ILARIO ROSSI le Biennali di Venezia, Centro Stampa Regione ER, Bologna, 2018l
Sandro Malossini
Ilario Rossi partecipa per la prima volta alla Biennale di Venezia nel 1936 all’età di venticinque anni. L'opera “Paese” viene esposta nella sala 40, accanto a più noti e già affermati artisti come Antonio Donghi, Leonor Fini, Pio Semeghini. In quel periodo, e ancora in anni successivi, la partecipazione all’importante rassegna veneziana era decisa da una commissione: quell’anno è composta da otto membri giudicanti, tra cui Gino Severini ed Arturo Tosi. Un esordio che per Rossi si presenta duplice, da una parte sotto un occhio vigile alle esperienze delle avanguardie e delle ricerche più innovative (si pensi al Severini futurista e poi cubista), dall’altra con l’attenzione a un percorso più tradizionale e paludato (basti ricordare il neoclassicismo semplificato o il Novecento di Arturo Tosi). Senz'altro un momento di importante stimolo per un giovane che si trova ad esporre assieme ai conterranei Nino Bertocchi, Alessandro Cervellati, Lea Colliva, Nino Corrado Corazza, Garzia Fioresi, Pompilio Mandelli, Luciano Minguzzi, Guglielmo Pizzirani, Bruno Saetti, Cleto Tomba, Farpi Vignoli: alcuni già suoi maestri all'Accademia di Belle Arti di Bologna, altri compagni di viaggio ed amici come Mandelli. Al contempo è anche l'occasione per apprezzare dal vivo opere viste solo in riproduzione come le ventiquattro di Edgar Degas, nella retrospettiva che la Francia dedica nel proprio Padiglione al grande artista. Nel 1940, a quattro anni dalla precedente esperienza, Ilario Rossi torna alla ventiduesima Biennale con l’affresco “La famiglia”, esposto nella sala 3, assieme ai bassorilievi di altri due artisti bolognesi, Paolo Manaresi e Enzo Pasqualini: è il risultato del concorso tematico sulla famiglia promosso dal Sindacato nazionale fascista di Belle Arti. L'affresco, che rimane documentato in fotografia perché più volte riprodotto nella stampa dell'epoca, segna un'importante svolta nella stagione del nostro che tornerà, in altri anni, nel 1948, a questa tecnica per realizzare “L'Eccidio di Marzabotto” in un edificio (oggi sede di una Scuola d’infanzia) del parco della Montagnola di Bologna. L'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna conserva in esposizione permanente i monumentali disegni preparatori (in scala 1:1, 10 metri per 3) donati dal Comune di Monzuno. Lo stesso 1948 segna anche il ritorno a Venezia, con “Mele e bimba”, “Donna che si sveste” e “Scuola del nudo”, esposte nella sala 36 accanto ad Aligi Sassu, Enrico Paolucci, Enzo Pasqualini. E' la Biennale dei grandi nomi nella Commissione a cui spetta la scelta e l'ammissione degli artisti, ne fanno parte Carrà, Casorati, Longhi, Morandi, Pallucchini, Ragghianti, Semeghini, Venturi. E' anche la Biennale dei premi assegnati ad artisti che faranno la storia dell'arte del Novecento: Georges Braque, Henry Moore, Giorgio Morandi, Giacomo Manzù, Marc Chagall, Mino Maccari, Renato Guttuso e Alberto Viani. La vetrina veneziana è sempre più importante e si prepara a quello che accadrà negli anni del boom economico, che porteranno, di lì a poco, il mondo internazionale dell'arte in laguna. E’ il periodo in cui Ilario Rossi elabora un linguaggio sempre più autonomo rispetto alle suggestioni morandiane che lo avevano accompagnato, si esplica una maturazione espressiva che ne farà un artista completo, attento e sensibile anche alle nuove sperimentazioni che troveranno casa in Francia poco dopo. Nel 1952 il critico Michel Tapié pubblica “Un art autre”, testo teorico importante per Rossi, come per altri artisti bolognesi ed italiani, ma che non sposerà mai, rimanendo un pittore figurativo, che pure utilizza la scomposizione e la frantumazione dell'immagine ma solo per sottolinearne la presenza. Nuovamente in Biennale nel 1950 con un'opera della tradizione, “Ritratto della madre”: soggetto e composizione ricalcano paradigmi consolidati, già assimilati anche dagli esponenti della “Scuola romana”, Scipione e Mafai in primis. Il quadro ad olio è nella sala 21, che ospita anche una scultura del futuro collega di Accademia Quinto Ghermandi, una di Emilio Greco e lavori pittorici di Francesco Trombadori e Orfeo Tamburi. Anche questa edizione premia la migliore arte del periodo: per la pittura Henry Matisse e Carlo Carrà, per la scultura Ossip Zadkine e Luciano Minguzzi. Accanto a Rossi, trovano spazio in questa manifestazione anche le opere di Aldo Borgonzoni, Giovanni Ciangottini, Pompilo Mandelli, Carlo Corsi e il citato Minguzzi, tutti artefici dell’esperienza bolognese raccolta attorno alla Galleria Cronache, da loro stessi fondata nel 1942 e gestita per alcuni anni. Anche la ventisettesima edizione del 1954 lo vede presente. La sala 14, che ospita le sue cinque opere, propone anche Lucio Fontana, Leoncillo Leonardi, Fabrizio Clerici, Giannetto Fieschi, Riccardo Licata, Ennio Morlotti e i “bolognesi” Sergio Romiti e Pompilio Mandelli. I lavori esposti sono quattro paesaggi, dal vago sapore postcubista, e una figura, un nudo di donna seduta, forse il risultato di uno studio dal vero con una modella. La struttura compositiva di queste prove non lascia dubbi sulla visione che l'artista ha del cambiamento espressivo maturato in quegli anni. Padrone del quadro, costruisce strutture solide e figurate, dove la materia si insinua per sovrapporsi a linee e forme, con agglomerati di bruni, di terre sofferte ed aride, una materia che però viene sempre respinta e relegata a un ruolo di comprimario: la capacità di Rossi è nella lettura a latere dell'informale, che riesce a trascrive come un sottofondo musicale nelle proprie opere. Questa stessa edizione della Biennale allestisce personali uniche, ormai irripetibili: quelle di Savinio, di Prampolini, di Capogrossi e di Santomaso, per rimanere in ambito nazionale, o quelle, ancora più prestigiose, dedicate a Gustave Coubert (in tre sale), Jean Arp, Joan Mirò e Max Ernst. L'inevitabile confronto con la qualità e la quantità di opere presenti, porterà molti artisti, e tra questi crediamo anche Ilario Rossi, a ricercare sempre più una identità personale, unica e priva di legami con “maestri” e correnti. Nel 1958 la partecipazione di Rossi è di primo piano: presenta sei opere fortemente caratterizzate da quegli elementi che sono alla base dell’analisi critica che sviluppa Francesco Arcangeli con la teoria rubricata “Ultimo naturalismo”. Anche se l’artista e il critico non aderiranno mai a una lettura condivisa, alcuni momenti, i più lirici, come le linee delle colline bolognesi che accompagnano lo sguardo su San Luca, possono formare un tessuto narrativo capace di ben accogliere e di fare riconoscere le parole di Arcangeli. Le opere vengono ospitate nella sala 21, allestita da Carlo Scarpa, che riesce a fare convivere alcune delle anime più belle e solitarie di quegli anni: Chighine, Giunni, Milani, Spacal, Valenti, oltre allo stesso Rossi. Osvaldo Licini riceve il premio per la pittura e Umberto Mastroianni quello per la scultura. 1964, trentaduesima Biennale, a Venezia la più grande rassegna mondiale d'arte contemporanea: trentaquattro nazioni partecipanti, mostra “Arte d'oggi nei musei”, personali di sedici pittori, otto scultori, un acquarellista e un incisore italiani; retrospettive di Felice Casorati, Pio Semeghini e Pinot Gallizio. Ilario Rossi, presentato in catalogo da Marcello Venturoli, espone in una sala personale (la 34) dodici opere di grandi dimensioni realizzate nell'anno precedente. Il Padiglione degli Stati Uniti, sotto la regia del commissario ordinatore Alan Salomon, rivoluziona con i suoi artisti il linguaggio dell'arte: la Pop si afferma come nuovo movimento globale. Jim Dine, Jasper Johns, Louis Morris, Kenneth Noland, Robert Rauschenberg, Frank Stella, John Chamberlain e Claes Oldenburg sono al centro dell'attenzione mondiale. Ma Rossi è autore dalle profonde radici storiche, la sua cultura visiva viene dal Trecento, attraversa il Rinascimento, vive il Barocco, passa attraverso l'Impressionismo, tocca le Avanguardie; e non cede il passo alla dimensione pubblicitaria, alla comunicazione di massa, alle nuove tecnologie, tanto necessarie (e indispensabili) agli artisti della Pop. Queste opere, che concludono le sue presenze veneziane, raggiungono l'apice del linguaggio di Ilario Rossi, rappresentano la sintesi di una ricerca espressiva che raggiunge l’obiettivo appagato di una pittura piena e moderna. E senza tempo, come solo la grande arte sa essere.
Di qua e di là dal fiume, Centro Stampa Regione ER, Bologna, 2018
Ilario Rossi, paesaggi dell'anima. "Le opere di quei primi anni'50 segnano il passaggio meditatissimo verso una visione sempre più interiorizzata, ovvero un 'naturalismo di partecipazione' che poi lo accostò in qualche misura alla ristretta schiera degli 'ultimi naturalisti' sui quali Arcangeli avrebbe fondato la sua appassionata militanza critica”. Con queste parole di Claudio Spadoni, che possiamo idealmente associare al primo quadro di Ilario Rossi presente in mostra (Paesaggio con macerie 1952), si costruisce il percorso artistico del Maestro bolognese che per questa occasione espositiva si è voluto circoscrivere a poco più di un decennio, anni fondamentali per la sua ricerca e definitiva maturazione. Con alle spalle più di vent'anni di mestiere segnati da una forte imprimitura figurativa che aveva avuto in Cezanne e in Morandi, suo maestro all'Accademia, una forte guida, Ilario Rossi si affaccia agli anni cinquanta con una personalità già formata ma ancora desiderosa di guardarsi attorno e lasciarsi circondare dal profumo e dalla poetica della pittura informale. Le tele di quegli anni provano ad accogliere la materia del colore, a sfaldare le immagini, a percepire la vibrazione di quei colori così inusuali alla sua precedente tavolozza. La partecipazione a mostre collettive, come quella del 1954 tenutasi alla galleria La Bussola di Torino, e curata da Francesco Arcangeli, lo vedono accanto a tutti gli artisti che il critico bolognese avrebbe poi definito Ultimi naturalisti. Ma per Ilario Rossi, quella ed altre mostre che seguiranno, saranno soltanto un momento di partecipazione, mai di adesione, che lo terranno sempre al lato della poetica arcangeliana, anche se in più di una volta le sue stesse opere saranno a testimoniare meglio di altre il pensiero espresso da Francesco Arcangeli nel 1954 con il saggio Gli ultimi naturalisti e poi, nel 1956 con Una situazione non improbabile. La non adesione alla ristretta schiera di artisti arcangeliani sarà l'arma vincente di Ilario Rossi, che conserverà sempre la sua identità personale senza dover mediare con pennelli e colori un pensiero che gli stava accanto ma non aveva la forza di costringerlo entro confini definiti. Questa sua libertà lo porta a raggiungere negli anni '58 e ' 59 ( Paesaggio scuro, Argine e Argine e case tutti del 1958) l'apice della sua ricerca di negazione della struttura figurativa, di rappresentazione fisica, lasciando al pensiero, e solo a quello, l'idea di forma interiore che si esplicita in segni scomposti che solcano la materia del colore, che strutturano ombre di ricordi annebbiati dal tempo e dalla memoria. E quando sembra che Ilario Rossi abbia totalmente sposato quel pensiero di totale negazione dell'elemento figurativo, magistralmente espresso da Michel Tapié nel suo saggio Un art autre del 1952, ecco una nuova rivoluzione accompagnare le opere che il Maestro bolognese inizia a realizzare sul finire del decennio e gli inizi degli anni sessanta. La figura, l'oggetto, il paesaggio si aprono varchi tra la materia ed il colore e poi sospingono quella porta dietro la quale erano stati rinchiusi per tutti gli anni cinquanta. Ritornano, prima sommessamente poi in maniera sempre più partecipe, ad abitare la tela e tutta la pittura che verrà nei decenni successivi. Gli esempi in mostra, come Torso del 1964 e Torso e pupazzo del 1965, opere particolarmente considerate da Ilario Rossi che li porterà rispettivamente alla Biennale di Venezia del 1964 e alla Quadriennale di Roma del 1965, appartengono alla nuova stagione, quasi una nuova primavera, per un artista che ha già più di cinquant'anni ma che sente impellente il bisogno di riappropriarsi di un nuovo passato, di seminare una nuova figurazione, di placare impulsi emotivi e gestuali per appoggiare gialli tenui, verdi autunnali, bianche nevicate sulle colline bolognesi. Le ultime due opere in mostra, Estate del 1967 e sempre dello stesso anno Paesaggio invernale chiudono idealmente queste breve percorso fatto in compagnia di Ilario Rossi lasciando a tutta la sua opera, che è venuta dopo questi anni, il piacere della pittura, la gioia dell'artista di mettersi al cavalletto e lasciare che tecnica ed emozioni diventino poesia.I