocce” del 1936 ammicchi alle vedute grizzanesi del maestro, così come “Solidi e stipo” del 1934 sembra citare quasi alla lettera le nature morte morandiane del periodo metafisico. È altresì indubbio che in opere come “Il Ritratto della madre” (1942) o, ancor più, “Ritratto di donna montanara” (1939), Ilario Rossi abbia guardato a Scipione. E se proprio vogliamo continuare a divertirci con i rimandi, alcuni interni domestici come “Cucitrice” o “Figure in ambiente”, entrambe del ’35, recano, nella plasticità delle masse, l’eco delle composizioni di Ottone Rosai a cui si rifacevano a loro volta gli artisti bolognesi dell’Orto, da Corazza a Poggeschi. Ma è altrettanto vero che questo primo periodo, per Ilario Rossi, non è che una parentesi, come lo è stata per quasi tutti i suoi compagni di Accademia nati intorno gli anni ‘10, da Norma Mascellani a Pompilio Mandelli, da Mario Bonazzi a Luciano Bertacchini. Come abbiamo già avuto modo di scrivere altrove, “se si analizzano le opere di questi artisti durante gli anni ‘30 non sarà difficile cogliere un comune sentire, una certa analogia che le avvicina, condizionate come sono dal clima dell’epoca, dall’appello al ritorno all’ordine, dai dettami del realismo sociale, dalle esigenze di un’arte di propaganda, dal linguaggio arcaicizzante e sintetico del dominante Gruppo Novecento [...]. Solo dopo ognuno troverà la propria strada”. Così sarà per Rossi e sarà una strada sulla quale Morandi non lo si incontrerà, praticamente, più. Il dipinto che, a nostro avviso, meglio rappresenta il passaggio dal prima al dopo, il primo vero dipinto che potremmo considerare compiutamente di Ilario Rossi è “Primavera buia” del 1947. Il suo amore verso il paesaggio e la natura appare evidente fin dal periodo della formazione, i primi paesaggi datano 1930. Nel mezzo della sostanziale omologazione caratterizzante gli anni giovanili è interessante, tuttavia, individuare alcuni esiti “fuori contesto” che sembrano già anticipare quello che avverrà, come se il vero essere dell’artista già covasse nel profondo e in alcuni momenti di “libertà” quasi inconscia emergesse spontaneamente. “Neve a San Luca” del 1932 precorre di una trentina d’anni le vedute per cui Rossi resterà famoso, così come bisognerà attendere qualche decennio per rivedere una stilizzazione tanto estrema quanto quella di “Paesaggio” del 1934 che già sembra strizzare l’occhio a Nicolas De Stael 20 anni prima che lo conoscesse. “Primavera buia” invece si collega in maniera più coerente alle vedute naturalistiche degli anni ’30 ma già porta quella pennellata densa e materica che pare presagire la svolta informale. Al centro, protagonista della composizione, è quell’ alberino che diventerà per Rossi una sorta di marchio distintivo, lo stesso alberino che faceva capolino già in alcune vedute precedenti e che torna ancora più protagonista in “Paesaggio con albero” delle Collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, dello stesso anno. Siamo nel periodo del Gruppo “Cronache” quando, dopo la caduta del regime fascista, Rossi, insieme a Minguzzi, Borgonzoni, Mandelli, Corsi e Ciangottini, si fa portavoce, anche nell’ autarchica Bologna, di quella ventata di ringiovanimento che spazzò l’Italia intera. “Cronache” era anche una galleria ed una rivista settimanale che raccolse in parte l’eredità dell’“Orto”, fondata e diretta da un giovane Enzo Biagi che sarebbe diventato grande amico di Rossi. Anni dopo, nel 1976, chiamato a introdurre la mostra “I nudi di Ilario Rossi” per la Galleria Palmieri di Milano, esordirà così: “Caro Ilario, ho un solo titolo per scrivere questa paginetta: l’amicizia”. Biagi firmerà, l’anno successivo, anche la presentazione della cartella “Scenario per un prodigio” dove annota: “Si capisce, anche senza ricorrere all’anagrafe, che Ilario Rossi è nato in Emilia: basterebbe guardare questi paesaggi. Sono concreti e fantastici, come del resto le bottiglie di Morandi…”. La scomposizione formale di stampo postcubista che accomuna molti artisti durante quel momento, attecchisce in Rossi meno rispetto ad altri (pensiamo a Romiti, a Vacchi, a Pulga). Si nota in lui uno sfaldarsi delle forme dai rimandi espressionistici in cui però le forme non arrivano mai a sfaldarsi del tutto, perchè come scrive Arcangeli “l’astrattismo non sarà mai, probabilmente la sua vocazione; anche per quel suo bisogno innato di ancorare l’opera a una struttura profondamente sentita e sostanzialmente reale”. Ora, non va qui dimenticato che tutti gli artisti nati intorno al 1910 crescono e si formano in un clima profondamente figurativo. Quando d’improvviso cambia il mondo e sono travolti come d’incanto dalla forza delle avanguardie, non tutti riescono ad attuare il cambiamento di passo necessario per non essere tagliati fuori. C’è chi ci riesce meglio (Minguzzi e Mandelli), c’è chi ci riesce peggio (Mascellani), c’è chi non ci riesce affatto (Bonazzi), c’è chi ci riesce ma con un po’ di ritardo (Rossi). Gli artisti più giovani di una decina d’anni non sentono questo vincolo, i Pulga, i Nanni, i Bendini, i Vacchi o i Romiti, sono molto più liberi nell’affrontare la sfida della contemporaneità, non hanno fardelli di cui doversi liberare prima di misurarsi con il nuovo. Seguendo la ricostruzione che fa Andrea Tugnoli, dall’altro lato rispetto agli artisti di “Cronache”, “si cominciano a muovere Vasco Bendini, Giuseppe Ferrari, Bruno Pulga, Sergio Vacchi […]. Cominciavano allora ad operare anche Alfonso Frasnedi, Concetto Pozzati, Renato Barilli, Pirro Cuniberti, Mario Nanni. I giovani in quel tempo, nel racconto di Barilli, si trovavano alla birreria Lamma per leggere avidamente l’unica copia del libro “L’Art Autre” di Michel Tapiè che Mario Nanni era riuscito a procurarsi, considerata una vera e propria bibbia. Il testo fu tradotto per iniziativa di Nanni e successivamente dallo stesso Barilli […]. Secondo una testimonianza di Concetto Pozzati, allora poco più che ventenne, molti artisti seguirono le orme di Mario Nanni e passarono dalla figurazione direttamente all’informale”. Non Rossi, la cui gestazione è lunga e progressiva. La critica è da sempre unanime nel considerare il percorso di Rossi parallelo e mai interno a quello degli “Ultimi naturalisti”. Li affianca, li sfiora, senza mai farne parte. Perchè? E dire che è bolognese, conosce Arcangeli da sempre, dalla mostra del Sindacato Interprovinciale Fascista del 1941, pratica una pittura che potremmo definire incentrata sul sentimento panico della natura. E allora? Il motivo crediamo sia una mera questione di tempistiche. Alla mostra che Arcangeli cura nel 1954 alla Galleria “La Bussola” di Torino e che è una sorta di anticipazione di quanto avrebbe scritto e teorizzato pochi mesi più tardi, Ilario Rossi c’è, insieme a Bendini, Ciangottini, Corsi, Ferrari, Mandelli, Pancaldi, Pulga, Romiti e Vacchi. Poi nel celebre saggio apparso su Paragone nel novembre dello stesso anno Rossi è solo citato, in posizione defilata. Così Arcangeli: “…Accanto a loro si allineavano degnamente alcuni bolognesi cui non è forse stato dato di raccogliere pienamente le fila d’una vera vocazione al dipingere: un Ciangottini, sfortunato, un Ilario Rossi…”. Una frase che continua a suonarci criptica. Se però Arcangeli avesse scritto il saggio un paio d’anni più tardi siamo convinti che Rossi vi sarebbe rientrato a pieno titolo. Nel ’54 invece Mandelli, Pulga, Vacchi, Ferrari (tutti, eccetto Mandelli, più giovani di una decina d’anni), per non parlare di Morlotti, erano tutti più avanti di lui sulla via dell’informale. In quel periodo Rossi continuava a dipingere paesaggi in cui però la natura era resa in termini ancora descrittivi, era guardata ancora dal “di fuori”, troppo “dal di fuori” per poter far esclamare ad Arcangeli: “la natura che si guarda, si respira, si sente, si soffre ancor prima che la si dica a parole”. Ebbene, per Rossi in quegli anni la natura si dice ancora a parole. Se si analizza tuttavia la sequenza di opere da “Nevicata verdastra” del ’49 a “Nevicata verdastra” del ’54 ci si renderà conto di come la tendenza sia verso una dissoluzione progressiva delle forme che si fanno via più liquide, prive di contorni, suggestioni di “naturalismo astratto” le definiva Luigi Carluccio, fino a sfociare, a partire dal ’57 circa, nell’informale tout court. L’opera che, come già “Primavera buia”, segna per noi il passaggio da una visione della natura ancora descrittiva ad una in cui la natura è vissuta in maniera ribollente e ctonia è “Paesaggio con albero fiorito”, del 1958, opera che di “Primavera buia” potrebbe essere considerata la versione informale, dove un po’ spostato sulla sinistra si può riconoscere lo stesso alberino, tradotto però secondo la grammatica tachiste. È quello, del resto, il panorama che Rossi vedeva da casa sua, come egli stesso afferma in una delle rare interviste che ci sono giunte: “Io abitavo in una strada, via Beretta Rossa, in Santa Viola, dove possedevo un podere immerso nel verde, tra campi e alberi da frutto: di là io vedevo San Luca. Quante volte ho ritratto San Luca guardando la collina dall’ammezzato di casa, che per me rappresenta la giusta misura, la giusta posizione per riprendere i paesaggi: i miei quadri, infatti, non si discostano da questa regola. Tutto ciò però non si è mai verificato per un preciso intento meditato, studiato appositamente, in realtà è un’esigenza nata spontaneamente nella mia pittura”. Il Rossi informale dura una manciata d’anni, dal 1956 al 1959 circa, un lasso di tempo breve durante il quale però partecipa da protagonista ad un movimento internazionale che unisce Europa, Stati Uniti e Giappone. Il lento dissolversi delle figure che abbiamo fino a qui constatato esplode ora definitivamente in dipinti che recano sulla propria superficie spatolate dense di materia dall’andamento orizzontale e verticale a creare una sorta di pattern, di scacchiera, i cui riquadri sembrano decrescere mano a mano che salgono o viceversa, “larghi masselli colorati su diversi punti focali, di tessere e tacche di colore, ora brillanti perché espongono i loro solchi e le loro creste ai risentimenti della luce che le sfiora, ora invece opache come fossero rientrate nella zona d’ombra” per riprendere le parole di Carluccio. Opere grazie alle quali molti critici hanno accostato il lavoro di Rossi a quello di Nicolas de Stael. Opere grazie alle quali Rossi è chiamato a partecipare alla Biennale di Venezia del 1958 (esporrà 6 tele recenti, tutte datate tra il 1957 e il ‘58) e ad esporre alla Galleria del Milione a Milano, nel 1960. Oggi Ilario Rossi è artista poco considerato, per usare un eufemismo, dal mercato dell’arte di serie A. All’epoca, giusto per rendere l’idea di come possano cambiare le percezioni nel corso della storia, nella collana di monografie che la Galleria del Milione dedica ai suoi artisti, Ilario Rossi è in compagnia di Pablo Picasso, Carlo Carrà, Marc Chagall, Mario Sironi, Paul Klee, Filippo De Pisis, Ottone Rosai, Wols, Marino Marini, Giorgio De Chirico, Giorgio Morandi. Agli inizi degli anni ’60, però, la mutazione, inesausta, che segna l’opera di Rossi è ancora in azione. Percorrendo la scansione cronologica delle opere ci si accorge infatti che qualcosa di nuovo sta accadendo, qualcosa forse di inaspettato, perché tra le spesse spatolate materiche che si addensano sul supporto, qualcosa riemerge, la figura, ebbene sì, la figura così faticosamente dissoltasi nel corso di un decennio, spazzata via dall’energia brutale e impetuosa dell’Informale, sembra adesso lentamente ricomporsi. In “Paesaggio del 1965, o in “Case e alberi bianche” e “Nevicata”, del ‘66, è come se “i larghi masselli” di Carluccio, tra le infinite possibilità di combinazione, abbiano assunto la vaga conformazione di un paesaggio. Ecco la spirale, di cui si diceva. La traiettoria evolutiva di Rossi è come se avesse raggiunto nell’informale il punto più estremo consentitole e adesso, esaurita la spinta propulsiva, stesse compiendo un’inversione di marcia e tornasse indietro, verso i più rassicuranti lidi della figurazione. In mezzo però c’è la Biennale. Venezia, 1964. Raggiunto il grande successo Rossi è invitato alla Biennale di Venezia che gli riserva stavolta una sala personale e, per l’occasione, l’artista realizza una serie di tele di ampie dimensioni (le più ampie che abbia mai realizzato) che resteranno un unicum nella sua produzione. Ne esporrà 12, tra cui anche “Liberty” e “Come un affresco”. Saranno una sorta di parentesi, una digressione conclusa in sé stessa ma al contempo anche il vertice più alto mai toccato dall’artista. Non si ripeterà più su quei livelli e non è facile spiegarne il motivo. Sta di fatto che all’appuntamento più importante della sua vita, Rossi si presenta al meglio delle sue possibilità con qualcosa di inedito e per certi versi sorprendente, tele che già stanno abbandonando la matericità, l’istintività, la violenza informale per recuperare stilemi decorativi e bidimensionali vicini al linguaggio liberty, in cui già si registra il ritorno alla figura, e in particolar modo alla figura umana (e dove persiste l’influenza di De Stael, come dimostra icasticamente un’opera come “Miscellanea”). Nella presentazione in catalogo, Marcello Venturoli scrive: “Ma i naturalisti astratti di oggi, tra cui pongo, e in una posizione assai aperta e consapevole, Ilario Rossi, operano tenendo presente istanze formali ora vivissime in tutto il mondo: dalla riproposta figurale a quella liberty, dal modo col quale far punto con l’Informale senza il passaggio obbligato e masochistico nel neo-costruttivismo, nel neo-dada e nella pop-art”. E lo scrive per la Biennale del 1964, la Biennale che segnerà il trionfo proprio della Pop Art. Mentre, insomma, la storia dell’arte prosegue la sua corsa - per restare in ambito bolognese, pensiamo ad artisti come Mario Nanni o Vasco Bendini che dall’informale si apriranno all’arte ambientale, alla performance, all’arte povera - Ilario Rossi, giunto al culmine della sua vita professionale e probabilmente anche di quella creativa, si trova davanti ad un bivio: o assecondare le tendenze dominanti nelle quali, evidentemente, più non si riconosce, e continuare a spingersi oltre, o assecondare le sue intime inclinazioni e proseguire in solitaria, riparando verso mete più confortevoli. Fino a lì le due strade avevano combaciato, ora non più. Sceglie la seconda e proseguirà da solo. Non è stato l’unico, a quanto pare (sempre per restare a Bologna, pensiamo a Vacchi, a Ferrari o allo stesso Mandelli). “Già Maurizio Calvesi” - scrive a tal proposito Claudio Spadoni - “aveva parlato di ‘figurabilità’ a proposito di una trasformazione in senso figurale, appunto, di certo Informale. E non si trattava di un rilancio dell’ormai logora figurazione realista […] Era piuttosto l’esigenza di far riemergere l’immagine, ma in un’accezione ‘autre’, ovvero di quasi naturale derivazione da quanto poteva essere implicito nelle pur diverse fenomenologie dell’Informale”. Osserva invece Barilli: “Alla fine degli anni ‘50, l’Informale ha consumato praticamente tutte le possibilità interne, tutte le configurazioni, le varianti che potevano essere consentite rimanendo entro le sue coordinate; alla nuova generazione si sarebbe offerto solo un misero destino di epigoni, a meno di non rovesciare la tendenza e di passare a sperimentare possibilità formali opposte [...]. In realtà oggi comprendiamo che dietro le esigenze di ritrovare il gusto dell’ordine, di forme chiuse e definite, da cui a un tratto vengono presi i giovani artisti al di là del capo degli anni ‘60, stavano esigenze ‘profonde’: riprendere a fare i conti con la tecnologia, e quindi anche con motivazioni di ordine sociale-collettivo…”. Ilario Rossi in quel momento ha 50 anni, che non sono tanti ma nemmeno pochi, soprattutto allora, non ha probabilmente né la forza né la voglia di mettersi a “rovesciare” tendenze, né ancor meno di mettersi a fare i conti con una tecnologia che da lì in avanti avrebbe intrapreso un’ascesa inarrestabile e vertiginosa. Egli era ed è un uomo dei primi del Novecento, nato e cresciuto in un’epoca preindustriale, un uomo della provincia, un cantore della natura così come si esprimeva nel paesaggio che egli vedeva dinanzi casa, alle porte di Bologna, l’albero, le cascine e San Luca sullo sfondo, è quello che desidera dipingere, i cicli delle stagioni, la neve, il sole, il freddo, l‘imbrunire, il crepuscolo. Spazialisti, nuclearisti, cinetici, optical, video arte, body art e arte concettuale, attengono ad un universo futuribile destinato ormai ai posteri. È una posizione assimilabile a quella di Arcangeli o di Pasolini, lo schierarsi a favore di una civiltà in via di estinzione, costretta dal boom economico a far posto al nuovo ceto borghese e alla nascente società dei consumi. Del resto, è per ritrovare un contatto più diretto con la natura che Rossi prima si imbarca, insieme a Farpi Vignoli, nell’impresa dell’acquisto di Palazzo de’ Buoi-Rodriguez, nel mezzo della campagna di Castel San Pietro Terme, poi facendosi costruire una bella casa-studio a Monzuno, a 700 m. d’altezza, sull’Appennino bolognese. Con il consueto afflato lirico, Franco Basile scrive: “per anni Rossi ha lavorato in un casolare alla periferia di Bologna alternando le pose d’atelier ai fotogrammi en plein air. Poi, come successe a Morandi, nuovi edifici si pararono davanti ai suoi occhi, mattoni e cemento al posto dei campi, un catalettico sipario dinanzi a vecchie attenzioni e affetti…”, paventando così l’avvento di una modernità matrigna che, insensibile, giunge a porre fine all’ideale arcadico sognato dall’artista. Dai primi anni ‘60, dunque, il lavoro di Rossi si impone per il ritorno alla figura. Il pittore introduce allora, nota Pier Giovanni Castagnoli, “un punto di distanza tra le emozioni e il proprio ritratto di natura, e i dipinti che vennero copiosi, nei lunghi anni che conducono a noi, si assestarono su una visione meno arrischiata”. Spicca infatti un certo grado di ironia nelle tele del periodo, il Colle della Guardia, così materico e spigoloso fino a poco tempo prima, viene sottoposto a un processo di stilizzazione che lo porterà ad assumere i contorni di un semplice profilo, una linea spessa che scende verso destra e alla cui sommità San Luca è ridotto ad un semplice puntino, il tutto colorato da tinte irreali, acide, antinaturalistiche, verdi accesi, gialli limone, rossi infuocati. Un’ironia ludica tale da far assumere al paesaggio l’aspetto talvolta di un seno di donna, talaltra di una cassata siciliana, talaltra ancora di una torta alla meringa. Uno schema da cui l’artista trarrà un’infinità di varianti, leggere, lievi, disimpegnate, che il tempo forse di sgomitare è passato. Basti vedere “Nevicata” del 1975 o “Paesaggio grigio rosso” del 1982, ma gli esempi potrebbero essere molteplici, riprodotti anche in serigrafia e litografia. Non solo le colline bolognesi e San Luca immortalano i suoi pennelli ma anche marine, in numero minore ma anch’esse ricorrenti, come “Mare e verde” del 1984, una veduta essenziale dal sapore onirico/espressionista, con il mare di colore verde e la spiaggia rossa. E non solo paesaggi, anzi. Sfatiamo qua il mito di Rossi come pittore di paesaggi perchè cospicue sono anche, per numero e soprattutto per qualità pittorica, le nature morte, sempre a metà strada tra astrattismo e figurazione, con in primo piano le sedie su cui poggiano oggetti di vario uso, stagliati su sfondi rosso shocking o blu oltremare, in alcune di esse pare risentire l’eco del periodo metafisico morandiano o sironiano, come in “Fiori secchi e oggetto” del 1979 o “Oggetti bianchi” dell’80. Mentre i paesaggi sembrano più immediati, realizzati di getto, in modo quasi istintivo, le nature morte appaiono più ponderate, più meditate, dotate di maggior struttura. In quasi tutte compaiono vasi o mazzi di fiori che incarnano un sottogenere che Rossi visita e rivisita periodicamente per tutta la carriera e a cui qui abbiamo voluto, non a caso, dedicare una sezione a sé stante. L’ultimo mazzo di fiori è datato 1994, l’anno della sua morte. Anche il genere classico della figura umana viene indagato da Rossi con saltuarietà ma con regolarità. Se escludiamo il periodo formativo, è quella di Rossi una figura umana priva di volto, priva di connotati, che risponde ad un ideale non diverso da quello sotteso alla pittura di paesaggio se è vero che l’uomo, come il paesaggio, è parte integrante della natura e non vi si contrappone come la dicotomia natura/cultura potrebbe far pensare di primo acchito. Sono corpi, esseri, in cui scorre la vita, destinati a nascere, crescere e morire non diversamente dalle piante e dagli animali, “corpi che hanno la morbidezza sensuale delle colline che tu dipingi, donne forti, in quelle luci verdi, rosa, blu che si lasciano contemplare o si abbandonano alla meditazione”. Così Enzo Biagi. Allo stesso modo il ricorso al più classico dei “memento mori”, incarnato dalla natura morta e dai mazzi di fiori, non vuole che sintetizzare l’unione inestricabile tra la vita e la morte, la bellezza e il dolore in quanto facce di quella stessa medaglia che è l’esistenza. Sta qui il “realismo esistenziale” di Rossi. Dagli anni ‘70 egli si fa alfiere di una battaglia a fondo perduto in difesa di quei principi che il progresso, e di conseguenza l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la globalizzazione, stanno via via cancellando. Sono gli stessi anni in cui mentre Rossi si dedica alla pittura di paesaggio, Mario Nanni realizza il ciclo “Mitico computer”, quadri-oggetto ispirati per celebrare la nascente era informatica. Nelle vedute di Rossi, tuttavia non si avverte nostalgia, astio, recriminazione. Sarà perchè la campagna, seppur cambiata, è sempre lì, sarà perchè San Luca e la collina sono sempre lì, basta affacciarsi alla finestra per vederle, sarà che Monzuno dove adesso si è costruito una bella casa con atelier annesso, è sempre meta raggiungibile agevolmente, ma Rossi non si abbandona mai ai ricordi o all'amarezza, non ambisce ad immortalare il passato, qualcosa che non c’è più con intento polemico. Il suo resta comunque un approccio positivo, comunque proiettato al futuro, consapevole di quanto si possa e non si possa cambiare. Lo dimostra una serie di tele che vedono la luce nella seconda metà degli anni ‘80 in cui l’informale sembra riguadagnare terreno e Rossi ritrovare il vigore di una volta. “Ombra verticale” del 1988, o “Prigioni” del 1989, sprigionano un’energia, nonchè una ritrovata vena creativa, che di norma non si associa ad un ultrasettantenne che dipinge da oltre 50. Un’altra parentesi, un altro giro della spirale. La maturità dell’artista è un divertito girovagare, uno spaziare tra i generi e gli stili, tra l’astratto e il figurativo, tra la densità e la rarefazione della pittura. A volte aggiunge materia, creando veri e propri volumi, a volte la toglie, incidendo e graffitando l’impasto. Nature morte, ritratti, vasi di fiori. Paesaggi, colline, marine. San Luca, sempre, bianco, rosso, verde, marrone. La tensione si è stemperata, l’evoluzione venuta meno, il movimento, da unico, ha cominciato a sfilacciarsi, a perdere di compattezza, come un fiume che scende da monte rapido per chilometri, rallenta in prossimità della pianura e infine sfocia nel mare e lì si placa. Un continuo andirivieni, dipingere per il solo piacere di farlo, “Rossi andava e veniva dai suoi soggetti” ha scritto Beatrice Buscaroli. Le opere degli ultimi anni rendono paradossalmente meglio di altre il senso delle parole dell’artista quando afferma: “la pittura è la cosa più bella in assoluto, e a me fa provare l’emozione più grande che un uomo possa provare [...]. Anche solo a guardarla. Soprattutto dopo qualche anno che ho dipinto un quadro, mi piace riguardarlo e accorgermi che con la pittura ci ho preso!”.